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cap. 36 Chi lotta ancora

Il re non accese lampade, bastandogli per guidare Furius e Leona la luce lunare che pioveva dalle imposte aperte delle finestre. La donna avanzò sgomenta nel palazzo deserto, silenzioso, spettrale in quel debole chiarore; rabbrividì al pensiero di Archés che vi camminava da solo, le notti trascorse. Infilò la mano in quella di Furius e gli occhi neri di lui si volsero sorpresi, a un gesto che ricordava la richiesta di protezione di un bambino.

Ma Leona gli portò la mano sul suo cuore e la premette forte. Quante cose avrebbe avuto bisogno di dirgli e non voleva farlo, davanti ad Archés!

Grazie per essere venuto, perché lui stava impazzendo di solitudine. Grazie di avermi portato, perché eravamo entrambi infelici, e ci hai ravvicinati. Grazie di aver cura di lui, perché il peso che trascina lo spezzava. Grazie perché se qualcuno ancora lotta, col destino, per questo nostro popolo, sei tu.

Furius non sentì le parole esatte, ma sentì nella mano il suo cuore. Sorrise appena; Archés è importante ma io sono la sua vita, pensò e accettò di camminare tenendola per mano come non aveva mai fatto e mai più avrebbe ripetuto; perché quella notte lui guidava la sua gente, e Leona stessa vedeva a stento dove andava.

Nella sala antistante l'impianto radio, Archés si fermò. Accese una delle lampade e la consegnò a Leona."Buona fortuna", le disse, e poi:"Non reggo più. Svegliami se hai successo". E si sedette di peso, su uno dei grandi divani addossati alla parete.

Furius accese una seconda lampada:"Comincia", disse a Leona,"io cerco delle coperte e resto con lui, perché possa dormire tranquillo". Nella saletta silenziosa, Leona tornò e azionare i comandi individuati con la prima ricerca, e le luci dell'impianto si riaccesero; provò a battere sul microfono, o quello che riteneva tale, e udì una sorta di eco.

Sembrerebbe a posto, pensò. Un leggero ronzio, giungeva dalla strumentazione; la donna decise di concentrare la sua attenzione sulle molte manopole, di cui già prima aveva segnato la posizione iniziale. Le manovrò una a una, lentissimamente, ascoltando.

Uno di quei comandi doveva consentire di variare la frequenza; il re contattava la Federazione, da lì, ma anche il distretto industriale, aveva scoperto Leona.

Qualcosa doveva regolare la trasmissione e Leona immaginava di dover trovare in che modo i tecnici si sintonizzassero sulla frequenza voluta. Una manopola le sembrava il tipo di comando più probabile, ma dopo tre ore nessuna di quelle aveva provocato alcun cambiamento udibile.

Leona si guardò intorno scoraggiata. Cosa le sfuggiva? I tecnici non restavano nella sala, durante i colloqui. Accendevano, stabilivano il contatto e poi uscivano. L'ampia poltrona di fronte al microfono era quella preparata per il re. Ma non c'erano altre sedie, nell'ambiente.

Dunque, pensò, i comandi in questione dovevano essere usati stando in piedi. Tornò a considerare tutti quelli messi in alto, maneggiare i quali fosse comodo per persone anche più alte di lei: non ne aveva trascurato nessuno tranne...

Passando le mani sui contenitori di metallo, notò che tutti, dopo ore, erano tiepidi, tranne un blocco.

Leona lo studiò con concentrazione, seguì ogni filo che lo collegasse al resto dell'apparecchiatura, finché uno dei cavetti che seguiva con la mano si rivelò semplicemente appoggiato al piano che sorreggeva il blocco stesso.

Uno spinotto libero, scollegato! Leona si inginocchiò come se pregasse. Indagò ogni centimetro di quella lastra metallica che la lunghezza del cavo consentiva di raggiungere. Un paio di inviti, sembravano indicare un ingresso per lo spinotto.

Leona tentò di capire se vi fossero differenze, se uno apparisse graffiato o impolverato e uno no, come se uno fosse utilizzato e non l'altro. Non riuscì a stabilire alcunché. Entrambi vicini abbastanza, entrambi in alto, forse entrambi utilizzati.

O forse no. Forse collegare quello sbagliato avrebbe bruciato l'impianto, forse...

Leona scosse la testa. Inutile lasciarsi terrorizzare dalle possibili conseguenze; prese lo spinotto e lo infilò con decisione nel primo ingresso. Non accade nulla.

Provò col secondo. Quasi nulla. Le parve infatti di aver appena percepito una debole corrente, riversarsi nel cavo. Scoperse l'avambraccio e l'avvicinò al metallo: ne vide sollevarsi la debole peluria e sentì appena un lieve solletico, segno che l'apparecchio, appena acceso, si era magnetizzato.

Tornò alle manopole, e riprese i tentativi. E mentre a occhi chiusi girava dolcemente l'ennesima, sentì il ronzio variare. Si alzava, diminuiva, scariche si percepivano, leggere.

Leona si immobilizzò. Non aveva mai usato un apparecchiatura radio amatoriale ma le sembrava che proprio quello, fosse ciò che doveva succedere. Respirò a fondo. Portò la manopola rapidamente a fine corsa. Poi, lentissimamente, esplorò l'intera banda: scariche, rumori, ma nessuna voce. La manopola giunse dove non poteva ruotare oltre.

Pazientemente, Leone ripeté la manovra inversa. E poi una terza volta, con i sensi tesi al massimo. Così cauta nel girare la manopola, con tale millimesimale riguardo che non le sfuggì un suono lontanissimo.

Lo percepì e lo perse, la manopola coglieva il segnale e un solo millimetro più in là lo perdeva. Leona ci passò e ripassò sopra a lungo, finché lasciò il comando di scatto come bruciasse.

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