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cap. 47 I Cancelli di Kargasa

Ardesio effettivamente era a Kargasa, quando alla caserma era arrivato l'ordine del re. La pericolosità estrema delle notizie che circolavano lo sconvolse, come tutti. Ma Ardesio era Ardesio, e la lucidità della sua analisi lo guidò rapidamente nell'unica direzione giusta.

La fiducia in se stesso gli bastò a fare una scelta radicale. Ordinò alle donne di prendere con sé i manti e del pane e lasciò il palazzo. In una città in preda al panico non si fermò a occuparsi di nessuno, né a dare spiegazioni.

Puntò al Collegio dei bambini, con l'idea di prendersi i suoi figli. Le gemelline in braccio alle sue mogli, bussò al portone del collegio e quello si aprì da solo. Nell'atrio deserto, non gli venne incontro alcun adulto.

Cominciò a chiamare a gran voce, girando per l'edificio silenzioso, e da una camerata Erim gli rispose. Ardesio si precipitò dentro e trovò una dozzina di bambini che lo fissavano spauriti.

"Buongiorno, padre", lo salutò composto Kham, quietamente.

"Ci siete solo voi?", chiese Ardesio incapace di farsi una ragione di quel silenzio.

"Gli istruttori ci hanno spiegato che un grave pericolo minaccia la città e che eravamo tutti liberi di tornare a casa, se ci riuscivamo", rispose Erim.

"E sono andati via", aggiunse Kham.

"Ma io ho visto la confusione delle strade, e ho detto che era pericoloso uscire", riprese Erim:"E loro... ", indicando i compagni,"... sono rimasti con noi".

"Sapevamo che saresti venuto", concluse Khalevi fiero.

Ardesio guardò i suoi figli, che lo fissarono tranquilli di rimando,  e poi osservò gli altri, pallidi, spaventati, stretti tra loro.

"Quanti siete?", chiese sottovoce.

"Sono rimasti solo loro otto, quelli della nostra camerata", rispose Erim.

Ad Ardesio tremarono i polsi: quelli della Camerata... Come possono aver abbandonato così dei bambini?, gli martellava in testa incredula la coscienza. Quelli a cui erano affidati... Come hanno potuto semplicemente andare via?

Ardesio tornò a guardare i suoi. Che pazzia! Strappò due lenzuola dai letti e le annodò attorcigliandole come fossero una corda.

"Ora ascoltatemi bene", disse a tutti:"Dobbiamo andarcene di qui, perché la città sarà presto invivibile. Ma le strade sono già così piene di gente impazzita, che se restate indietro e ci separano non potrò tornare a prendervi.

Quindi attaccatevi a queste lenzuola come fossero una corda, e non lasciartele per nessun motivo. Ricordatevi che io non mi accorgerei neppure che mancate e che comunque non potrei farci nulla... "

E si guardò intorno tenendo in mano il nodo.

Khalevi prese in mano il primo lenzuolo:"Erim, attaccati", esortò avendo afferrato l'idea del padre:"Xeno. Austro. Rubil. Igneo".

E poi passò all'altro telo. "Kham", chiamò, e poi altri tre; infine additò al padre l'ultimo piccolo:"Lui ha la febbre".

Ardesio sbandò: la febbre? Un'onda di terrore lo percorse. Sarebbe istintivamente arretrato, se non fosse già stato praticamente addosso a un muro. Poi un pensiero macabro lo raggiunse: Se è quella febbre... Allora moriranno tutti.

Guardò Erim. Se muoiono io non voglio vivere. Lo seppe con certezza. Allora disse al piccolo:"Vieni qua, non ce la faresti a starci dietro", e lo prese in braccio.

Khalevi passò la mano alla sua cintura, poi controllò gli altri attaccati ordinatamente a quelle due code:"Siamo pronti", disse calmo ad Ardesio.

L'uomo tornò nell'atrio dalle donne, che fissarono con gli occhi grandi di stupore il gruppo di bambini.

"Li hanno lasciati soli qui", disse sbrigativamente:"quindi ce li portiamo".

Poi ripeté anche a loro:"Se ci separano, dovrò andare avanti. Non potrò tornare a recuperare nessuno, quindi anche voi non perdetemi a nessun costo".

Le donne annuirono e Taima si mise in coda a una fila e anch'essa si aggrappò al lenzuolo. Maya prese l'altra coda. Così, col bambino caldo di febbre in braccio, un figlio aggrappato alla cintura, e le lenzuola annodate in mano, Ardesio uscì in strada e guidò deciso il gruppo verso la periferia, con lo sguardo che di tanto in tanto correva indietro.

Ma quel piccolo, stranissimo gruppo lo seguiva compatto e vigile, anche se sempre più spaventato dal caos che regnava intorno a loro.

Ardesio proveniva da un piccolo centro agricolo nelle vicinanze di Kargasa. Non era un nobile, ma figlio di un contadino prospero e benestante; era cresciuto in una grande casa tra i campi, e aveva frequentato quello stesso collegio da cui usciva con i suoi figli.

Era stato all'epoca uno dei pochi fortunati che potevano tornare a casa di frequente, e aveva piacevoli ricordi, di quella casa pulita e della tavola ricca e saporita di suo padre.

Quando si era trasferito a Kargasa era tornato a visitarla, spinto da un'improvvisa nostalgica curiosità; la casa era stata venduta alla morte del padre dal fratello maggiore, e l'acquirente dopo un po' l'aveva chiusa, scontento dei molti lavori di manutenzione che sarebbero stati necessari.

Ardesio l'aveva rimirata pensieroso  e poi di getto, come quando aveva deciso di ammogliarsi, aveva fatto una generosa offerta e l'aveva ripresa.

Non appena gli era arrivata la notizia del blocco della circolazione di uomini e mezzi, Ardesio si era immaginato spaventato le condizioni insostenibili in cui sarebbero precipitate le città. Quanto avrebbero potuto durare le scorte? Chi si sarebbe assunto il compito di razionarle e distribuirle?

Immediatamente vide che restare a Kargasa era folle, pur tra i solidi muri dei palazzi più ricchi. E gli era balzata alla memoria quella casa di campagna, con gli alberi da frutto e il pozzo d'acqua gelida e pulita, e i conigli selvatici nelle tane della collina.

Come fosse stato un presentimento a spingerlo tempo prima in quella frazione tranquilla, sapeva che la casa era ancora lì ad accoglierlo. E ora  vi si dirigeva col suo carico di giovani vite. Tutte sue, anche quelle che i suoi figli avevano abbracciato dicendo loro:"nostro padre verrà a prenderci".

Come avrebbe fatto a prendersi cura di tutti, era cosa che non voleva neppure chiedersi. Per il momento egli si preoccupava di quel bambino che gli aveva allacciato le braccine al collo, caldo di febbre, e di Khalevi che gli stringeva forte la cintura, quasi ad abbassargli i pantaloni. Ogni tanto lo sentiva girarsi, e richiamare brevemente i compagni che forse, stanchi, cambiavano la mano con cui si aggrappavano alla stoffa.

Capiva che faticavano a stargli dietro, storditi dalla ressa e allarmati dalla confusione di grida che si intrecciavano. Ma temeva, Ardesio, che chiudessero le porte.

Kargasa era una delle poche città Inuri che avessero mura; basse e larghe, la loro costruzione risaliva a un tempo passato da molto,  in cui dei signori ambiziosi avevano tentato di sottrarre la città all'autorità del re proclamandone l'indipendenza.

Avevano costruito la cinta di mura in pochi mesi, e tentato di impressionare il sovrano con il munirsi di quella struttura difensiva e di un discreto esercito.

Erano stati duramente puniti e nessuna città aveva più avuto il permesso di cingersi così. Ma le mura di Kargasa non erano state distrutte e Ardesio temeva che all'ordine del re la guardia reale chiudesse le porte imprigionandoli.

Fu quello che accadde a molti, in realtà, di rimanere chiusi a ridosso dei cancelli, e solo quando il morbo ebbe fatto strage e i militari si furono ridotti a un numero troppo misero per assicurare un'inutile sorveglianza, solo allora le porte furono riaperte, anzi divelte e abbattute.

Ma quel giorno, esse furono chiuse e Ardesio con i suoi, quasi trascinati dietro di lui, furono tra gli ultimissimi a poter uscire.

Già quasi nel pomeriggio inoltrato, Ardesio si fermò a seicento metri dalla città a guardare indietro le porte serrarsi, tra le grida di chi ancora voleva uscire e di chi sconvolto, ignaro di quanto era successo, si vedeva chiudere inspiegabilmente fuori.

Ricontò i bambini, e si concesse di guardarli meglio. I suoi, e otto paia d'occhi grandi che lo fissavano con incredibile fiducia perché, capiva, lui era quel padre di cui i suoi figli parlavano. Non aveva bisogno di chiedersi, se l'avessero mai descritto come un eroe.

Il piccolo malato poi, gli si stringeva caldo come comprendesse bene che nessun altro si sarebbe mai occupato così di lui. Chissà che non sia stato questo bambino, col suo malanno, a far fuggire i tutori, pensò Ardesio.

Comunque, la sua casa era troppo lontana per raggiungerla in serata. Allora si sedette, fece sedere tutti e diede loro un po' di riposo spiegando dove erano diretti.

Spiegò che per impedire che mercanti e viaggiatori diffondessero una grave malattia, il re aveva proibito che si lasciasse il posto in cui si abitava. Ma che lui temeva che così, presto in città sarebbe finito il cibo, che arrivava dalle campagne. Per questo lui li portava fuori, in un posto non lontano dove anche in quel periodo freddo qualcosa avrebbero trovato; verdure, frutti invernali, un po' di caccia.

"In qualche modo", disse loro,"potremo sopravvivere finché non sia passata. Però c'è ancora parecchio da camminare, e probabilmente stasera dovremo fermarci per strada. Avrete paura?", chiese in giro ai bambini.

"Niente affatto", rispose Khalevi per tutti, "ci stringeremo e ci terremo caldi e domani riprenderemo la strada".

Ardesio annuì e così accadde, infatti, che passassero la notte in una stalla mezzo diroccata e arrivassero alla piccola frazione dove Ardesio era nato solo a sera del giorno dopo, affamati, infreddoliti, e i bambini e le donne distrutti dalla fatica.

Mentre avanzavano sul viale alla cui fine sorgeva la vecchia casa bianca dei suoi, Ardesio si sentì chiamare. Gli andò incontro sorridendo un uomo di cui dovette ricostruire i tratti da ragazzino. "Kyros!", s'illuminò riconoscendolo.

Ridendo, il vecchio compagno lo accolse con slancio. "Cosa fai qui?", chiese, e fissando la ben curiosa carovana:"Non saranno tutti i tuoi!", rise ancora.

Ardesio era stanco e angosciato. Quell'allegria confidente era quanto più gli era necessario, per tornare a respirare.

"Più o meno... ", rispose rasserenato:"Le donne, le gemelline e loro tre", fece indicando le sue tre miniature,"sono la famiglia, gli altri erano in collegio con i miei figli, e i tutori li hanno abbandonati a loro stessi dicendogli che tornassero a casa, se potevano. In città...", commentò amaro,"la gente è impazzita".

La frazioncina era stata raggiunta la sera prima dalla notizia assurda che si imponeva per due mesi la sospensione di ogni commercio. Un carrettiere di ritorno dalla città lo aveva riferito, ma si era pensato fosse ubriaco, o demente.

Ma ora, questo arrivo dava a Kyros un cupo presagio. L'uomo fissò pensieroso gli otto piccoli:"E tu li hai portati via tutti?"

"Da soli non avevano nessuna possibilità di cavarsela, Kyros", rispose l'altro.

Il vecchio amico, pur allarmato da quegli eventi che portavano Ardesio al borgo, sorrise del fatto che l'altro si fosse portato dietro senza esitazione tutti quei piccoli:"Lo sai che mi sono vantato spesso, di conoscerti? Aspetta un attimo che avviso e ti accompagno a casa".

E tornò qualche passo indietro, nella casa modesta da cui era uscito. "Kurt", sentirono chiamare. Poi più nulla per un paio di minuti. Uscì col figlio maggiore, entrambi con sulle spalle una fascina e alcuni ciocchi di legno.

"La tua vecchia casa è chiusa da un po'... Sarà fredda e avrà la legnaia vuota, come la dispensa", disse avviandosi, "ma accenderemo un bel fuoco e ho ordinato alla moglie di mettere su un pentolone di zuppa; qualche cucchiaiata calda, anche se sarà solo d'acqua e verdure, per stasera ve la farete bastare".

E Ardesio non trovò neppure la voce, per ringraziare quel vecchio compagno di giochi che, perso già quando erano appena ragazzini, lo accoglieva con tutta la generosità che poteva permettersi.  

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