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cap. 31 Il deserto

Arrivare a Glittica evitando i blocchi comportò un percorso più lungo, lontano dalle strade, spesso fatto di impervi fuori pista. Lungo il viaggio Leona e Furius ebbero tempo di preparare il proprio cuore e di trovare un equilibrio forte. Archés prospettava uno scenario orrido, ma Leona e Furius non intendevano arrendersi senza tentare qualcosa.

Non volevano chiedersi cosa avrebbero fatto se non avessero avuto Fidelio con quel popolo inerme destinato al macello... se sarebbero rimasti a custodire la valle o se sarebbero accorsi comunque. Furius sperava di sì.

Leona, ferita dalla domanda di Furius, si era interrogata a fondo. Seguiva l'uno o raggiungeva l'altro? Decise che aveva poca importanza. Occorreva soccorrere e sostenere Archés affinché trovasse una strada per fermare la minaccia che incombeva.

E lei... lei avrebbe potuto spingerlo nella direzione giusta, se non l'avesse odiata. Leona aveva dovuto affrontarlo, infine, quel pensiero: Archés la disprezzava troppo, per ascoltarla. Se avesse tentato di parlargli forse sarebbe stato persino peggio.

S'era agitata insonne, chiedendosi come affrontarlo. La sola conclusione, lasciare che agisse Furius. Non poteva né doveva fare nulla, tranne che ascoltare e fidarsi di Furius. Glielo disse:"Per Archés non sarà piacevole vedermi. Certo dovrò restare in disparte e tu solo, dovrai consigliarlo".

Furius rigirò le braci del bivacco:"Consigliarlo? Vedremo cosa ne penseranno i suoi cortigiani... forse non ci faranno neppure entrare a Palazzo... Se vogliamo vederlo dovremo fargli arrivare un messaggio... sono molto preoccupato".

Leona fissò il fuoco con lui. Il messaggero arrivato a Chiura aveva detto che Archés stava utilizzando la sua guardia reale per inviare gli ordini urgenti a tutti i comandi, ordinando di chiudere ogni provincia a qualunque contatto con l'esterno, isolando completamente i vari territori.

Agli uomini che recavano quelle notizie funeste era stato ordinato di restare presso il Comando raggiunto, rispettando per primi l'ordine di non muoversi dal territorio in cui ci si trovava.

Se tutti i messaggeri avevano ubbidito la scorta del re doveva essersi ridotta a ben misere proporzioni. E comunque raggiungere il re poteva non essere così facile, per chi arrivava inatteso come loro.

"Domani lo scopriremo", concluse Furius. E l'indomani, infine, raggiunsero la città. Il colpo, al primo inoltrarsi nella periferia, fu terribile. Vi era una quiete innaturale, nelle strade deserte, che metteva i brividi.

Le case e poi,  inoltrandosi,  gli eleganti palazzi avevano per lo più porte e finestre chiuse e gli zoccoli dei cavalli risuonavano assordanti sui lastroni di pietra delle vie, unico frastuono in quel silenzio cupo.

Furius e Leona si guardavano intorno allibiti, ma in fondo era da pensarsi che la città si sarebbe svuotata al diffondersi della notizia del divieto di circolazione di merci e persone imposto dal re.

La popolazione doveva aver temuto che bloccandosi l'afflusso di derrate la città sarebbe presto stata affamata,  ed evidentemente chiunque aveva potuto si era rifugiato nelle campagne.

Giungere sulla immensa piazza centrale senza incontrare un'anima fu comunque impressionante e venne loro da chiedersi se non fosse arrivata fin lì, nonostante le misure per arrestarne la diffusione, la pestilenza che stava falcidiando il Nord.

Archés l'aveva descritta come il peggiore morbo che avessero mai conosciuto, praticamente incurabile, mortale in percentuali spaventose.

Furius e Leona attraversarono la piazza sotto il sole del primo pomeriggio con negli occhi lo spettacolo grandioso del giuramento, la folla, la fanfara, le bandiere, il trionfo, la festa.

Giunsero al cancello del palazzo e Furius scosse il capo. Non c'erano sentinelle. "Il re non è qui. È deserto come l'intera città... "; e questo frustrava ogni loro speranza.

Leona scese e si appoggiò alle sbarre del piccolo cancello seminascosto che fiancheggiava l'imponente cancellata principale. Quella era destinata a essere aperta nelle occasioni importanti per consentire il passaggio del sovrano. L'ingresso secondario, invece, era usato per consentire alle sentinelle che stazionavano fuori le mura di raggiungere le garitte sulla piazza.

Il cancelletto era chiuso con una catenella, di nessuna consistenza. "Apriamolo ed entriamo", disse la donna mostrandolo a Furius.

"Non c'è sorveglianza... il palazzo è deserto come la città!", le ripeté, nonostante l'insegna reale sventolasse sui pennoni. Quando il re era lontano la bandiera veniva ritirata e issata nuovamente per salutarne il ritorno.

Leona guardò oltre le sbarre; socchiuse gli occhi e cercò col cuore. Come un ago della bussola orientato sul Nord, quello la tirava da oltre le sbarre. "Entriamo, Furius!"

E non sapeva come spiegare, che l'istinto le dicesse che dovevano farlo assolutamente. Furius scosse la testa nuovamente, ma smontò e infilò l'elsa del suo pugnale in uno degli anelli della catena. Apparentemente come fosse friabile, l'anello saltò sotto la leva potente e il cancelletto si aprì con un cigolio sommesso.

Entrarono guardandosi intorno incerti e Furius riaccostò il battente e rimise l'anello aperto a collegare gli estremi della catena,  come fosse ancora chiusa.

Percorsero il vialone d'accesso in silenzio, coi sensi tesi. Nel cortile d'onore legarono le cavalcature. Il palazzo li circondava e il senso d'abbandono era completo. Furius guardò Leona interrogativo, e fu impressionato dal suo sguardo. Guardava verso le tre facciate come potesse penetrarne i muri, e sondare le sale che si susseguivano, i cortiletti minori, e gli altri corpi dell'enorme edificio oltre quelli.

"Leona", le disse a bassa voce:"non c'è nessuno".

Ma la donna lo guardò attraverso un velo, e sul viso le era calata un'angoscia dolorosa. "È qui Furius... vieni", e si mosse senza esitare, guidata da quel suo senso interiore che Furius ben conosceva, quell'istinto che la portava verso ciò che era importante trovare, fossero delle tracce durante una caccia, un puntatore nascosto sul percorso rosso, due bambini persi sulla montagna o il suo uomo addormentato in un letto altrui.

Leona entrò nello splendido salone di rappresentanza e lo attraversò veloce. Si inoltrò per sale e corridoi, senza riconoscere nulla. Non era rifare una strada nota, il suo camminare, ma il seguire una direzione; si diresse verso il retro del palazzo, passarono un cortiletto interno, entrarono in un'ala arredata meno fastosamente.

Leona si fermò quasi ansante in una grande sala rettangolare. Un ampio scalone conduceva a un piano rialzato e una specie di balcone correva in giro alla sala; oltre quello molte porte chiuse riparavano stanze vuote e silenziose.

Leona si fermò comprimendosi il petto, come qualcosa glielo schiacciasse, dandole un dolore fisico.

Poi, di colpo: "Cosa fate qui?"

Nel silenzio della sala la voce sembrò piovere arrochita, echeggiando, da una direzione imprecisa. I due cercarono in alto lungo il ballatoio del piano rialzato che cingeva il salone. Archés vi si era affacciato, pallido, con gli occhi infossati, come di chi abbia già la morte scritta in faccia.

Furius e Leona erano arrivati fin lì per lui ma non avevano saputo immaginare come l'avrebbero incontrato, in compagnia di chi e come avrebbero dovuto presentarsi e cosa dirgli.

Furius non aveva preparato nulla al riguardo. Decise all'istante, secondo l'esempio di Leona, liberando il cuore. Si avviò alle scale deciso e Leona lo seguì.

"Fermati e torna a casa", fu l'ordine perentorio di Archés, sconvolto.

Ma Furius non ascoltò, finì la rampa e non si fermò neppure a salutarlo secondo il cerimoniale. Lo colse di sorpresa, l'abbracciò. Archés tentò di respingerlo, inorridito.

"Troppo tardi", gli disse Furius, continuando a stringerlo, e il re sentì il dolore scoppiare incontrollato. Aveva ordinato a tutti di lasciare il palazzo, di tornare alle rispettive case. Due anziani servi solamente, erano rimasti. Troppo anziani per avere più nessuno da cui tornare. Una era la vecchia levatrice, ormai rattrappita come la buccia dissecata di un frutto mangiato; gli cucinava e silenziosamente lo serviva, ancora.

"Che pazzia hai fatto, Furius?"

"Vengo a dividere la tua sorte, Archés. Siamo amici, ricordi?"

Il re scosse il capo: "Nutrivo speranze per le comunità più isolate... la tua valle tra queste. Perché lasciare uno dei pochissimi posti dove forse si sopravviverà?"

"Hai già rinunciato a ogni lotta, Archés?", gli  rispose  Furius, "Ho pensato che tu avevi sulle spalle un peso enorme e che ti serviva aiuto. La valle si è chiusa dietro di noi, secondo i tuoi ordini, e se è destino che vi si sopravviva, la mia gente saprà di doverlo alla tua lungimiranza. Ma io e Leona abbiamo deciso che servivamo qui, benché tu non ci abbia chiamato. Insieme abbiamo cominciato, insieme combatteremo. E se è scritto, insieme andremo via".

Al re cedettero le gambe. L'aiuto arrivava appena in tempo, perché la disperazione stava facendo saltare le ultime forze ed era prossimo ad annegare.

"Combattere... e con cosa, Furius? Questo è un mostro che divora la nostra terra dal di dentro... siamo già tutti cadaveri che parlano". E lo guardò senza nascondere l'orrore che lo stava consumando.

Ma Furius strinse i denti: "So troppo poco di questo nemico per giudicare. Ora noi parliamo, e insieme cerchiamo una strada da percorrere. Come è possibile che il re sia solo, in questo palazzo?"

Archés si guardò intorno: "Un re che muore è solo come chiunque altro".

"Vedremo, Archés. Ti abbiamo già strappato una volta alla signora che ti ha invitato. Magari dovrà rinunciare al giro,  di nuovo".

Archés guardò il gigante che gli era accanto, poi fissò la donna. Gli salì un fiotto di amarezza e di risentimento, nel vederla.

"Negli ordini che ho ricevuti, parli di una epidemia devastante", cominciò Furius con calma, conducendo il re fino ad un divanetto e facendolo sedere. "Imponi un immediato isolamento, e secondo quanto prescrivi ho ordinato di impedire l'ingresso della valle a chiunque, fino ad uccidere, se necessario,  chi si dovesse avvicinare al confine; usando però armi da tiro e proibendo poi di rimuovere o seppellire il cadavere per non incorrere comunque in un contatto. Avvisi anche che hai imposto la sospensione di ogni servizio di posta e di qualsiasi forma di comunicazione tra regioni diverse, per fermare la diffusione della malattia; segnali come particolarmente pericolose le maggiori città, dove la rete di contatti può aver già portato il contagio".

Ora i due erano seduti di fronte e Leona, in piedi dietro Furius, guardava il volto teso di Archés, e il cuore le si stringeva nel contare quanti segni vi erano incisi, che non c'erano.

"Esattamente", chiese Furius, "dove e quando è partita questa ecatombe, e cosa ne sappiamo, che tipo di malattia è, come si manifesta?"

Archés chiuse gli occhi. Avrebbe voluto dormire, arrendersi e dormire. Ma quell'uomo era venuto a morire con lui; mentre tutti l'avevano abbandonato, scappando in cerca di una improbabile salvezza, lui aveva lasciato un luogo quasi sicuro per raggiungerlo. Leale fino in fondo, ben oltre il doveroso, pensò Archés sospirando, e si sforzò di riprendere il controllo.

"Tutto è cominciato più di tre mesi fa, nel Nord", cominciò faticosamente a rispondergli. "La cosa però non è stata subito evidente. I primi casi pare abbiano riguardato un'intera famiglia, morta non si capì bene come, sul momento, perché vivevano isolati. Ne scoprirono i cadaveri e li seppellirono. Poi cominciarono a star male quelli che erano intervenuti; ignorando la gravità della cosa, le famiglie li curarono in casa e poi, vedendoli peggiorare, li condussero in città presso vari medici.

Il contagio si è diffuso tanto più in fretta quanto del tutto ignoto era il modo, e la violenza!, con cui la malattia colpiva. Di quanto successo da quel momento in poi ho avuto notizia circa quindici giorni fa, quando un messaggero è arrivato a Glittica portandomi una lettera di un medico della Casa della Salute di Amarea.

L'incaricato aveva avuto ordine preciso di non avere con me alcun contatto diretto, ma il medico mi confessava per iscritto che temeva che persino il maneggiare il foglio che mi inviava, per essere stato nelle sue mani, potesse trasmettere la malattia, tanto quella si era manifestata estremamente contagiosa.

Tuttavia, aveva ritenuto che fosse indispensabile informarmi di quanto aveva scoperto, a qualsiasi costo. Un paziente ricoverato nel suo istituto, per sintomi respiratori, assistito da un suo collaboratore perché il medico che mi scriveva era in viaggio, si era aggravato ed era morto nel giro di soli dieci giorni dalla manifestazione dei primi sintomi seri.

Nel giro di un'altra decina di giorni, e a venti quindi da quel primo ricovero, si erano ammalati tutti, tutti!, quelli che avevano avuto contatti col primo malato; anche chi lo aveva incrociato solo nella fase iniziale, quando aveva unicamente febbre alta e tosse.

Il medico sbalordito aveva constatato che la malattia era stata fatale per tutti gli ammalati, e già a quel momento in cui lui scriveva, a trentacinque giorni da quel primo contatto della città col male, aveva notizie di numerosissimi altri casi e informazioni del tutto simili aveva ricevuto dai colleghi dei paesi circostanti.

Egli mi scriveva consapevole di essere ammalato, in condizioni già critiche, già vicino a non poter più assistere alcuno. Aveva considerato il suo ultimo dovere informarmi che 'bloccare'  la diffusione della malattia è l'unica possibilità. Nessuna conoscenza attuale ha potuto dare alcun sollievo agli ammalati,  nessuno dei quali, a sua conoscenza, era ancora sopravvissuto. Mi implorava di bloccare la zona e di usare una prudenza estrema.

Purtroppo, egli non poteva immaginare che allarmi simili mi stavano arrivando, contemporaneamente, da più località, testimoniando l'epidemia in quasi tutto il nord e nel centro, anche! Allora ho inviato ordini precisi, in primo luogo verso le località più isolate, perché ogni contatto con l'esterno fosse immediatamente sospeso fino a nuovo ordine, e comunque per almeno due mesi.

Se in base a quanto mi è stato riferito ipotizziamo venti giorni di incubazione, e dieci giorni massimo di sopravvivenza, considerando che dal Nord l'infezione è già galoppata fino al cuore del paese, tra un mese, nel migliore dei casi, anche il Sud sarà stato raggiunto; e tra due mesi Inurasi sarà un cimitero, in cui vagheranno pochi disperati; se pure qualcuno riuscirà infine a guarire.


Non conoscevamo, finora, malattie con simili esiti mortali che arrivavano al cento per cento dei casi. La mia sola speranza è che qualche zona sia stata avvisata e si sia completamente isolata in tempo. Il massimo che posso immaginare di sperare, è che in qualche angolo di Inurasi qualche migliaio di noi possa sopravvivere".

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