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Cap. 73 Il Palazzo del Falcone

All'imbrunire, il dottor Brender tornò come la sera prima al palazzo del drappo, dove nuovi arrivati nell'arco della giornata si erano faticosamente trascinati.

Ripeté le tristi, veloci osservazioni del giorno prima. Alcuni di quelli erano così compromessi che calcolò cinicamente se valesse la pena prescrivere loro alcuni farmaci.

Erano già venti i rifugiatisi lì in soli due giorni, e il medico ebbe negli occhi l'immagine di un fiume di disperati che dilagava sulla piazza, traboccava da quel pure imponente, ampio edificio e bussava al cancello del re, a gridare che li soccorresse.

Scacciò l'immagine, frutto di una fantasia spaventata, ma obiettivamente le scorte dei farmaci, così preziosi per guadagnare tempo, per quanto così tristemente inefficaci allo scopo ultimo di guarire, andavano parsimoniosamente amministrate.

Tranne che, meditava l'uomo, una volta avuta conferma che gli elicotteri della Horizon avrebbero potuto arrivare fino al Parco Reale, anziché a prelevare loro in fuga si poteva immaginare fossero inviati a portare nuove scorte.

Il re aveva pensato a quei mezzi come strumento per far loro lasciare Inurasi, ma il medico aveva preso a immaginarli come strumento per far arrivare a Glittica nuove risorse.

Altri farmaci, a cui pensava da un po', forse di maggior efficacia, visti i sintomi con cui si combatteva, di quelli che avevano inizialmente ritenuto più adatti.

E poi cibo. Con l'afflusso di gente che si profilava persino le generose dispense del Palazzo Reale sarebbero risultate a breve insufficienti.

Infine, avrebbe potuto inviare campioni organici ai laboratori della Horizon perché facessero ricerche che lui non aveva certo potuto svolgere, con le poche cose a sua disposizione.

Più pensava a tutto questo, più si convinceva dell'urgenza di riparlare con il re, per ottenere che consentisse questo nuovo tentativo.

Certo, far attraccare la nave a un porto Inuri sarebbe stato il massimo. Forse la reazione dei due ufficiali avrebbe convinto il re a rivelare la loro presenza al popolo.

Forse i loro timori erano stati eccessivi e pur di salvarsi la gente si sarebbe ricreduta, sui federali.

Uno dei nuovi arrivati gli rivolse alcune parole riportandolo bruscamente al luogo in cui stava completando il lavoro.

Aveva finito, in realtà, e stava chiudendo il sacco in cui metteva lo stetoscopio con cui auscultava e le poche altre cose che usava per le visite, che a Palazzo avrebbe sterilizzato prima di riusarle.

Le operazioni per sterilizzare strumenti, indumenti e la pulizia della sua stessa persona erano assai più lunghe del breve tempo che dedicava a quella gente. Pure, erano ovviamente indispensabili.

Le parole dell'uomo lo fecero sobbalzare. Lo guardò e gli additò il cartellino: Non posso parlare. Quello annuì e gli parlò ancora tendendogli un rotolo. Il dottore lo fissò. Il braccio teso, l'uomo visibilmente aspettava.

Il dottor Brender ipotizzò che non aspettasse una risposta, se aveva capito che non poteva parlargli. Quindi, voleva altro. Il dottore prese il rotolo e lo infilò nella sacca, quello mormorò qualcosa e tornò a sedersi davanti a un camino, tossendo e rabbrividendo di febbre.

Tornato a Palazzo, nella stanza dove si decontaminavano gli strumenti, considerò il foglio scritto che gli era stato consegnato. Non poteva immergerlo in un disinfettante, e la possibilità che fosse impregnato di saliva, per esempio, sconsigliava di portarlo al re o alla navigatrice per farlo leggere.

Sospirò, perché doveva fare come Titanio quando aveva portato la sua relazione da Kargasa. Lasciò il foglio nella camera di quello e pregò il medico di turno, che stava somministrandogli la terapia, di trattenersi il tempo che gli serviva per completare la decontaminazione e portare la navigatrice nella sala di controllo; da lì, col foglio contro il vetro, lei avrebbe tradotto il messaggio.

Impiegò una mezz'ora e non tornò con la donna, che in un momento di libertà, finito il suo turno, si era allontanata in giardino, ma con il re, che aveva incrociato nella sala dei federali.

Dopo il colloquio con gli ufficiali al mattino, Archés si era preso una pausa; il medico avrebbe sperato che la reazione complessivamente buona di quelli l'avesse confortato, ma troppo buio avevano intorno perché il re fosse sollevato.

Nel pomeriggio Archés era tornato ad affacciarsi alla stanza di Titanio, poi aveva cercato il capitano e aveva lungamente discusso con lui.

Ora, avendo congedato Leona, per ottenere che finalmente lei si sentisse tranquilla e lo lasciasse si era seduto nella sala a parlare con i federali di cose lievi; la donna, rassicurata che non fosse solo, nonostante calasse il buio, era andata a bagnare un piccolo orto coperto che era stato un passatempo di Titanio, e che lei, con delicatezza, rifiutava di veder inselvatichire.

Archés si era alzato e aveva preferito provvedere lui stesso, a tradurre il messaggio.

"A colui che potrà raccogliere questo appello, un ringraziamento e l'augurio che venti benigni gonfino le sue vele... ", iniziava lo scritto:"Siamo un gruppo di dodici, e ci fermiamo a trascorrere la notte nel palazzo del Falcone, nella strada larga detta delle balestre.

Affidiamo questo messaggio a un passante diretto al ricovero degli ammalati. Non ci uniamo a loro, perché speriamo ancora di non essere tra i contagiati, ma neppure ci avviciniamo a persone sane, col dubbio che la malattia ci abbia raggiunto, nostro malgrado.

Chiediamo istruzioni, siamo privi di cibo da due giorni".

Archés tacque; era un messaggio breve, composto, che gli arrivava allo stomaco.

Diceva l'essenziale: quanti erano, dove, perché si fermavano. Non avevano cibo, ma non lo chiedevano. Con pudore, si affidavano a chi potesse soccorrerli e dar loro istruzioni. Invocando su di lui venti favorevoli, con una formula di cortesia che parlava di un atteggiamento misurato, che conteneva perché non trapelassero, i sentimenti che pure dovevano animare l'autore.

Il timore di essere contagiato, anzitutto, e poi lo smarrimento per un luogo dove non si doveva e voleva essere, la debolezza che viene dalla fame... tutto controllato con fermezza.

E in un tempo in cui tanti impazzivano e sfogavano sugli altri la disperazione, abbandonandosi a violenze e saccheggi, Archés era confortato da quella attenzione a non accostare, nel dubbio, persone sane; ed era angosciante però l'idea che quegli uomini di cuore fossero, forse, già in cammino verso il regno delle ombre.

Il dottor Brender sospirò:"Torno a cambiarmi e vado".

Il re si riscosse:"È già notte, ormai!"

"Questa gente non mangia da due giorni", gli rispose il medico:"e ha bisogno di non sentirsi abbandonata. Io trovo della sana prudenza, nel loro comportamento, che va confortata.

Se il re mi indica dove sia questo palazzo, prendo con me un compagno e vado a vedere di che si tratta. Se non sono certi di essere o meno contagiati, forse ancora non hanno sintomi.

In tal caso stabiliremo fin quando è bene restino isolati e manderemo loro regolarmente cibo. Forse li si potrebbe spostare più vicino alla piazza. Se invece trovassi già febbre o altro, li avvierò al palazzo del drappo".

"E in che modo saprà", insistette Archés preoccupato:"perché temono di essere contagiati, se non può parlare con loro? Questa gente non ha trovato, una lista di istruzioni. Vorrà parlare, raccontare, chiedere... Che farà?"

"Userò il solito cartello", gli rispose:"E il re mi scriverà qui... ", disse, afferrando i fogli sul tavolino che usavano per comunicare con chi era nella stanza di isolamento,"... due messaggi.

In uno, mi scriverà: seguitemi. Lo userò se troverò sintomi tali da convincermi che sono già ammalati, e allora li scorterò al palazzo sulla piazza.

Sull'altro mi scriverà che uno di loro sia domattina al cancello della Reggia. Io preparerò una lista di domande, e le darò alla navigatrice. Lei le rivolgerà a debita distanza al di qua del cancello, e sapremo tutto ciò che serve per decidere cosa fare.

Intanto per questa sera occorre abbiano cibo e sappiano di non essere abbandonati a se stessi. L'uomo che mi ha dato il foglio diceva qualcosa che non ho potuto capire, naturalmente.

Ma chissà quando l'ha avuto, e forse raccomandava di far presto. E io, straniero, ho preso il foglio più per tenerlo buono che altro, senza pensare che maneggiavo vite".

Archés avvertì la punta d'amarezza, nel medico, che di giorno in giorno gli si rivelava, sotto la corazza professionale con cui affrontava malattia e morte, uomo di profonda umanità.

"Il palazzo del Falcone è molto vicino", gli spiegò:"appena alle spalle della piazza e del palazzo che abbiamo scelto come raccolta per gli ammalati. Il messaggio deve essere stato affidato ai rifugiati giunti oggi e al più tardi ci sarà arrivato comunque in poche ore".

"Ma già i giorni di digiuno stanno per diventare tre, stasera", osservò il dottor Brender:"Occorre andare, la prego re Archés, scriva i due messaggi".

Poi, senza attendere oltre, chiese al medico di turno in sala controllo di recarsi a far preparare cibo sufficiente per dodici persone, e di chiamare e far preparare un giovane Atzara che era l'assistente con cui lavorava meglio; un giovane particolarmente volenteroso che inoltre era il più prestante tra loro, ideale anche, meditò, per trasportare un bel carico di vettovaglie.

Archés vide che non l'avrebbe dissuaso, e vergò i due messaggi che gli aveva chiesto; non potevano confondersi, e pregò non dovesse usare il più breve.

"Sia prudente", gli raccomandò consegnandoglieli.

Attraversare l'immensa piazza nella luce giallastra di una torcia fu inquietante, inoltrarsi nella larga strada che il re aveva indicato, anche peggio.

Nella città fantasma gli imponenti architravi scolpiti si svelavano appena, alla loro fioca luce; sentinelle gelide e terrificanti.

Il medico li scrutava in cerca del grande uccello dalle ali spiegate, che qualificava il palazzo del Falcone. Uno dei primi, doveva essere; e intanto rifletteva, ora che era lontano dai suoi compagni e dal calore dei camini del Palazzo Reale, che quello era, a tutti gli effetti, un territorio di guerra.

Buttò innervosito un'occhiata al suo compagno. Lui stesso era stato l'assistente giovane del professor Nathab, da che era diventato medico. Faticava ad accettare di essere lui il capo, ora, e di avere un assistente giovane.

"Tu non entri, Jeorge", gli disse sottovoce.

"Ma... ", cominciò sorpreso quello.

"Voglio che resti fuori. Se dovessi servirmi, mi affaccerò e farò un cenno, ma altrimenti preferisco tu resti in strada. Non potevo portare tutta questa roba da solo... ", disse indicando il pentolone che portavano una mano per uno, e lo zaino militare Inuri che l'Atzara aveva in spalla,"... ma dentro non prevedo di aver molto da fare.

Se possibile, darò loro uno sguardo veloce, ma niente di più. Ho con me un biglietto con cui gli dò appuntamento al cancello sulla piazza domattina, e la navigatrice rivolgerà loro in Inuri tutte le domande che non posso fare.

Per il momento mi farò scudo di questo", e indicò il cartello con scritto: 'non posso parlare'. "E tu resti fuori", concluse deciso.

Che avessero scritto un garbato messaggio, non garantiva affatto che non avrebbero garbatamente massacrato dei federali, se li avessero identificati come tali.

Intanto, giunsero dove il medico si aspettava di trovare il palazzo indicato.

"L'ottavo o il decimo", aveva detto il re:"non sono certo".

Si fermarono, e nel buio di un enorme portone distinsero una piccola ombra che scompariva veloce.

L'arco di ingresso era costituito dalle ali curve del grande Falco che spalancava il becco proteso verso gli stranieri. Pochi istanti dopo, due figure si fecero avanti entrando nel cerchio ondeggiante della torcia.

Un bambino grandicello e un ragazzo che salutarono militarmente, sull'attenti.

Il medico rimase bloccato rigido, e pensò in fretta. Ricordò che tutti i medici Inuri erano anche militari, e immaginò che avrebbe dovuto sciogliere i giovanetti dall'omaggio. Tentò di imitare il gesto che Furius rivolgeva a Leona, quando quella lo salutava.

Fu volutamente veloce, fingendo di essere impacciato dal pentolone che contemporaneamente abbassò a posare a terra. Poi andò alle spalle dellAtzara, gli sfilò lo zaino e posò a terra anche quello, aprendolo.

Il ragazzo gli rivolse alcune parole, e il medico l'ignorò. Pescò dallo zaino delle torce, una lampada, alcuni oggetti che avevano pensato potevano essere utili, oltre al cibo.

"Chissà in che modo è stato abbandonato, quel palazzo. Forse troveranno tutto, forse invece non avranno un filo d'olio da bruciare in una lampada, né di che accendere un camino", aveva osservato Archés.

L'uomo vuotò lo zaino e lo ripassò all'Atzara. Indicò gli oggetti in un chiaro ordine a raccoglierli e alzò il pentolone. Il ragazzo parlò ancora, il bambino prese veloce alcune cose e andò dentro, mentre l'altro con un gesto eloquente fece strada al medico.

Mentre passavano l'arco, entrando in un'elegante cortile, il piccolo di prima già tornava in strada con un compagno alto quanto lui, a raccogliere il resto del contenuto dello zaino. Il ragazzo introdusse l'uomo in un salone.

Nel camino bruciava poca legna, al dottore parve una sedia fatta a pezzi, e il fuoco era praticamente la sola luce. Il ragazzo disse qualcosa, e un altro giovinetto si affrettò a far luce, utilizzando la lampada dello zaino con l'olio che l'Atzara aveva portato.

Così il dottor Brender vide bene ciò che già aveva intuito, con una stretta al torace.

Erano bambini, tutti. Quello che parlava, visibilmente la loro guida, era comunque giovanissimo; diede pochi altri ordini, con un tono tranquillo che il federale immaginò volutamente rassicurante, e diversi si diedero da fare intorno al pentolone.

Poi dopo aver acceso al camino una torcia, anche questa proveniente dallo zaino, il ragazzo tornò a rivolgersi a lui, e con lo stesso gesto eloquente di prima disse qualcosa ed aprì una porta.

Il medico lo seguì preoccupato in un'altra stanza. Intanto pensava in fretta. Non si sentiva certo minacciato, piuttosto era in particolare ansia per quei giovanissimi, così disarmati e allo sbando.


La loro guida, con tutta la sua avvedutezza, non poteva avere più di sedici, diciassette anni. Forse neppure, dato il fisico imponente di quella razza. Il ragazzo chiuse la porta e si girò:"Preferisce che parliamo in lingua franca, dottore?" 

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