cap. 28 Tela di ragno
Archés fece in modo che Dagor potesse frequentare la Corte, come concedeva a tanti mediocri cortigiani che teneva d'occhio.
Dagor obbedì alla sua richiesta. Si confuse tra gli altri e mormorò contro di lui. Inizialmente nessuno lo distinse tra la massa. Ma poi trovò chi concordava con le sue lamentele e il suo mugugnare. Comprese che lo sondavano e recitò da consumato attore. In fondo faceva il teatrante da quando aveva quattordici anni.
I ragni ritennero di poter attaccare la tela a quell'insulso nobiletto, che incontrava spesso il principe sprofondandosi in inchini ipocriti. Quando Archés divenne re, e mise il sigillo sul foglio che imprigionava la discrezionalità della nobiltà terriera, i ragni tesero i fili e si prepararono all'agguato.
Tauro era stato informato anni prima che Archés aveva un finto nemico, tra gli altri autentici. Il comandante aveva contenuto un moto di sorpresa. "Chi?", aveva chiesto. Ma Archés non aveva risposto.
"Non ti fidi di dirmelo?", si era meravigliato il vecchio capo squadra.
"Nessuno potrà tradirlo, se non io o lui stesso", gli disse Archés.
"Così, se davvero finisse in una trappola organizzata contro di te, rischi che la tua guardia lo uccida come un traditore...", gli fece presente Tauro.
"È una cosa che abbiamo messo in conto, io e lui, che possa perdere la vita".
Il militare portò il pugno al petto e chinò il viso, corrucciato.
"Lo riconoscerai, Tauro. Quando si farà avanti per fermare i miei assassini, il tuo istinto ti dirà che non mente".
E il tempo era arrivato. Archés aveva siglato la nuova legge e la trappola si era chiusa. Dagor avrebbe potuto non saperne nulla, ma era stato tanto abile a farsi giudicare stupido, da ottenere che invece lo usassero e senza troppe cautele.
Solo, lo coinvolsero all'ultimo momento; gli affidarono un compito essenziale alla riuscita ma semplice, così che non potesse sbagliare: non temevano infatti la sua infedeltà, ma semmai la sua incapacità.
Doveva solo dare un segnale, appostato presso una data finestra, per significare che la ronda di guardia al re era transitata da un dato corridoio. Ricevuto l'ordine di sorpresa, a Dagor non rimasero che una manciata di minuti per accorrere.
La ronda già sopraggiungeva e l'uomo cercò di pensare in fretta, molto in fretta. Se volevano sapere che la ronda superava quel punto del percorso, si disse, forse significava che fin lì essa poteva intervenire con successo, e più oltre no...
Se avvisava la ronda forse avrebbero sventato l'attacco. Ma invece mentre rifletteva già scattava il primo agguato, già pronto proprio sul percorso dei militari! Prima che potesse fare alcunché, i soldati della guardia caddero sotto i suoi occhi con la gola tagliata e cinque figuri, con i volti bendati si slanciarono verso le camere del re.
Fa il segnale!, gli fece capire uno di loro a gesti prima di andare. Dagor, che dall'alto di un ballatoio aveva assistito impotente, capì che da fuori altre forze attendevano di attaccare.
Si guardò disperato intorno. Corse verso l'altra ala del palazzo, dove sperava di trovare aiuto, ma Tauro già accorreva con gente armata. La sorveglianza sul re era più stretta di quanto non apparisse e non appena una ronda non rispettava i suoi passaggi un complesso sistema di allerta scattava.
Entro pochissimo, già la guardia reale accorreva in forze. Dagor si scontrò con il drappello. Sembrava un uomo in fuga, e Tauro brandì la lancia. "È in pericolo", farfugliò Dagor senza fiato:"devo dare un segnale... ", parlò senza coerenza.
Tauro lasciò andare il colpo per uccidere quel topo che li rallentava. "Dovete correre !"
Tauro frenò lo slancio appena in tempo; l'uomo non si era ritratto, le sue parole erano un allarme... "Che segnale devi fare?", chiese il comandante ricollegando all'improvviso le parole convulse di quello.
Dagor indico dietro di sé:"Dalla finestra... per dire che la ronda è sistemata... gli hanno tagliato la gola... e vanno da Archés..!"
L'angoscia di quelle immagini arrivò a Tauro come un pugno allo stomaco. "Volate dal re", urlò ai suoi, "Errhol, tu corri ad allertare gli arcieri, subiremo un attacco anche da fuori. Tu... ", si rivolse a Dagor:"...Torna di corsa a quella finestra e dà il segnale. Se tardi ancora capiranno che qualcosa è andato storto e non li prendiamo più. Preferisco che attacchino, se siamo sull'avviso", e si lanciò dietro i suoi.
Dagor tornò alla finestra più in fretta che poté e alzò il braccio nel segnale convenuto. Erano trascorsi forse una decina di minuti, si chiese se fosse in tempo... Attese ancora alcuni istanti, perché nulla potesse apparire di strano, e poi si tirò indietro.
Fuori dallo specchio della finestra prese infine a correre per raggiungere le guardie, col cuore in gola. Dagor era uno dei pochi Inuri che in giovinezza non aveva ambito a una carriera in divisa e che non aveva appreso che pochi rudimenti nell'uso delle armi. Ed era, ora, forse l'unico nobile della Corte che non si pavoneggiasse con almeno un pugnale sulla cui elsa poggiare la mano discorrendo.
Che utilità potesse mai avere in uno scontro era un mistero, ma Dagor non agiva più secondo la mente ma spinto dal cuore. Finì dritto nel cortile dove erano appostati gli uomini che volevano uccidere il re, dove Archés si era visto piombare addosso un manipolo di assassini con la sola difesa di un paio d'uomini di scorta, dove quelli di Tauro erano arrivati appena in tempo per impedire il peggio.
Finì in mezzo allo scontro, uno scontro senza freni, dove ognuno doveva uccidere o morire, e non si risparmiava nessuno. Tauro aveva spinto Archés oltre una porta e gliela aveva chiusa alle spalle, e il re aveva maledetto la sua vita, che lo costringeva ad aspettare impotente mentre al di là di un uscio si moriva per difenderlo.
Gli assassini erano agguerriti e ai mascherati del primo agguato se ne erano aggiunti altri sbucati sembrava dal nulla; Tauro e la scorta erano i migliori combattenti che Glittiga potesse vantare. Lo scontro si esaurì nel sangue.
Nessuno si arrese, anche quando i congiurati videro sopraggiungere altri soldati. Meglio morire così che finire processati per tradimento. Dagor guardava stordito intorno, cercando il re tra i corpi riversi. Un soldato calò la lancia per squarciargli il petto, non avendo quello indosso la divisa.
Il grido di Tauro rallentò il militare appena in tempo, nel suo slancio. L'arma segnò una striscia rossa dalla spalla al fianco opposto. Dagor si guardò incredulo il petto, chiedendosi come facesse così poco male, morire.
Quando Tauro riaprì la porta, ogni cosa era finita, nel cortile. Il capo delle guardie si era accertato di persona che ognuno degli assalitori fosse morto. Con dispiacere in realtà, aveva constatato che non uno di loro fosse ancora in grado di respirare e quindi di fare nomi.
Poi al medico che arrivava a precipizio indicò per primo Dagor. Uno sguardo veloce, bastevole ad assicurare che fosse una ferita di striscio, poco profonda. Dagor abbassò lo sguardo, vergognoso d'aver pensato di essere morto.
Tauro fece portare via subito i corpi dei militari caduti e riorganizzò velocemente una scorta con coloro che erano accorsi con lui. Infine si affacciò nel magazzino di servizio in cui aveva spinto Archés.
Lo fece quando si stavano ormai portando via gli ultimi feriti, e aveva atteso questo, perché il re non potesse rendersi conto immediatamente di quanti della sua scorta erano caduti quel pomeriggio. Il pericolo era stato micidiale, e il prezzo pagato per scongiurare il peggio, alto.
Archés era seduto in attesa. Aveva atteso con l'orecchio incollato al legno della porta, finché aveva sentito il clamore calare e la voce autorevole di Tauro impartire ordini serrati; aveva compreso che lo scontro si era concluso e che Tauro era incolume.
Allora si era seduto, ma non era solo la sorte del caposquadra, che gli premeva. Quanti uomini avevano perso, questa volta? E si era seduto ad attendere con i denti serrati da far male.
Infine Tauro aveva riaperto l'uscio, coperto di sangue in massima parte non suo:"Il re può riprendere in sicurezza la sua strada". S'inchinò rispettosamente e guardò bene Archés in viso, per vedere come stesse.
Sapeva quanto doveva ferire il suo vecchio compagno restare un passo indietro, inerte, a lasciarlo combattere per lui. Poi si volse e fece entrare Dagor, richiudendo la porta:"È una ferita superficiale, prima di mandarlo a medicarsi ho pensato volessi ringraziarlo. Ci ha avvisato dell'agguato".
Archés fissò la stria di sangue; avesse inciso appena più profondamente quella lama l'avrebbe ucciso.
"Sono stato a un passo dall'ucciderlo, Archés... Il mio istinto forse non è così buono come lo giudicavi", aggiunse infatti Tauro, a sottolineare che l'uomo aveva realmente esposto la sua vita a un rischio gravissimo.
Quello si schermì:"Mi ha creduto", disse indicando Tauro e poi:"Ho avuto paura, molta paura che non mi credesse e che tu morissi".
Archés annuì; non paura di essere ucciso, aveva avuta, ma paura di non potergli procurare soccorso in tempo. Lo confessava quasi vergognoso, senza rendersi bene conto che quella paura non diminuiva il suo onore ma accresceva il suo merito.
"Una delle cose più vere che mio padre mi abbia detto, tentando di prepararmi al mio compito... ", disse Archés appoggiando piano una mano sulla spalla ferita:"è che la cosa più dolorosa di tutte sarebbe stata vedere le persone a me care rischiare ogni cosa per proteggermi. Ti devo la vita, Dagor".
L'uomo arrossì appena:"Sarei tra le persone care?", chiese sottovoce.
"Sono diventato così duro e chiuso, così arido e scostante che chi mi è caro non lo capisce più?", e la voce di Archés si fece quasi implorante.
Dagor rabbrividì, poi sorrise:"Che ti abbia salvato la vita... non so ma sarebbe stato il dovere di chiunque, farlo.
Ma se ricordi, tu hai salvato la mia molto tempo fa, quando ero solo un ragazzetto dissennato e valevo davvero nulla".
Portò la sua mano su quella del re e la spinse, perché premesse forte sulla spalla. Sorrise di più, al dolore:"Forse qualcosa di buono mi è riuscito, alla fine. Ma confesso che spero di essermi tradito, ormai, così che sia inutile continuare a fare il cortigiano ipocrita.
Parlare di te come mi hai chiesto, per anni, mi è costato molto, Archés, e spero tu non me lo chieda più"; e lo guardò negli occhi francamente, finalmente in pace con se stesso, senza vergognarsi, per una volta, di quello che era perché anche così era riuscito a fare qualcosa di degno.
Archés ritrasse la mano sporca di sangue:"Credo che come nemico del re non saresti più credibile, in effetti, Dagor. Vuol dire che la nostra amicizia farà rodere d'invidia parecchia gente".
E l'avrebbe abbracciato, se Dagor non si fosse ritratto fissandolo con un'espressione che fermò Archés, e lo fece tornare serio. Non farlo, gli avevano detto quegli occhi. E Archés ricordò quando era lui a fermare l'amico allo stessa maniera, perché non esprimesse il suo affetto in quel modo vergognoso.
"Tauro, accompagnalo in infermeria e poi rimandamelo. Avremo bisogno di sapere nel dettaglio tutto quello che ti è successo, Dagor, e poi finalmente potremo parlare un po' tra noi come quando eravamo al collegio".
E a Tauro che già si avviava chiese:"Un'ultima cosa...Quanti uomini abbiamo perso?"
Tauro esitò appena:"Dammi il tempo di controllare le condizioni dei feriti e di raccogliere il rapporto della guardia che sorvegliava il parco. Abbiamo subito un attacco anche dal di fuori, oltre ai traditori che erano riusciti ad appostarsi nel palazzo e che hanno teso un agguato alla ronda".
In quel non rispondere a una domanda precisa, Archés lesse il bilancio pesante dello scontro.
"Così tanti sono stati... ", commentò dolente a occhi bassi.
Tauro ne ebbe pena. Conosceva a fondo ognuno di quegli uomini che erano morti e si sentiva oppresso e infelice. Ma la pena per Archés pure era grande.
"È stato un piano ottimamente organizzato e abbiamo corso un pericolo davvero grande, questa volta. Il prezzo per sventarlo è stato alto. Ti farò rapporto al più presto possibile, ma devo prima assicurarmi che non sfugga nessuno che ha collaborato coi congiurati e che magari sta cercando di nascondersi, adesso.
Questo è un cancro che dobbiamo rimuovere una volta per tutte e con decisione, Archés", gli anticipò Tauro, che aveva riconosciuto tra gli aggressori un nobile che da tempo era nel suo elenco di sorvegliati; questo gli faceva temere il coinvolgimento anche di qualcuno che Archés non avrebbe mai voluto scoprire nemico fino a quel punto.
E ora, Archés correva nel parco. Quanto era passato? Qualche mese... ancora ricordava senza sforzo i visi delle sue guardie del corpo, di quelli che lo accompagnavano fieri della loro divisa e di quel compito importante. Ora, lui correva e loro erano immobili, e freddi.
Archés sudava e tentava di portare disperatamente il pensiero altrove.
Anche degli aggressori, ricordava bene i volti. In particolare, lo sguardo sprezzante che usava rivolgergli il signore di Amarea, il giovane Gadria. Da sempre uomo di punta della nobiltà del Nord, era venuto a Glittica per accompagnare una donna della sua casata, che Ergon aveva scelta per stringere alleanza con quei potenti.
Archés l'aveva presa in moglie e il signore di Amarea era rimasto a Palazzo, accettando uno di quegli incarichi prestigiosi che il re offriva come compenso per un sostegno alla propria politica.
Un alleato potente, avrebbe dovuto essere.
Un nemico sleale, si era dimostrato.
Aveva pagato con la vita il suo tradimento, passato da parte a parte dalla lancia di Tauro. Archés si era chiesto rabbrividendo se gli fosse stata data una possibilità di arrendersi o se la sua fosse stata una esecuzione. Tauro non era uomo da uccidere leggermente, ma nutriva per quell'uomo un rancore furioso.
Vicino com'era e intimo del re, egli non aveva mancato di registrare la onnipresente, indiscreta figura di quel nobile presso la regina, di cui ostentava la familiarità; né Tauro aveva potuto, così come lo stesso Archés, mancare di notare la somiglianza che andava affiorando tra i principi e il Gadria.
"Sangue di famiglia", aveva detto un giorno un sempliciotto di cortigiano, facendo riferimento alla regina, portatrice del sangue dei signori di Amarea.
Ma Archés e Tauro avevano inteso altro. I miei bastardi, li definiva Archés tra sé, pensando ai principi. Inutilmente aveva cercato di vincere comunque la partita, di tirarli a sé, di farli figli nel cuore se pure era ormai certo che non lo fossero nel sangue. Aveva fallito miseramente.
Gli ballò davanti lo sguardo acuto di Fidelio. Piuttosto che passare il potere a uno di quei suoi giovani arroganti, mille volte meglio sarebbe stato prendere come protetto il giovane erede dei Chiura. Non fosse stato il figlio della federale. Archés si fermò di botto. Correva da un'ora, forse, o da due, aveva perso la cognizione del tempo. Si faceva buio ed era ora di rientrare.
Solo che anziché svuotarsi la mente non aveva fatto che rigirarsi un coltello nell'anima, e non riusciva a liberarsi dal senso di oppressione che lo tormentava. Avesse potuto vedere le forze che gli si stringevano intorno, forse sarebbe impazzito. Perché infine, c'è un limite all'impegno con cui ci si può battere. E quello che si preparava era al di là delle forze di un uomo, fosse anche uno della buona tempra di Archés.
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