cap. 41 Un abbraccio soffocante
Leona ebbe un colpo al cuore e un presentimento gelido. Una delle divise blu si arrampicò agile tra i rami della quercia, e l'uomo fu calato con accortezza e disteso al suolo.
Uno dei medici passò rapido le mani sul corpo, poi, accesa una minuscola luce ne scrutò il fondo degli occhi. Poi lasciò scivolare giù le palpebre e spense la luce. A Leona quello spegnersi suonò cupo, così come il lento abbassarsi della mano.
Si avvicinò a studiare il volto dell'uomo disteso. Maturo, quasi anziano; un rivolo di sangue era scivolato lungo il collo, testimoniando un colpo, preso contro il tronco, forse, di quel gigante verde ai cui piedi giaceva.
Ne cercò la mano, ancora calda ma abbandonata e guardò il medico fermo chino sull'uomo, in ginocchio accanto a lei. "Non c'è nulla da tentare?", chiese perché nessuno parlava. Il medico scosse la testa.
Leona strinse quella mano al petto:"Poteva avere l'età di mio padre, anche di più. Doveva essere un uomo esperto".
Il medico si volse a fissarla. Alla luce delle torce, Leona rabbrividì. Aveva uno sguardo deciso, e freddo.
"Era un veterano delle unità d'emergenza. Un esperto, forse il massimo esperto di malattie infettive. Aveva il compito di coordinare l'attività del gruppo. Era un componente essenziale della spedizione. E l'abbiamo perso prima ancora di arrivare". E nelle sue parole, c'era tutto il disagio di essere in quella terra ostile, a lottare per gente che, gli era stato spiegato, li disprezzava profondamente.
Leona sentì distintamente amarezza e gelo. E sentì anche il rumore degli aerei tornare un rombo. Alzò gli occhi su Furius.
Questi meditava su quanto poco felice fosse l'avvio di quella storia. Avrebbe facilmente potuto commentare sull'accoglienza che la sua terra offriva a quelli stranieri, ma lo bloccò l'espressione di Leona e il dolore con cui stringeva quella mano.
Civili, sbuffo dentro di sé Furius. A Inurasi ogni possibile professione passava per la carriera militare. Ogni medico era prima un ufficiale. Questi federali, invece...
Si chinò sull'uomo e lo tirò su tra le braccia come pesasse nulla. "Torniamo ai falò", ordinò:"occorre raccogliere uomini e materiali del secondo lancio e portare tutto a Palazzo".
Il medico accosciato si alzò di scatto:"Piano!", disse indicando l'anziano che Furius portava.
"Paura che gli faccia male?", ruggì quello in una smorfia ironica.
Ma Leona lo implorò con lo sguardo."Potrebbe essere Urveo", gli sussurrò in Inuri, portando con dolcezza il braccio penzoloni di quello sul petto, e Furius mutò espressione.
"Guidali indietro ai falò", le rispose, e sparì rapido nel buio. Tornando, i rumori delle casse che atterravano intorno disse loro che il secondo passaggio era concluso e che non avrebbero più udito quel rumore di motori, fino a che il loro destino e quello di Inurasi non si fosse compiuto.
Gli uomini rabbrividirono; era facile intuire che l'accaduto colpiva assai pesantemente le loro speranze. Come un mattino gelido fa apparire i progetti della notte troppo fiduciosi, magari impastati di sogni, così quella morte così prematura aveva soffiato via ogni romanticismo, e la realtà cruda di quello che andavano ad affrontare mordeva l'animo di quei volontari.
Nel cerchio luminoso trovarono gli ultimi arrivati che già liberavano dalle corde le casse di medicinali. Archés lavorava con loro. Leona si chiese se si fosse fatto riconoscere. Si avvicinò e si inchinò rapida, per comunicare agli altri chi fosse quell'uomo.
Il giovane ufficiale si unì pronto al gesto. Intelligente e preparato. Non è un grigio, ma è un uomo di talento e una scelta felice. Padre, quasi non osavo sperare tanto.
-Presuntuosa come sempre Leona. Credi non vi sia altra generosità e fede sincera che la tua?-, rispose la sua voce di dentro.
-Non è questo, padre. È che in tanta disperazione si ha paura di essere degli illusi, a non aspettarsi il peggio-, disse tra sé.
"Maestà", disse poi ad alta voce in lingua franca: "il capitano Bergard, a capo della scorta federale", presentando il giovane.
Quello restò inchinato e silenzioso.
"Date le circostanze credo opportuno sospendere le cerimonie e le regole di etichetta. Occorre fare molto in poco tempo, e il suo omaggio è più che sufficiente, capitano", disse Archés in tono sbrigativo.
"La squadra è al completo?", chiese poi.
Il silenzio in cui cadde la domanda gli fece stringere i denti. Qualcosa era andato male, evidentemente.
"Uno dei medici non era un esperto di lanci", gli rispose allora Leona, vedendo che tacevano:"Forse anche il vento, l'ha sospinto sugli alberi... cosa pericolosa, atterrando col paracadute".
Archés respirò incupendosi e Leona esitò. Il re si guardò intorno. Tra gli altri, tutti con l'aria dolente e gli occhi bassi, un uomo giovane lo fissava invece senza manifestare reverenza ma piuttosto rabbia.
"È ferito seriamente?", chiese Archés al solo che lo guardava bene negli occhi.
"È morto", gli rispose, senza i giri di parole che talvolta un medico usa per avvicinare una persona alla realtà, senza spalancargliela davanti.
Il re continuò a fissare l'uomo.
"Furius lo sta portando a Palazzo, noi dobbiamo cominciare a recuperare farmaci e attrezzature". Sottovoce Leona cercava di raggiungerlo, di riportarlo sulla strada razionale del fare, percependo il sentimento pesante di scoramento che quella notizia gli aveva causato.
Archés ebbe una espressione curiosa, un sorriso che era una smorfia. "Vedo che la mia terra vi ha subito accolto calorosamente, con uno stretto, soffocante abbraccio di benvenuto", e l'amarezza gli scorreva rapida nelle vene perché anche di quegli uomini, come della sua gente, ormai, si era caricato la responsabilità.
Il capitano riconobbe bene in lui il giovane re oppresso dall'angoscia che il comandante Di Webber aveva loro tratteggiato.
Ai ventisei che partivano erano stati descritti più nel dettaglio possibile quei tre personaggi con cui avrebbero interagito arrivati ad Inurasi: la donna, per prima.
La navigatrice che aveva affrontato un anno del micidiale addestramento militare Inuri, era sopravvissuta e infine aveva rinunciato a tornare per dedicare la sua vita a quella terra. Il comandante non sapeva a che prezzo fosse ancora a Glittica, inserita in una società rigidissima in cui la condizione femminile era prossima alla schiavitù, ma aveva parlato loro di chi era Leona prima, di come avesse lottato per prendere quella missione, di come avesse onorato l'impegno assunto pagando un prezzo altissimo.
Ne era emersa una figura potente, acuta, appassionata. L'idea di quella donna, che lottava per gli ideali federali, li aveva mossi all'emulazione.
Poi il comandante dei grigi aveva parlato del Signore di Chiura. In base alle informazioni sulla società Inuri fornite per volere di Ergon quindici anni prima, al tempo della preparazione dell'inviato federale, da generazioni i suoi ascendenti erano esponenti del conservatorismo più rigido e quindi secondo il giudizio federale il Chiura lo si sarebbe potuto attendere come l'uomo della più completa chiusura alla modernità e alla Federazione.
Ma questo giovane signore era stato pari corso del re e la fedeltà e la lealtà a questo, avevano evidentemente prevalso sulla tradizione familiare, per come Archés aveva parlato di lui nel colloquio via radio.
Il grigio immaginava che avrebbero trovato in lui un uomo ostile, ma vincolato dal suo onore ad una difficile collaborazione.
Infine il re. Unico del suo popolo ad aver vissuto fuori dai confini Inuri. Intelligente e orgoglioso, istruito e generoso. Archés era l'arma che il re Ergon, altro gigante, aveva affondato nel cuore della sua terra per combattere la malapianta dell'ingiustizia sociale e dell'ignoranza.
La navigatrice, nel rimanere a Inurasi e nel congedarsi dal comando dei grigi, aveva testimoniato di lui come egli si preparasse a una virata per dirigere la nave su una rotta nuova. Purtroppo, il destino sembrava essersi accanito contro il giovane.
E il federale lo affermava pur ignorando come alle sue prime mosse la nobiltà avesse levato gli scudi contro di lui, e come la sua guardia avesse dovuto già sventare più attentati.
Ignorava anche che formidabile nemico si fosse dimostrata la natura, col terremoto catastrofico che aveva segnato l'avvicinarsi del suo regno, e con la malattia del vecchio re che aveva portato Archés al trono prima del previsto.
Parlava di destino avverso, il federale, riferendosi a quell'epidemia micidiale che minacciava di cancellare ogni struttura, ogni organizzazione, seppellendo ogni progresso e facendo piombare quella gente nella completa rovina.
Al re non era rimasto che implorare il soccorso federale, agendo consapevolmente da tiranno cioè imponendo la propria volontà in contrasto con quella del suo popolo, in passato forzatamente e dolorosamente eccitato contro gli stranieri.
Per salvare la sua gente Archés faceva ciò che quella avrebbe giudicato un tradimento.
I ventisei volontari compatirono il giovane re che lucidamente si esponeva al terribile giudizio del suo popolo pur di mantenere viva una speranza. Apprezzarono la fiducia che riponeva nelle intenzioni oneste della Federazione. Immaginarono l'angoscia che doveva provare, con quel nemico feroce che già dilaniava la sua gente e il timore, che infine si intuiva potesse anche morderlo, di aver consegnato le chiavi della sua terra agli stranieri.
Il capitano ritrovò nello sguardo di Archés proprio i sentimenti che aveva immaginato dovesse provare: l'oppressione di una decisione difficile, il timore di aver chiamato in soccorso gente inaffidabile e di aver tradito inutilmente il suo giuramento di proteggere Inurasi rispettandone le leggi. Quelle leggi che proibivano la loro presenza lì.
"Noi tutti siamo venuti di nostra volontà, re Archés", la voce del giovane capitano vibrò di orgoglio: "Nessuno ci ha comandato di farlo. Ci ha spinti ciò in cui crediamo, e tutti siamo stati avvisati che esponevamo la nostra vita.
Quello di noi che per primo l'ha persa, sarà il motivo per cui ognuno resterà ancora più saldo nella sua volontà di soccorrere Inurasi.
Noi ci siamo schierati al vostro fianco e combatteremo come potremo. Siamo pochi, ma una cosa è certa: da questa lotta usciremo insieme, da fratelli. O si troverà una cura, per noi e per voi, o moriremo con la gente di qui.
Almeno avremo avuto ragione di una diffidenza ingiusta, e il re saprà che aveva scelto di fidarsi di persone d'onore, ancorché sconfitte da un nemico troppo forte".
Il silenzio che seguì quelle parole durò diversi secondi. "Ben detto", commentò una chiara voce femminile, e Leona si accorse con sorpresa che una delle tute blu era indossata da una donna.
Il medico che aveva soccorso l'anziano professore si riscosse, amaro. Il giovane capitano era un idealista che nelle parole metteva l'anima, ma non era un medico; non era suo, il compito di trovare una cura! "Io contavo sull'esperienza del professor Nathab", disse cupo l'uomo: "La sua morte ci renderà pure più saldi nell'intenzione di lottare, forse, ma ci toglie un tesoro di conoscenze. Speriamo che d'ora in avanti, la sorte la smetta, di esserci così avversa!"
Archés guardò Leona. È questo, che ti aspettavi?, le chiese con gli occhi.
La donna tirò un respiro profondo. "Mentre aspettiamo che i venti smettano di soffiare come uragani, raccogliamo l'attrezzatura", disse con voce calma: "ognuno di noi ha preso con se stesso l'impegno di spendere la propria vita per questa terra e per il suo popolo. Onoriamo l'impegno, e qualsiasi sia la conclusione sarà stata una buona vita, degna di essere stata vissuta".
Cercò lo sguardo del medico intervenuto nel parco: "È lei il responsabile in seconda della spedizione?"
Lo chiese perché le era sembrato il più vicino al professore e il più colpito dall'accaduto, come lo conoscesse bene e fosse stato un suo stretto collaboratore.
L'uomo si irrigidì. Era vero, era stato il suo assistente per molti anni e in missione si alternavano abitualmente, quando uno dei due prendeva un breve riposo. Ora era solo, con una responsabilità enorme, proprio in quella che minacciava essere la peggiore delle emergenze in cui si erano imbattuti.
Leona lesse la risposta affermativa in quel silenzio preoccupato. "Venga allora, deve dirci se e quali casse possono essere trasportate così, o se devono essere aperte e svuotate qui, e quale ricovero dare loro".
Con cauta fermezza tornava alla situazione concreta, all'urgenza del lavoro. Al ritorno di Furius erano stati individuati tutti i colli lanciati; tutti, pareva, arrivati senza inconvenienti. E mentre i falò si spegnevano si organizzò una sorta di catena umana per trasportare il materiale a Palazzo.
Mettere tutto al riparo richiese l'intera notte; un'ala dell'edificio, la più vicina agli ambienti di servizio, alle cucine e alle dispense, fu adibita a ospedale: un'ampia sala fu presa come deposito per i farmaci, un'altra scelta per il laboratorio, tre trasformate in dormitori per il personale; le numerose, enormi stanze vicine restarono a disposizione. Infine, all'alba, quei primi lavori di ricovero furono conclusi.
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