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cap. 45 Una ferita nella terra

Il quinto giorno arrivò e trascorse. La notte pure finì. A mezzogiorno del sesto, Titanio aprì il cancelletto secondario e si fermò in attesa nel viale d'ingresso.

Al medico che munito di protezione e mascherina gli venne incontro per raccogliere informazioni, presentò una giovane donna con un bambino in braccio.

Li aveva raccolti a Breva, lei ancora apparentemente in buone condizioni, il bambino già febbricitante. Il vecchio aveva parlato di medici che tentavano di curare il morbo e si era offerto di portare il piccolo con sé. La donna si era rifiutata di lasciarlo e l'aveva seguito.

In quei tre giorni in cui avevano viaggiato non fermandosi che tre o quattro ore sole per notte, il bambino era peggiorato molto e a lei era arrivata la febbre.

"Così avete tre pazienti da studiare: uno in incubazione, uno con sintomi appena insorti e uno in stadio avanzato... Titanio ha fatto un ottimo lavoro", constatò Furius, amaramente riconoscendo che il vecchio aveva avuto ragione, a voler partire.

Nel parlare di medici e di possibile cura, Titanio aveva evitato di precisare, alla donna, che fossero federali. Con prontezza le fornì un motivo per il silenzio con cui l'accoglievano, indicando le mascherine e dicendole che tentavano di aprire meno possibile la bocca, perché forse anche l'aria intorno a loro era infetta.

La donna strinse il piccolo e socchiuse gli occhi impaurita, perché tutto era troppo diverso da come pensava possibile. Entrare nel palazzo reale era stato incredibile. Il silenzio che vi regnava, e quei fantasmi mascherati che la guidavano a gesti, lo erano anche di più.

"Sei fortunata donna", le disse il vecchio camminando un po' avanti a lei:"Sarai curata come se fossi un uomo e avrai il privilegio di essere incredibilmente utile al tuo paese. Su di noi faranno esperimenti che forse salveranno Inurasi.

Probabilmente non riusciranno a trovare subito la cura giusta, e noi moriremo comunque, ma almeno non sarà stata una morte inutile, abbandonati in un tugurio. Guardati intorno, vivrai gli ultimi giorni al caldo e in un posto elegante".

La donna annuì tremando, con le lacrime agli occhi. Al medico, poi, Titanio raccomandò di non parlare davanti a lei con gli altri federali, perché non capisse la verità.

In cucina, i sanitari discussero scandalizzati di questo perché avrebbe reso più difficile accudire lei e il bambino, doversi intendere a gesti. Ma Furius commentò acido che così, lei sarebbe stata docile e collaborativa.

"Fatele capire chi siete, e forse vi troverete un coltello piantato in gola, quando le porterete da mangiare".

I medici lo fissarono raggelati e ostili, ma il capitano, onnipresente, intervenne a suggerire che con un piccolo sforzo potevano imparare almeno alcune parole, di Inuri, per parlare tra loro davanti a questa e ai prossimi pazienti senza tradirsi:"Parole tipo sangue, per dire che serve fare un prelievo, o pressione, o altro che voi medici avete bisogno di comunicarvi proprio lì, davanti al paziente.

Per il resto, credo che alcuni gesti siano universali. Ad esempio, un sorriso e uno stringere una mano lo capirà anche il bambino, che vuole essere un incoraggiamento".

"Portiamo guanti e mascherine, capitano", gli replicò il medico responsabile:"Il nostro tocco è sgradevole e freddo, e un sorriso non si vede; senza poter parlare faremmo paura anche a lei, se non avesse mai visto o saputo nulla del genere".

"Un sorriso si vede riflesso negli occhi", intervenne la ragazza aquila, e Furius la fissò cupo, perché aveva parlato a un tavolo di uomini senza chiedere alcun permesso.

"Prendete esempio del principe di Chiura: i suoi occhi dicono chiaro ogni cosa che pensa, compreso il rimprovero per chi parla senza le dovute forme", aggiunse tranquilla:"Sono malati gravemente e forse moriranno. Guardateli con compassione e non lasciateli soli. Guanti o no, cercheranno le vostre mani e saranno grati, che qualcuno sia accanto a loro letto", concluse.

Passarono alcuni giorni e le condizioni del bambino precipitarono. Impossibile controllare l'emorragia, inutile combattere la disidratazione e la febbre. Morì senza lottare affatto tra le braccia della madre, e Leona chiese inutilmente di entrare per parlarle. I tre pazienti, ora due, erano chiusi in una stanza che era stata un deposito di biancheria.

Ma nel Palazzo Reale anche un ambiente di servizio era grande e ben areato. L'avevano sgombrato e nella parete tra quello e la sala antistante avevano aperto un rettangolo, richiuso con un vetro, accuratamente sigillato intorno. Dalla sala, attraverso questa specie di finestra, sorvegliavano costantemente i malati, senza entrare che per le terapie, ben protetti.

Dalla vera finestra del magazzino sul parco, la madre poté vedere gli uomini, tutti bardati perché maneggiavano un cadavere infetto, seppellire il piccolo avvolto in un lenzuolo.

Nei giorni che Titanio aveva impiegato ad andare e tornare da Kargasa, oltre a preparare alcune stanze per l'isolamento era anche stata scavata una sorta di lunga trincea al riparo di una siepe, dietro cui era ammucchiata la terra rimossa. Coperta di tavole, la ferita nella terra attendeva pronta di essere ricucita, rendendo assai rapida quella triste prevedibile incombenza di seppellire le vittime.

La giovane madre vide il piccolo sparire in un lampo, e da quel momento peggiorò pesantemente. Cominciò a vomitare anch'essa, e vomitava sangue.

Tenevano bassa la febbre a stento, e con flebo combattevano la perdita di liquidi, ma la pressione della donna precipitava e prese a orinare, anche, sangue. Tentarono di tutto, ma Leona capiva meglio di loro, perché non stessero ottenendo alcunché. L'Inuri aveva fretta di raggiungere il suo bambino e piuttosto lo rincorreva, anziché aggrapparsi alla vita.

Morì anch'essa in pochissimo, e il medico si chiuse cupo in laboratorio, a fissare campioni di sangue. Al microscopio, cercava di studiare quelle povere tracce che, sole, le due creature avevano lasciato del loro passaggio.

Poche provette di fluidi, e la conferma, impressa nel cuore dei ricercatori, che il morbo era realmente un mostro formidabile e, probabilmente, inarrestabile, con i loro mezzi limitati.

Titanio attendeva con apparente tranquillità il suo tempo. Controllavano meticolosamente le sue condizioni ogni giorno, attendendo che si manifestasse la malattia. Potevano ipotizzare con precisione l'epoca del contagio, e prevedere il tempo dei primi sintomi.

Intanto, riferivano ad Archés quanto il vecchio aveva visto e sentito a Kargasa. Come a Glittica, aveva trovato le strade silenziose e quasi deserte. Molti degli abitanti erano fuggiti nelle campagne prevedendo che il blocco avrebbe esaurito presto le scorte di viveri.

Pochi benestanti si erano rinchiusi invece nei propri palazzi, contando sulle dispense ben fornite e assicurandosi un sufficiente numero di servitori per difendersi, temendo un minor controllo dei militari.

Così, di tanto in tanto si incontrava un luogo visibilmente abitato, un palazzotto elegante dalle finestre aperte e dai portoni chiusi, con degli armati di guardia. Poi nuovamente intere strade abbandonate, con le porte semichiuse e talvolta cigolanti, spettrali nella loro solitudine prive persino della presenza di animali.

Né cani né gatti domestici, il vecchio aveva visto in giro, e solo di lontano si era mostrato qualche grosso diffidente felino randagio. Aveva tentato senza successo di avvicinarsi ai palazzi abitati; gli armati avevano ordine di uccidere con la balestra chi superasse un limite ben visibilmente segnato sul selciato. Il salvacondotto reale, esibito a quella distanza, era un pezzo di carta illeggibile. A stento aveva ricevuto qualche risposta gridata.

In quei piccoli fortini, dotati di pozzi che li rendevano autonomi dalle condutture cittadine, gruppi di uomini vivevano di razioni rigorosamente distribuite, calcolate per consentire d'arrivare al tempo in cui la furia fosse passata.

Del destino del resto del mondo si sapeva poco o nulla, se non che molti disperati avevano implorato soccorso, visibilmente già devastati dalla malattia. Davanti ad alcune roccaforti, il vecchio aveva dovuto tenersi alla larga a causa del puzzo insostenibile dei cadaveri, che segnavano il macabro confine della gittata delle balestre.

Da un palazzotto, dove qualcuno aveva ascoltato le sue parole, mentre si sgolava per dichiarare la propria condizione di messaggero del re in cerca di notizie, gli era stata richiesta una paziente attesa. Poi, un paio di ore dopo, una freccia d'arco aveva vibrato infiggendosi su un muro a una buona distanza da lui.

Il nobile lì dentro asserragliato aveva stilato un rapporto su tutto ciò che era a sua conoscenza e lo aveva arrotolato e legato alla freccia, per passarlo all'uomo in strada senza che vi fossero contatti. Il vecchio ne apprezzò la prudenza e augurò agli abitanti della casa di avere venti favorevoli.

Nel suo vagabondare in città, incrociò anche una ronda. Si fermarono sbalorditi, all'incontrarsi: il vecchio perché non si aspettava che dei militari fossero ancora in servizio in quelle strade, quelli al sentirlo dichiararsi messaggero reale.

A prudente distanza, ormai ammaestrato, il vecchio spiegò gridando chi era, da dove venisse, e chiese che riferissero al comandante del presidio le circostanze. Ottenne di poterli seguire conservando quella distanza, e di fermarsi davanti alla caserma, in attesa. Anche qui ottenne un rapporto, più dettagliato perché calando la notte, stabilirono che si rifugiasse in una casa lì di fronte, mentre il comandante raccoglieva le idee e scriveva tutto ciò che gli fosse possibile comunicare al re.

Partendo il mattino successivo Titanio unì una seconda relazione a quella arrotolata nella sacca e raccomandò ai militari, come pure già aveva fatto agli uomini del palazzotto della freccia, che se qualcuno a loro conoscenza fosse riuscito a guarire dall'infezione, fosse immediatamente mandato a Glittica, al Palazzo Reale. Che gli fosse consegnata una bandiera gialla, sventolando la quale il blocco a presidio della capitale gli avrebbe consentito il passaggio, pur senza intrattenere alcun contatto.

Un malato che fosse riuscito a guarire era quello che i medici avrebbero voluto avere più di tutto, e partendo gli era stato raccomandato che lasciasse quel messaggio in giro, ovunque avesse trovato ascolto.

I militari, avviarono il vecchio ad un quartiere della città da cui si levavano fumi, segnale che qualcuno ancora vi abitava. La ronda non vi si recava, perché lì aveva sede il Centro Medico in cui era esplosa l'epidemia in città. Ma se il vecchio voleva particolari sulla malattia senza riguardo alla propria vita, lì forse avrebbe trovato informazioni utili.

Titanio vi si diresse senza indugio, ed effettivamente da un largo edificio a due piani, si alzava un denso fumo, che presentì fosse un rogo funebre.

Non trovò armati, sulla strada, ma avvisi che distoglievano chi non fosse già ammalato dal proseguire. Il vecchio sospirò, raddrizzò le spalle e si fece avanti. Incontrò gente che camminava piano, parlava sottovoce e lo guardava dispiaciuta, perché aveva un'aria ancora vigorosa, sana, ed era un altro insulto alla vita il destino che presto avrebbe avuto, quello stesso che ogni creatura lì dentro condivideva.

Chiese se vi fosse un responsabile, lo portarono da un giovane che tornava allora dal rogo su cui l'ultimo cadavere era stato cremato. Impossibile dare sepoltura alle innumerevoli vittime che erano passate di lì.

Titanio apprese che il giovane non era un medico, solo uno degli ultimi arrivati in cerca di un improbabile soccorso.

Da tempo, lì dentro nessuno si illudeva che alcuna cura avesse un minimo di efficacia. Pure qualcosa quei disperati trovavano: un posto dove dividere gli ultimi giorni e dove morire con discrezione.

I meno gravi assistevano i moribondi e li accompagnavano pietosamente fino al limite della vita, per arrestarsi tristemente, consapevoli che il prossimo viaggio sarebbe stato il loro.

Si trasmettevano quell'ufficio pietoso, mostrando agli ultimi arrivati cosa fare, rasserenati che qualcuno avrebbe chiuso i loro occhi e bruciato i loro cadaveri, ma angosciati che quel flusso di malati non si arrestasse mai, segno che l'epidemia ingoiava lentamente il mondo.

Il vecchio chiese se i medici avessero lasciato annotazioni riguardo alla malattia. Il giovane si strinse nelle spalle e lo portò nell'ufficio dove un tempo lavorava il responsabile. Egli, personalmente, era arrivato molto dopo la morte dell'ultimo medico e non gli era stato riferito nulla.

Titanio cercò velocemente e non gli parve che nulla dei molti documenti che trovò, avesse interesse finché non gli caddero gli occhi su una data molto recente.

Approssimativamente, calcolò, doveva risalire all'arrivo dell'epidemia nel centro, e il documento sembrava un diario con annotazioni di sintomi e nomi di farmaci. In una vetrinetta dell'ufficio stesso Titanio notò barattolini minuscoli recanti nomi singolari, alcuni dei quali citati nel diario.

Infilò in una sacca documento e barattoli. Poi armato di penna e foglio interrogò diversi di quelli che erano nelle camerate, per ricostruire quando si fossero ammalati, quando e come a loro parere si erano contagiati, quanto in fretta avevano visto chi li aveva preceduti morire, e in che modo.

Ebbe relazioni lucide e impietose, che gli fecero stringere i denti e sudare freddo. Infine chiese più notizie possibili dei luoghi da cui provenivano. Dato il divieto di muoversi, quasi tutti erano della zona; nessuno ammise di venire dal Nord.

Ma un ragazzo, che teneva vergognosamente gli occhi bassi, finì per confessare che non era di Kargasa, ma che vi si era recato alla disperazione quando aveva visto padre e fratello sputare sangue, consapevole che se la malattia era arrivata in casa, non aveva scampo e certo si era contagiato anch'egli.

Proveniva da un paesino a sud-ovest di Kargasa, tra questa e Glittica. L'epidemia, quindi, si avvicinava ancora alla capitale. Titanio chiese indicazioni precise, con l'intento di passare nei pressi di quel luogo senza entrarvi, per osservare dall'esterno la condizione del centro abitato e capire a che punto fosse il contagio.

Infine, ritenuto da aver saputo tutto il possibile, si congedò, lasciando anche qui la raccomandazione che, se qualcuno di loro fosse migliorato al punto da guarire, si armasse di bandiera gialla e si recasse Glittica, dove il presidio militare si sarebbe ritratto per consentirgli il passaggio fino al centro di studio della malattia che era stato allestito nel Palazzo Reale.

Scoprire che qualcosa si tentava, che dei medici erano all'opera, che ancora parti del paese fossero salve, fu una ventata di conforto, per quei disperati. Promisero, e promisero di trasmettere l'ordine a chi fosse arrivato a prendere il loro posto.  

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