cap.3 "Avete un figlio?"
Lo sguardo che Leona rialzò su di lui era appannato di dolore, un dolore così profondo da non potersi contenere, neppure per pudore.
Leona riprese a raccontare a voce più bassa:"Ero sul monte quando il terremoto ridusse la casa a un cumulo di macerie. Il tempo di uscire dalla sala di tessitura delle donne, uno dei pochi ambienti non crollati alla prima scossa, e il rumore di una frana ci assordò.
Dal basso Furius seguì il monte spaccarsi e abbattersi sulla valle: nel suo percorso c'era il palazzo dei Chiura. Dovette vincere l'impulso di correre su, perché la devastazione intorno a lui era enorme ed era l'unico graduato rimasto tra i militari, l'unica autorità, l'unico lucido a sufficienza da organizzare un'azione tra i sopravvissuti, che guardavano annichiliti il paese sepolto dalla frana.
Né cadaveri né attrezzi, nulla era pensabile di poter disseppellire. Furius prese la situazione in mano e impedì che quelli, sbandati e annichiliti, morissero di fame e di freddo. Intanto dal basso tentava di capire se la sua casa potesse essere stata risparmiata.
Combatté per indurre la gente a reagire, mentre sul monte si abbatteva per giorni una bufera come non se ne ricordavano, come se gli inferi non sapessero più cosa usare, contro di noi!
Quando ci fu una tregua, Furius meditò di salire ma non ne ebbe il tempo: una seconda frana scese accanto alla prima, cancellando ogni sua speranza; perché non poteva ingannarsi sul fatto che la casa sorgesse sicuramente, se non già sul percorso della prima, sicuramente su quello della seconda frana.
Due mesi occorsero perché infine la stretta del gelo si allentasse e la gente si fosse ripresa abbastanza da poterla lasciare. Furius venne su da solo, rassegnato ma bisognoso di vedere con i suoi occhi, perché ancora nel cuore aveva la sua casa in piedi e decise che doveva togliersela, invece, per andare avanti, se ne avesse ancora trovata la forza.
Venne su come chi va a rendere omaggio ad un defunto. Venne su e trovò noi. Alla prima scossa in sette eravamo rimaste illese, sette donne nell'unica stanza non crollata. Uscimmo e la frana investì il bosco e seppellì metà della spianata su cui sorgeva il palazzo.
Non so come riuscii a costringere le altre a rientrare tra le macerie risparmiate, ma riuscimmo a tirar fuori il vecchio e due ragazzi che erano nella stalla, e un bambino. Per tutti gli altri, se pure non fossero morti sul colpo, non fu possibile far nulla.
Prendemmo tutto ciò che potemmo. Alcuni animali ancora vivi, alcuni attrezzi, coperte, del mangime per i maiali, un paio di lanterne, della carne secca... Recuperammo miserie che però fecero la differenza tra morte e vita.
Il gelo era così atroce che non potemmo rimanere all'aperto. I locali costruiti, tra terremoto e frana, erano crollati tutti, ma in un'ampia cantina scavata nella roccia si poteva entrare. La puntellammo e lì rimanemmo: sette donne, un vecchio con la gamba spezzata, due giovani feriti e un bambino, qualche maiale, un cane e un puledro terrorizzato.
Un inferno di sofferenza e terrore, con la bufera che ululava e la terra che si scuoteva.
Infine venne giù la seconda frana, e accadde quello che ora capisco bene essere stato un miracolo: uno sperone roccioso che sovrastava la casa ne deviò il percorso.
In parte aveva già deviato la prima sulla destra; deviò la seconda sulla sinistra lasciando salvo quel poco che non era stato distrutto e qualche albero.
In un area enorme, del tutto cancellata da quella furia, come se un cerchio ci fosse stato tracciato intorno, poche decine di metri rimasero sgombri.
Sopravvivere fu durissimo; fummo costrette a camminare sulla frana per recuperare quel po' di legna che ci consentisse di scaldarci. Dividemmo il pochissimo che avevamo in razioni, sciogliemmo la neve per bere, uno alla volta uccidemmo i maialetti che si erano salvati.
Ma tenemmo duro e Furius trovò che qualcosa... poco, pochissimo ma qualcosa, di Chiura, si era salvato.
Quando lo vidi pensai che era tempo, perché non ero più in grado di combattere, ormai. Pensai che potevo consegnargli quella povera gente che mi ero sforzata di mantenere viva e riposare. Sapevo quanto dolore dovesse provare nel guardarsi intorno e mi dispiaceva per lui. Ma non potevo fare altro, le mie forze erano esaurite.
Glieli raccomandai e cercai di andare. Di andare a dormire, finalmente, se mi intendi, Tauro. Dormire senza più incubi, senza più guerre, senza più dolore. Senza più risvegli.
Ma Furius non si rassegnò.
Mi strinse rifiutando di lasciarmi andare, mi disse cose che non credevo di potergli sentir dire. Mi pregò di non lasciarlo, perché quello che si era salvato non significava nulla, se perdeva me.
Gli avevo ricordato che avrebbe potuto ricostruirla, la casa... ma lui mi chiese per chi avrebbe dovuto farlo se non aveva una donna e se aveva perso suo figlio.
Suo figlio!
Io non credevo che lo sentisse così. Credevo avesse ubbidito ad un impegno d'onore, in uno sforzo di generosità. Ma certo non era una cosa prevista né desiderata, quel figlio.
Che lo sentisse comunque suo, che si stesse preparando a riceverlo, che provasse dolore per la sua perdita... che infine non solo non mi odiasse veramente, ma che sentisse per me un sentimento profondo... Tutto questo io lo scoprii quel giorno in cui ormai avevo sentito di potermi arrendere".
Ancora una volta, Leona finì la voce e le parole.
Tauro si chinò e le strinse le mani:"Quindi il bambino lo hai perso".
"Troppa fatica, troppo dolore", gli rispose:" o forse non voleva una madre straniera. Forse non lo meritavo, forse non deve nascere così, per caso, un figlio.
Un emorragia improvvisa me lo ha portato via quando era già quasi pronto... di sei mesi, già quasi di sette... ancora un po' e forse sarebbe nato vivo... ", e il dolore le contrasse il viso; ancora fu la Leona disperata di quel giorno sulla neve.
Lasciò le mani di Tauro e si nascose il volto. Respirò a fondo più volte, per riprendere il controllo. Quando riabbassò le mani il ricordo era tornato giù nell'anima, ricomposto, e la donna tornò a parlare.
"Furius ci porto giù e da allora non c'è stato altro che lavoro. La gente della valle, i pochi che si sono salvati, hanno sospeso ogni altra cosa e hanno costruito questa casa. Furius ha cercato di impedirlo, ma loro lo hanno fatto con gioia e per riconoscenza. Io dico che si sente, entrando".
Si alzò e prese un oggetto per mostrarlo all'amico:"Un vecchio che non riusciva a fare quasi nulla, si è messo in un angolo e ha intagliato questo, a memoria. È l'orso rampante che era scolpito sull'arco d'ingresso del palazzo dei Chiura. Non credi sia bello?"
Tauro rigirò tra le mani la statuetta di legno, in cui l'animale ruggiva vivido. "Sembra vivo!", commentò.
Leona lo rimise al suo posto:"Furius è molto amato, ora; non più solo temuto o rispettato. E a buon motivo! A volte lo prego di fermarsi, di riposare un po', ma prima che la stagione fredda torni vuole che la sua gente sia al sicuro. Che abbia un riparo adeguato, e scorte di cibo sufficienti; e appena questo sia ottenuto, allora lentamente farà rimuovere la frana dal fondovalle.
Per ora si è sgombrata la strada principale, ma riporterà a nudo il paese; vuole che siano seppellite con più rispetto le vittime e cancellato lo scempio della frana. Senza ricostruire, anzi spianando; ma piantando alberi, prendendosi cura della valle come di un malato da accudire, con la dedizione di un figlio, di un compagno.
Furius è un uomo prezioso, Tauro. Generoso, pulito, che finalmente respira. Ancora soffre, per certi ricordi opprimenti, ma combatte per guarire e io sono orgogliosa di lui. Veramente, profondamente orgogliosa, di stargli accanto", e tornò a sorridere anche se ora Tauro conosceva quanto dolorosa fosse stata per lei quella strada percorsa fin lì, e come chiuso nel cuore avesse lo strazio della perdita più preziosa che si potesse custodire.
Nel silenzio che seguì si udirono i passi di Furius. Negli sguardi che la donna e l'amico rivolsero verso di lui, egli vide di che avessero parlato. Leona gli sorrise, e vide la tristezza per il bambino, ma anche la fiducia e la tenerezza con cui lo circondava, così sconvolgentemente nuova, per lui. E in quelli di Tauro lesse rispetto e... gratitudine?
Furius scosse la testa:"Donna", disse col tono volutamente duro che usava di tanto in tanto, pur sorridendo:"finirai per compromettere la mia fama di cattivo".
"Perdonami", gli rispose alzandosi,"ma puoi rimediare facilmente. Non hai con te la tua frusta?"
Furius smise di sorridere. A Leona dispiaceva essere sleale, ma voleva che Tauro vedesse; gli sfiorò il torace con le mani e Furius chiuse gli occhi e l'abbracciò, perché quel ricordo, il ricordo di quei segni rossi che le scriveva addosso per punirla del suo coraggio e per averlo costretto a cedere davanti agli altri, quel ricordo era tra i più dolorosi.
L'abbracciò non reggendo al rimorso e Tauro rimase ammutolito a fissarli, aggrapparsi l'uno all'altra quando li aveva visti battersi col sangue agli occhi per un anno.
Ora Furius si chinava su di lei e lei lo accarezzava piano, come a consolarlo teneramente, lei che Tauro conosceva indomata e inflessibile come un guerriero.
Impiegarono qualche istante, ad allontanarsi.
"Vado a vedere se sono pronti in cucina", disse Leona sottovoce, contenta che si fosse mostrato per quello che era.
"Sono pronti", le rispose:"Urveo aspetta solo che lo chiamiamo".
Leona si volse verso l'amico:"Allora non lasciamo raffreddare il cibo. Non possiamo offrirti molto, Tauro, Chiura è paurosamente povera, ancora. Ma spero ti arrivi la gioia con cui ti accogliamo a tavola con noi, e mi auguro che prima o poi tornerai solo per vederci, fuori dalla veste ufficiale. Questa devi considerarla la casa di un fratello, ormai". E guardò Furius, per vedere se aveva detto bene.
"Di un fratello e di una sorella", confermò Furius passandole un braccio alla vita, e Tauro sorrise senza dir nulla, perché nulla sarebbe uscito in quel momento dalla gola.
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