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Cap. 75 I miei uomini del domani...

"Mi sdraio?", aveva chiesto il ragazzo in lingua franca sconvolgendo l'assistente Atzara. 

"Sì, vedo te e per stasera abbiamo finito".

Il dottor Brender manteneva la concentrazione, senza concedersi di pensare altro. Ripeté ogni gesto, e il ragazzo non fiatò. Da ultimo però il medico trasse dalla sua sacca una siringa. Di quel giovane, voleva anche un campione di sangue.

Non che da quel modesto microscopio che aveva a disposizione, fosse venuta fin lì alcuna indicazione veramente utile, ma rifiutava di arrendersi all'evidenza e di dichiararsi spettatore impotente, il dottore.

Il ragazzo sospirò, vedendo che a lui riservava qualcosa di particolare.

"Prendo solo un po' di sangue", gli disse il medico, ma il sorriso del ragazzo gli fece capire che trovava buffa, l'idea che temesse la siringa.

"Ci sono altri federali, a Palazzo?", chiese, mentre l'uomo gli stringeva il braccio con un laccio.

"Parecchi", rispose sbrigativo.

"E la vostra presenza è nota a molti, a Glittica?"

Il medico cercò la vena, riempì la siringa in silenzio.

"No", rispose poi finito il prelievo:"Solo il comandante del presidio e il suo secondo, sono stati informati. Il re teme l'accoglienza che la sua gente ci riserverebbe, se sapesse di noi".

Il ragazzo abbassò la manica. "Mi spiace. Il mio è un popolo duro. Non saremmo degli ingrati, ma ci sono state date a credere molte cose sbagliate, ed è da temere che neppure l'evidenza ci renderà... cordiali.

Accettare di venire comunque, in queste condizioni, è titolo di grande merito. Vi sono enormemente grato, e spero che questa generosità sia ricompensata dal dio dei venti con una lunga vita serena e appagante".

L'Atzara mise giù quello che aveva in mano e fissò il ragazzo con tanta stupita intensità, che il giovane si inchinò appena.

"Vedo che non avete trovato finora alcuna gratitudine, né educazione, tranne quella del re, immagino. Eppure, sotto l'orgoglio mostruoso degli Inuri, c'è un popolo generoso, che liberato di tanti pregiudizi e di tante angherie, sarebbe un buon alleato.

Peccato che tutto stia precipitando così in fretta. Avevamo trovato, dopo Ergon, un'altra guida forte e saggia, e stavano per soffiare venti nuovi".

Ogni parola di quel ragazzo scendeva a bruciare nello stomaco del dottor Brender; c'era una pacata ragionevolezza, in lui, e un'apertura alla vita, un amore per la sua gente e un rispetto per loro stranieri che lo rendevano speciale, già quasi uomo, e già riconoscibile come una guida, un costruttore di mondi nuovi.

Avere per le mani una vita speciale, faceva inorridire il federale, che non aveva potuto fino allora difenderne una sola, di vita, per strapparla a quella invisibile, viscida bestia che allungava gli artigli. Strinse la sacca con gesto brusco.

"Domani vi farò mandare cibo", disse e voleva fuggire di lì.

Il ragazzo fu più pronto nell'impedirgli l'uscita:"Ancora una cosa", disse piano accompagnando le parole con un gesto che Leona usava spesso, per chiedere al signore di Chiura il permesso di parlare.

Il medico si fermò.

"Mio fratello... ", disse il ragazzo:"... Se dovesse essersi diretto anch'egli a Glittica... "

"Ti somiglia?", chiese l'Atzara, "Siete gemelli?"

Quello sorrise:"No, non abbiamo veramente lo stesso sangue. Ma i nostri padri sono molto amici e siamo cresciuti insieme, nati poco lontano e quasi contemporaneamente, io due soli mesi dopo di lui.

Quando il responsabile dell'Istituto ha chiamato gli allievi più grandi a prendere parte alla difesa, io e lui abbiamo vissuto con vergogna il suo rifiuto a prenderci. Le nostre balestre erano già all'altezza di un combattimento.

Ma lui ci ha tenuti da parte, affidandoci i piccoli; solo quando tutto è precipitato, abbiamo capito che aveva pensato a noi per un compito vero e non solo per tenerci al sicuro.

I bambini erano terrorizzati e non li avessimo guidati sarebbero finiti tra le braccia di quei pazzi. La malattia induce anche la follia, dottore?".

A questa domanda quello tacque, fissandolo interrogativo.

"Perché ho cercato di capire", riprese il ragazzo:"ciò che facevano; forse, decidere di volere il nostro cibo per sopravvivere avrebbe avuto ancora un senso.

Bestiale, ma ancora con un minimo di logica. Lottare contro tutto per sopravvivere. Ma loro sono andati oltre; dopo aver preso ogni cosa utile, hanno bruciato l'edificio.

Lo hanno fatto con gioia feroce, sapendo che alcuni di noi erano ancora dentro, feriti. Prima li hanno cercati per finirli. Poi, capendo che alcuni si erano nascosti bene, hanno dato fuoco a tutto. Sono rimasti fuori ad ammirare e a ridere, quando urla si sono alzate da dentro, finché non si è sentito più nulla e non vi è stato dubbio che nessuno potesse essere scampato al rogo".

Il ragazzo rimase silenzioso a lungo. "Io non ho potuto capire tanto odio", aggiunse poi. "Ho immaginato che la malattia sconvolga ogni cosa, anche la mente", e cercò lo sguardo dal dottore.

Quello chiuse gli occhi, perché c'era un limite alla forza con cui poteva sopportare un mondo devastato, e le immagini evocate dal ragazzo erano atroci.

"Io e mio fratello avevamo fatto prima scendere tutti i piccoli che avevamo potuto raccogliere nelle cantine, poi, risalendo per uno scivolo della legnaia, li abbiamo raccolti in un cortiletto sul retro e poi correndo nel frutteto fino a un capanno per attrezzi. Da lì abbiamo visto e sentito. Quelli hanno anche dato uno sguardo intorno, sembravano cercare qualche scampato.

Ma andavano veloci, senza crederci troppo, convinti fossimo tutti chiusi dentro. Alla fine sono andati via. Comunque... ", e stese un velo su tutto il resto, su tutto quello che era venuto dopo, su quei bambini terrorizzati da rassicurare, per i quali trovare del cibo, da guidare verso un rifugio che non c'era...

"... comunque alla fine ci siamo separati. Lui mi ha dato questo", e mostrò un corto pugnale dall'elsa elegante,"che poi è il dono che mio padre gli portò alla nascita, come padrino.

E io gli ho dato un ciondolo, che è l'oggetto più caro che abbia, perché lo protegga. Se aveste notizie di un gruppo di ragazzi arrivato a Glittica... Non che fossero diretti qui... Ma se avesse fatto la mia stessa scelta... "

Il dottore lo interruppe sbrigativo:"Chiederò alle guardie del presidio. Se non sanno nulla, forse addirittura potrebbero cercarli. Qualsiasi cosa dovessi sapere, farò in modo di informarti", e si rese conto di parlargli come ad un uomo.

E il ragazzo, come un uomo, s'inchinò composto al modo Inuri:"Che i venti vi guidino al migliore dei porti", salutò, e il dottore uscì rapido, con l'Atzara che ancora indossava lo zaino e prendeva il pentolone vuoto che un ragazzino gli tendeva.

Fuori nel buio freddo, con la luce fioca della torcia a illuminare a stento pochi metri di strada. Fuori, di corsa, a cancellare l'idea di ragazzi feriti, braccati e bruciati vivi, sotto gli occhi di bambini nascosti in un capanno.

Ormai nella piazza, l'Atzara, lo afferrò per il braccio.

"Dottore... "

L'uomo si fermò di colpo. Devo stare calmo, ricordò a se stesso, ho molto da fare.

"Dottore", continuò il giovane:"Quel ragazzo... sa chi è?"

"Mi ha scritto il suo nome", fu la risposta, ma capiva bene il dubbio dell'assistente.

"Somiglia incredibilmente... ", cominciò infatti quello.

"Ho visto", tagliò corto il dottore:"Motivo per cui non ti scappi una parola. Quando non ti avevo ancora chiamato, mi ha riassunto la strada che hanno percorso per arrivare a Glittica, e temo che almeno una occasione importante di contagio si sia verificata, circa venti giorni fa. Sapremo presto... Ma già un paio di loro hanno febbre. A questo punto sono sfiduciato".

L'Atzara strinse le mani alle cinghie dello zaino:"Portiamoli a Palazzo... mettiamoli subito nelle stanze... li cureremo meglio".

"Curare dici?", esplose il medico:"E con che cosa? Come abbiamo curato gli uomini di Ossidia? Come abbiamo curato il vecchio?

Se li portiamo a Palazzo otterremo solo che il signore di Chiura sappia che è gara aperta, tra lui e suo figlio, a chi salperà per primo per il regno delle ombre. Lo trovi divertente?", disse usando con foga le espressioni evocative che aveva appreso in quei giorni di terra straniera.

"Non una parola", ripeté poi più piano, con fredda autorità, e il giovane chinò la testa.

Quando Brender uscì infine nuovamente dalla stanza per la decontaminazione, era notte fonda. Titanio era ormai in coma; passò dalla sala a vedere le sue condizioni e vi trovò il re. Fu colto di sorpresa, perché non aveva previsto che Archés lo avrebbe atteso.

Non aveva preparato risposte. E d'altro canto, aveva delle necessità da sciogliere, circa quei ragazzi. Raccomandarne la sicurezza al presidio, trasmettere le informazioni circa l'altro gruppo di giovanissimi in fuga...

Considerò dubbioso se essere sincero o meno col re. Intanto, congedò il medico di turno in sala, che avrebbe dovuto sostituire già al ritorno dalla visita dal palazzo del drappo. Così rimasero soli. Leona montava la guardia all'ingresso, instancabile, ma il medico che smontava, per ordine del dottor Brender aveva chiuso uscendo la porta, tagliandola fuori da quanto si sarebbe detto dentro.

Il dottore si sedette, in un atteggiamento teso che il re sentì chiaramente essere più che semplice stanchezza.

"Ha avuto problemi col gruppo del messaggio?", chiese.

Il medico scosse il capo.

"Sono malati?", e il dottore doveva decidere.

Alzò gli occhi sul re e Archés avvertì netta la sua reticenza; capì che lo riguardava.

"Non tema, dottore. Ho messo in conto ormai tutto il peggio che questo incubo mi possa riservare", gli disse, perché in buona fede si aspettava ormai che Titanio lo lasciasse da un momento all'altro e che Furius cominciasse il suo calvario. E di peggio, non credeva potesse accadergli.

"Sono un gruppo di giovanissimi, re Archés", si decise allora il dottore:"Il loro collegio è stato assalito e dato alle fiamme. Ignoro quanti fossero i ragazzi ospitati ma ne sono scampati solo una ventina. Si sono divisi, i primi dodici sono arrivati miracolosamente fino a Glittica.

Hanno chiesto notizie dell'altro gruppo, io ho risposto che non ne sapevo nulla, ma ho promesso che avrei allertato il presidio. Anche per questi piccoli, mi pare che il palazzo del Falcone possa essere poco sicuro, con in giro le bande di folli che abbiamo saputo all'opera nei saccheggi di Kargasa e che certo, ormai, imperverseranno anche nelle periferie di Glittica; e che forse a brevissimo arriveranno a devastare la città".

Archés rimase rigido. Lentamente assorbiva le parole del medico. Un collegio. Ve ne erano di piccoli e di affollati. Anche i collegi minori, non contavano però meno di cento, centoventi ragazzi. Venti sopravvissuti significava... chiuse gli occhi, alla insopportabile barbarie di quella strage.

Poi, arrivò l'altro colpo:"Come sa che... come le hanno raccontato la loro storia?"

Il dottore picchiettò indeciso sul tavolo. Poi si passò una mano tra i capelli:"Aveva ragione, re Archés. Ad uno sguardo attento non è sfuggito che la mia corporatura non è compatibile con la carriera militare Inuri.

Il ragazzo che ha guidato il gruppo, egli stesso ancora un adolescente, ha capito; e lontano dalle orecchie dei compagni, mentre loro mangiavano il cibo che abbiamo portato, mi si è rivolto in lingua franca, chiedendomi se preferivo esprimermi così.

Mi ha detto che il cartello che portavo gli faceva intendere non avessi padronanza della sua lingua".

Archés tentò di allargare il torace, in un buon respiro, ma era troppo contratto, per farlo.

"Un ragazzino che parla la lingua franca?", chiese perché forse non aveva inteso correttamente.

"Un ragazzino, che agisce con l'intelligenza e l'accortezza di un uomo. Mi ha sconvolto, re Archés".

E questa, era la pura verità.

Archés sentì il cuore stringersi. Dopo qualche istante, il dottore continuò:"L'Atzara che è venuto con me, avrebbe voluto prenderli con noi, portarli subito qui, per controllarli meglio ma... ", e all'uomo finì la voce.

Archés ebbe negli occhi l'aria calma di un giovinetto la notte della sua incoronazione. Misurato, consapevole.

"Io devo chiederle qualcosa, re Archés", il dottore aveva ritrovato la forza di parlare:"Io ho visto la navigatrice obbedire come il militare che è, e le ho sentito proclamare la sua amicizia per il signore di Chiura, che pure le era così profondamente ostile, al suo arrivo. Ma ora, dopo aver visto la sua espressione da che lui è ricoverato... sapendo che vive a Chiura da molti anni... mi chiedo se... ", e si interruppe.

Archés guardò oltre il vetro l'amico dormire nella stanzetta rischiarata appena dalla lanterna notturna.

"Sono compagni di vita da oltre quindici anni... ", rispose adagio Archés alla domanda implicita:"... e lei gli ha dato un figlio che è il suo ritratto, fisicamente; un ragazzo speciale, in cui entrambi hanno riversato il meglio di sé, della loro forza, della loro fede.

Dovrebbe avere circa dodici anni, ora... e se ha incontrato un giovane di quell'età capace di sconvolgerla temo non ci siano dubbi sulla sua identità... "

I due uomini non parlarono più a lungo.

Poi il medico riprese:"Mi ha raccontato che quando il loro Istituto è stato assalito anche i ragazzi più grandi si sono uniti ai tutori, per difendersi armi in pugno.

Ma il responsabile ha affidato a due di loro un compito particolare, di vegliare sui più piccoli. Tra l'altro, io avrei giudicato questo giovane ben più grande, per il suo aspetto fisico, dell'età che mi ha poi dichiarato.

Lui e un suo compagno inseparabile, quando la situazione è precipitata, sono riusciti a radunare una ventina di bambini, tutti tra i nove e i dieci anni, e li hanno nascosti e poi fatti sgattaiolare fuori.

Ma quando infine i saccheggiatori si sono allontanati, è cominciata l'odissea per trovare riparo e cibo. Erano in troppi e i due ragazzi si sono divisi, confidando che un gruppo meno numeroso potesse sfamarsi più facilmente, e hanno preso strade diverse; il primo è ora in quel palazzo.

Ma chiede dell'altro. Nel dividersi, si sono scambiati un pegno d'amicizia, e credo abbiano in cuor loro raccomandato alla buona sorte, ciascuno, l'altro ancor più che sé stesso".

Archés rivide Ardito parlargli orgoglioso e guardare Fidelio. Eccoli, i suoi uomini del domani. Anzi, già suoi, già alla prova prima ancora di essere uomini.

Archés sentì gli occhi bruciare:"Non mi ha detto, se sono ammalati".

Il medico sospirò:"C'è stata occasione di contagio. Circa venti giorni fa. Un paio di loro stasera avevano qualche linea di febbre. A brevissimo scopriremo se è colpa del freddo e del viaggio, o se hanno contratto il virus".

E alzati gli occhi vide lacrime scivolare lente sul viso del re. Ho messo in conto il peggio, aveva detto, ma l'immagine dei due ragazzi spargeva sale abbondante su una piaga sanguinante.

"Ha fatto bene a non portarli subito qui", disse appena poté controllarsi nuovamente. "Domani parlerò col Maggiore, provvederò a dar loro una difesa e allerterò il presidio, circa la presenza di altri ragazzi.

Aspettiamo di sapere se sono contagiati, per decidere. Leona sa che suo figlio è in pericolo, lo ha sentito avvicinarsi. Ma tenterei di tenerla all'oscuro, ancora. Aspettiamo di sapere che sorte sia riservata, agli orsi di Chiura".

Poi si asciugò il viso:"La ringrazio sempre di tutto, dottor Brender", ed uscì.

Leona gli vide in faccia il dolore. "Titanio è in coma", le disse allora:"Andiamo a riposare qualche ora. Domani sarà una giornata difficile", e la donna sentì che le parlava con una dolcezza accorata che la terrorizzò.

Il dottor Brender, solo nella sala-controllo fissò la provetta in cui scuro, quasi nero, era raccolto il sangue di Fidelio. Uscì dal locale, vi mandò un altro dei medici strappandolo anzitempo dalla branda, e si chiuse in laboratorio.

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