cap. 48 Saper pensare
Pioveva, quando infine la casa fu immersa nel silenzio. Pur spaziosa, due soli ambienti erano veramente ospitali. Negli altri, o piccole falle nel tetto lasciavano gocciolare acqua su mattoni viscidi di muffa, o serramenti invecchiati lasciavano circolare correnti gelide.
Così, nella grande sala di rappresentanza avevano portato tutti i letti che avevano trovato, trasformandola in una camerata affollata in cui lo scoppiettare del camino aveva illuminato i bambini di gioia; avevano accostato a coppie sei reti, e in ogni lettone si erano infilati dove tre dove quattro piccoli.
In un singolo infilato ad un angolo, una di piedi all'altra, si erano strette le due gemelle. In un altro lettino, avevano messo giù il piccolo febbricitante.
Ai bambini, dopo il piatto caldo di minestra che la donna di Kyros aveva portato con l'aiuto della figlia minore, quel dormire tutti vicini finalmente al sicuro, dopo l'incredibile avventura della fuga dal collegio, parve cosa così grande da stringersi intorno ad Ardesio con un'ansia commovente di augurargli una notte serena.
L'uomo passò tra i letti, a controllare fossero tutti coperti e a posto. Da ultimo i suoi tre, in un unico lettone, sfiorò con un sorriso, e Kham afferrò la sua mano al volo, per lasciarci silenzioso un bacio. Ardesio sospirò.
Nella cucina lì accanto avevano portato le ultime due reti, che non entravano nella stanza centrale. Taima era già a letto, per ordine suo. Particolarmente spossata, aveva tentato di restare ad accudire i bambini, ma Ardesio l'aveva fermata:"Finiamo noi", aveva detto perentorio:"Fila a letto", e Taima aveva ubbidito silenziosa.
Maya era rimasta con le gemelline, le più eccitate di poter dormire con i fratelli, finché esse pure non erano crollate. Nel silenzio, ormai addormentati tutti i bambini, Maya aveva poi fatto cenno ad Ardesio.
Era ferma accanto al letto del piccolo malato, e lo accarezzava lieve. All'avvicinarsi dell'uomo lo scoprì, e ne mostrò il ventre, avvicinando la lampada. Ardesio guardò interrogativo e la donna indicò delle piccole macchie rosse; poi ricoprì silenziosa il bambino e uscì sorridendo dalla stanza.
"Cosa significa?", chiese sottovoce Ardesio.
"È una malattia infantile, la prendiamo tutti, tra quattro giorni starà benissimo".
L'uomo rimase alquanto silenzioso. Non aveva detto nulla, della paura che aveva provato che fosse la febbre terribile del Nord, quella del piccolo. "Ne sei sicura?", le chiese poi.
Maya annuì:"i nostri l'hanno avuta tutti, anche le gemelline, che ne sono guarite non più di due mesi fa".
Ardesio sorrise sollevato. Poi guardò verso la cucina dove l'altro camino dava un po' di calore:"Andiamo a riposare. Non so ancora come faremo, ma in qualche modo riusciremo a resistere".
Maya esitò:"Posso fermarmi un po' qui", disse. Ardesio la guardò sorpreso; erano in una saletta buia, quasi un corridoio tra la sala e la cucina. "Perché?", chiese.
Maya guardò il pavimento, imbarazzata:"Taima ti starà aspettando".
L'uomo aggrottò la fronte, incredulo. "Ma che vai a pensare?"
Nella sua vita matrimoniale ciascuna delle donne aveva una propria camera accanto alla sua, e Ardesio le aveva visitate con tranquilla sistematicità senza far torto a nessuna delle due. Teneva il conto, per non sbagliare.
Di colpo, gli venne da ridere:"Per chi mi prendi, Maya? Con l'ammazzata che abbiamo fatto, ci vorrebbe un toro, per avere certe voglie! Sono distrutto e non credo che neppure voi ne avreste tutta questa fantasia".
Maya si strinse le mani:"Avevo creduto... visto anche che c'erano due reti vicine... ".
"Le ho messe vicine così ci possiamo stringere in tre", le rispose.
"Per dormire?", chiese Maya. Ardesio si sedette e le indicò una sedia di fronte a lui.
"Cosa ti stupisce, Maya?"
La donna si guardava intorno e Ardesio intuì che era intimorita d'aver detto troppo. Tra le due, Maya che era quella che Ardesio preferiva. Era spontanea. Faceva fatica a restare nelle righe che la buona educazione Inuri imponeva. A volte le scappava qualcosa. E inevitabilmente, era qualcosa che faceva ridere Ardesio.
Una espressione buffa, una parola di troppo e subito dopo un'aria spaventata, d'averla combinata grossa. Taima era silenziosa, composta, ricamava creando capolavori. Gli aveva partorito i due gemelli, e lo accudiva splendidamente.
Maya gli aveva dato il terzo. "Uno solo!", aveva commentato delusa, e le gemelle.
"Due femmine!", aveva detto mortificata.
"Saranno bellissime, come te", era scappato ad Ardesio, senza neppure pensare.
E lei lo aveva fissato adorante, per una volta senza parole.
"Posso sapere...", insistette Ardesio, "perché le due reti vicine ti stupiscono?"
"Era più logico che fossero separate, per dormire soltanto", gli rispose:"una per te, una per me e Taima".
"Ma in due in un letto avreste dormito scomodissime, non siete più bambine come le gemelle. Così, un po' stretti, ma dormiremo tutti e tre".
"Perché un uomo dovrebbe dormire stretto, per colpa di due donne?", gli chiese.
E Ardesio restò irrigidito. Da dieci anni, quasi, erano sue. Di sua proprietà. E lo avevano curato con una tenerezza che lo aveva fatto sentire perfettamente appagato.
Ma comunque non si aspettavano nulla, da lui. Se domani avesse avuto la luna storta, e le avesse picchiate, sarebbe stato normale. Avesse voluto disfarsene, o ripudiarle, avrebbero chinato la testa e pianto, ma di paura, non di delusione.
Non lo conoscevano molto, in fondo.
"Come hai visto, donna, questa vecchia casa è solo un guscio vuoto", prese a dire. "Io sono nato qui, e all'epoca mio padre era un contadino benestante e c'era di che vivere in parecchi: un paio di donne, quattro figli, due giovanotti che aiutavano i campi... Ora è tutto in abbandono, però, e per sopravvivere ci sarà da spezzarsi la schiena".
Maya lo osservava silenziosa.
"Anche la casa è in brutte condizioni", continuò lui:"Tu e tua sorella non avrete mai visto, locali così squallidi".
Maya si fissò le mani:"Non sono i muri, che rendono una casa squallida, ma le persone", disse parlando pianissimo, e Ardesio ammutolì.
Voleva arrivare a concludere che era tempo di andare a dormire e che fosse preparata perché cominciava un periodo durissimo e di grande fatica, ma Maya lo spiazzò con quella osservazione che gli tolse il fiato.
"Qualsiasi lavoro tu chiederai... ", continuò poi la donna, anticipando ciò che lui stava per dirle:"...noi lo faremo. Qualsiasi cosa deciderai sarà per il meglio e ovunque tu sia, noi e i bambini saremo al sicuro, con te. Renderai qualsiasi tetto, pure una stalla, una casa... Tu non conosci... ", concluse alzando gli occhi, e guardandolo come ad Ardesio sembrò non avesse mai fatto, lasciando che vedesse oltre le folte ciglia, e oltre il nero vellutato dell'iride,"... tu non conosci lo squallore della solitudine, che rende anche una reggia una prigione".
Nel silenzio, Ardesio distinse il picchiettare della pioggia e il crepitare di un ceppo, che si spezzò in due sollevando una nuvola di faville.
"Credevo non fossi mai stata sola, Maya", disse piano, con tristezza. "E il vostro palazzo sembrava un luogo ricco, elegante... accogliente!"
Maya sorrise appena:"A due bambine importa poco della ricchezza di un pavimento a mosaico, e della morbidezza delle vesti. Non ci fecero andare in collegio, nostro padre prese un istitutore, per noi, che ci educasse in casa. Eravamo piccolissime, e fummo l'una per l'altra la sola l'esperienza di esseri bambini.
Ogni altra persona intorno era adulta, e noi eravamo... sbagliate. Non ci dissero, che saremmo cresciute. Era come fossimo colpevoli di non saper fare nulla; eravamo piccole bestie ignoranti che gli adulti, generosamente, si sforzavano di migliorare. E noi, spaventate, ci sforzavamo di accontentarli. Ma non bastava mai. Soprattutto io, ero sbagliata".
Ardesio la guardò sorpreso, senza parole. Si rese conto in quell'istante che la donna parlava di sé, del tempo che aveva vissuto prima, e che non lo aveva mai fatto. Nulla, era mai esistito prima di lui. Come fosse nata il giorno che aveva firmato le carte per prenderla con sé. Per comprarle.
Fu tentato di interromperla, perché improvvisamente la sua mente ebbe un moto di insofferenza: che voglia ha, di parlare, con la stanchezza che abbiamo? A letto!, gli suggerì irritata. Ma Ardesio frenò le parole.
"Taima si era presa tutto il meglio", continuò Maya sottovoce:"e io sono sempre stata quella incapace, delle due. L'istitutore lo disse subito, a mio padre, che di lei avrebbe fatto una perla, ma che con me c'era da faticare".
Ardesio sorrise:"Che riuscivi mai a combinare, piccola peste?", gli scappò, perché non stentava poi troppo, a immaginare che una bambinetta del tipo delle sue potesse far disperare un istitutore.
Non che fossero maleducate. Ma se dava loro corda, le gemelle lo coinvolgevano estasiate nei loro giochi, travolgendolo.
"Pensavo male", furono le parole che infransero il tranquillo sorriso di Ardesio.
"Conta che eravamo molto piccole", continuò Maya:"E molto ingenue. Incapaci di dubitare dell'assoluta verità, di quanto ci veniva detto. L'istitutore ci disse che poteva leggerci nel pensiero, volendo, ma che non l'avrebbe fatto, se non avesse avuto il dubbio che mentivamo, perché era molto doloroso.
Non costringetemi!, ci ammonì, e noi giurammo che non gli avremmo mentito mai. Così, quando periodicamente controllava i nostri progressi e ci interrogava, io rispondevo sinceramente e venne subito fuori, che pensavo male".
Ardesio scosse la testa. Non sapeva nulla, di come si conducesse un educazione nobiliare per le donne, ma non capiva quella strana affermazione.
"Che vuol dire... ", chiese senza potersi frenare:"... che pensavi male?"
Maya si strinse nelle spalle, rattristata. "Desideravo sempre cose sbagliate... Non avevo una briciola di sano istinto femminile. Ogni tanto, dopo aver controllato se facevamo progressi nella lettura e nel ricamo, faceva l'esame più importante: chiedeva cosa desideravamo fare.
Parlava separatamente a me e a Taima, e lei evidentemente sapeva dare risposte buone. Io... sbagliavo sempre".
Ardesio allargò le braccia. Gli sembrava una condotta così incomprensibile, un esame così poco ortodosso, che stentava a credere fosse vero. "Ti chiedeva che cosa desideravi?"
Maya annuì a occhi bassi.
"E che rispondevi?"
Maya si passò una mano sul braccio:"Ero piccola... e stupida. Credevo che mi avrebbe letto nel pensiero, se mentivo. Allora dicevo quello che capitava. Quello che sul momento avrei voluto veramente poter fare".
Ardesio annuì comprensivo. Cominciò ad affacciarsi il pensiero che era un modo piuttosto sleale, di trattare con dei bambini, fare una simile pressione. "E cosa pretendeva che desiderassi, che invece non facevi?", le chiese.
"Avrebbe evidentemente auspicato che volessi diventare un'ottima donna, educata, bella e fertile", gli rispose:"Che desiderassi al più presto servire un uomo e dargli dei figli, per dare onore al nome di mio padre. Immagino volesse sentirsi dire questo, ma allora non lo sapevo".
"Ma... Quanti anni avevi?", chiese Ardesio accigliandosi.
Maya si strinse ancora nelle spalle:"L'età delle gemelle... Anche meno, direi".
Ardesio la fissò incredulo.
"Comunque, Taima evidentemente già andava meglio", continuò lei:"Io non sapevo proprio rispondere buone cose, invece".
Ardesio si guardò intorno. "Tipo?", chiese senza fissarla, a disagio, presentendo una durezza vergognosa.
Maya ebbe una risatina amara:"La prima volta che mi esaminò, ricordo ancora, cosa risposi! Gli dissi che volevo correre. Non che fossimo mai uscite, dal palazzo, ma per un bambino anche il grande cortile centrale era uno spazio vasto, su cui impazzare. E io avevo scoperto che mi piaceva moltissimo, correre". E a ripensarci, scosse la testa.
Ora Ardesio prese a fissarla concentrato, e teso.
"E non andava bene, questo?", chiese.
"Certo che no!", rispose Maya scandalizzata:"Ero una donna! A una donna non serve, saper correre. Deve incedere elegante, ancheggiando, facendosi ammirare e desiderare. Correre è innaturale, per una natura femminile".
Ardesio inghiottì. Ricordò se stesso bambino, libero in quei campi che aveva intorno, a correre a perdifiato. Si ricordava ruzzolare felice, ansimando, occhi al cielo, primo di una schiera immaginaria di compagni, cui aveva dato la polvere. Aveva sempre amato, correre.
"Fu il primo segnale evidente, che pensavo male... ", riprese dolente e bassa, la voce di Maya,"...che non avevo alcun istinto di quello che è giusto, per una donna!"
Ardesio ebbe negli occhi Leona, correre leggera in testa alla fila, velocissima, irraggiungibile.
"E fosti punita per questo?", chiese, perché cominciava ad intuire il mondo cupo e rigidissimo, in cui Maya aveva dovuto farsi strada.
Maya sospirò:"Mio padre aveva dato indicazioni precise, al riguardo: ci stava allevando con un preciso scopo, per il quale il nostro buon aspetto era essenziale. Contava saremmo cresciute bene, nostra madre, diceva, era stata un fior di donna, molto bella.
All'istitutore raccomandò che non uno sfregio, non una pecca dovesse segnare la nostra pelle. Quello, garantì.
Quel che occorre davvero insegnare, egli rispose infatti: è a pensare correttamente; una donna ben educata ubbidisce per l'ansia di servire bene il proprio padrone, non per la paura della frusta.
E a me, piuttosto che intimorirmi con una punizione corporale, si preoccupò di far capire che correre era inutile".
Ardesio annuì:"E come ti convinse?", chiese pensando che, almeno, non era stata picchiata.
"Mi legò i piedi uno all'altro, con una cordicella che consentiva solo corti passetti. Mi dimostrò così, che potevo vivere senza correre".
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro