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cap. 27 Dagor

Dalla inattesa conclusione della missione della navigatrice Aliluce, i rapporti tra Inurasi e la Federazione si erano stabilizzati su un contatto periodico, molto formale, che aveva lentamente fatto sfiorire la speranza del corpo diplomatico in una maggiore apertura al dialogo.

Ergon attraverso l'esperienza di Archés aveva valutato eccessiva la distanza tra i due blocchi e ritenuto ancora assai prematuro un contatto più stretto di quel saluto annuale, che scambiava con il comandante dei grigi. Occorreva portare Inurasi molto più avanti, prima che un confronto potesse proporsi proficuamente e questo fu compito che Ergon passò nelle mani di Archés.

Al suo ultimo colloquio con la Federazione, Ergon aveva voluto salutare il suo interlocutore, comunicandogli personalmente che aveva lasciato il trono al principe. "Era tempo che mi concedessi un po' di riposo, il potere alla lunga logora e Archés è ormai pronto. Prendo congedo, comandante. Lei è più giovane, le auguro un buon lavoro", e con questo, il vecchio re aveva ceduto il microfono a suo figlio.

Quando l'anno successivo la radio tornò a portare le voci dei tecnici federali, Archés era al posto di Ergon. Il comandante lo salutò con le formule di rito, poi chiese notizia del vecchio sovrano.

"È morto", affermò asciutto Archés, senza emozione. Aveva visto suo padre svuotarsi di forze e ridursi scheletrico. Nell'ultimo periodo, le sue stanze erano state chiuse a chiunque, perché non si assistesse da parte di nessuno a quella rovina, esclusi Archés e i medici che si alternavano per tentare di dargli sollievo.

Era stata una strada lunga e sofferta, nonostante l'aggressività del male, togliere la vita a quel fisico possente. La fine era arrivata misericordiosa, e Archés ed Ergon l'attendevano da tempo.

Il figlio non aveva manifestato che ciò che la severità dei loro usi consentiva. Un cordoglio composto, un'accurata esecuzione delle cerimonie di accompagnamento e la rapida ripresa di ogni regolare attività.

Nessuna commozione fuori luogo, nessun ritardo nell'esame delle mille questioni che andavano sottoposte all'attenzione del re. Che Ergon fosse stato un padre speciale e il loro un legame fuori dal consueto, restò cosa ignorata ai più, come sotterraneo era sempre stato il loro rapporto.

"È morto", disse Archés, e non manifestò nulla. Il silenzio dall'altra parte fu lungo. La voce del grigio tornò pure essa a pronunciare le formule necessarie per porgere le condoglianze, senza esprimere soverchia emozione. Solo il lungo silenzio, parlò al nuovo re del colpo arrivato al suo interlocutore.

In quella circostanza, furono rinnovate a lui le offerte di dialogo che Ergon educatamente congelava. "La Federazione attende che Inurasi voglia onorarla della sua fiducia", disse il comandante.

E si chiedeva se quel nuovo sovrano, che aveva vissuto un anno presso di loro, avrebbe osato spingersi più oltre di quel loro colloquio che segnava il trascorrere di dodici mesi.

"Non abbiamo navi d'altura adeguate, a una traversata del mare che separa le nostre coste, comandante. La navigazione è un esercizio di coraggio, ma senza il mezzo adatto è solo incosciente pazzia", rispose Archés con assoluta chiarezza.

Inurasi non è pronta, comunicava.

Il grigio tamburellò sul tavolo. "Noi amiamo navigare, re Archés, e dalle nostre coste i venti soffiano favorevoli", affermò.

"Ciò significa, come è ovvio, che quello stesso vento ci è contrario, e ributterebbe le nostre imbarcazioni indietro sugli scogli", gli rispose l'Inuri.

Il grigio rivolse la palma della mano verso l'alto in un gesto di sconforto, che sarebbe stato assai espressivo se Archés l'avesse visto e non solo ascoltato via etere.

"So che avete maestri d'ascia di provata abilità. Quando vorrete realizzare una regina dei mari, e farcene l'onore, i nostri porti saranno in festa per voi", concluse il comandante dei grigi, sapendo che ancora nulla accadeva di nuovo a Inurasi.

Ormai Ergon era morto. L'uomo che aveva gettato una corda oltre il baratro. Archés ora andava misurato. Il comandante lo ricordava e sperava in lui. Ma era ora, che cominciava la parte difficile. Ora che il grande potere dei re era nelle sue mani, con tutte le tentazioni a quello legate.

Il colloquio finì e Archés tornò nelle sue stanze. Stanze vuote. Come Ergon prima di lui, Archés aveva già affidato ai suoi seguaci più capaci e leali compiti che li impegnavano lontano dalla capitale. Escluso solo Tauro, responsabile della sua guardia personale, cioè della sua stessa incolumità fisica, non aveva trattenuto veri amici, presso di sé.

Era circondato di cortigiani, nel migliore dei casi di nessuno spessore e nel peggiore persone infide che teneva sotto costante e diretto controllo.

Suo padre aveva temperato fino allora quell'isolamento: con la sua morte, infine, le stanze erano veramente rimaste vuote.

"Tauro", si rivolse al capo della sua scorta,"vado a correre". Stancarsi fisicamente fino a crollare era ciò che consentiva ad Archés di dormire qualche ora, in quei giorni. Tauro ebbe il gesto di obbedienza che era doveroso, senza parlare.

Archés rimpianse Ardesio. Tauro era inappuntabile, rigoroso, e nelle sue mani la sua sicurezza era incontestabile. Ma stava al suo posto. Ardesio avrebbe corso con lui fianco a fianco; avrebbe chiesto, sarebbe stato indiscreto ma l'avrebbe confortato; abbracciato, se fosse stato veramente al limite delle forze.

Ardesio però, era nel Nord, a presidio delle ricche province settentrionali.

Tauro si inchinò e corse dietro di lui a distanza di sicurezza. Correndo Archés tentava di cancellare l'angoscia di Ergon che gli stringeva la mano con un rantolo, la pena di quella pelle stirata sugli zigomi, del naso aquilino che svettava assai più evidente nel viso svuotato cadaverico, che aveva l'uomo composto nella bara.

Archés tentava di volgere il pensiero altrove, ma ovunque si volgesse nuvole temporalesche avanzavano contro di lui. Correre lo riportava a Polaris, sul campo d'allenamento con l'Atzaki; e Polaris era Leona; e Leona era il male.

Si girava di scatto, a dare le spalle a quel fantasma e vedeva Tauro seguirlo. Ai suoi fianchi, altre guardie del corpo correvano nel verde del parco. Tauro sapeva come proteggerlo: già due volte gli aveva consegnato i responsabili di un complotto rivolto a ucciderlo.

I ricordi si affastellavano foschi. Il suo primo atto di forza, nel salire al trono, era stata una riforma fiscale. Le tasse non avevano subito variazioni, nell'ammontare e nella modalità di raccolta, ma Archés aveva egualmente provocato un terremoto, nella nobiltà legata alle ricchezze dell'agricoltura; il re aveva infatti slegato il pagamento delle tasse dei contadini dalla loro appartenenza a un distretto.

La vecchia imposizione rendeva di fatto i contadini stessi proprietà dei nobili, che direttamente a proprio beneficio imponevano e gestivano le tasse.

Archés trasformò le stesse in imposte di proprietà dovute al re, che ne affidava riscossione e gestione al signore di ciascun distretto. Apparentemente, nulla cambiava. Nella sostanza era una trasformazione sconvolgente: i contadini pagavano non perché, nascendo sulla terra, erano proprietà del suo Signore, che riscuoteva a suo piacimento somme che potevano anche affamarli, calpestandoli come volesse, dai servi che virtualmente erano.

Ora i contadini pagavano perché erano proprietari, proprietari! del loro pezzo di terra e il signore raccoglieva le tasse per il re, nella misura stabilita dal re, e a questo doveva rendere conto dell'ammontare e dell'uso delle stesse; denaro che, o era rivolto al benessere del distretto, o gli era tolto.

Benché Archés badasse a lasciare i suoi nobili nell'abbondanza, non era più possibile per loro consumare in sfarzo ciò che veniva dalla terra ignorando e sdegnando la povertà della loro gente. E la nobiltà sussultò come percossa da una frustata.

Un primo complotto, sventato anni prima, aveva reso Archés oltremodo prudente. Sapendosi destinato a percorrere una strada molto rischiosa, aveva deciso di aggiungere alla sorveglianza della sua guardia personale un arma segreta, un custode insospettabile. Dopo mille ripensamenti, aveva scelto il suo uomo.

Un vecchio amico, di cui un tempo aveva persino parlato a Leona. Ora era un uomo, aveva famiglia, perfino un figlio. Ma Archés conosceva il suo segreto più nascosto. A lui chiese un gran sacrificio:"Ho bisogno di un nemico, Dagor. Un nemico che mormori nell'ombra contro di me e si dimostri falso e ipocrita come Modeimos", disse citando il personaggio di un dramma, famoso per pugnalare alle spalle il proprio migliore amico.

Dagor lo aveva guardato senza capire:"In genere si ha bisogno di amici, Archés!", aveva commentato.

"Qualcuno ne ho Dagor", gli aveva risposto:"Ma mi preparo a farmi tanti nemici da rendere la partita impari. Ho bisogno di qualche risorsa nascosta, qualcosa che non ci si attenda, che colga di sorpresa chi tenterà di eliminarmi".

Dagor si agitò inquieto:"Tu sei molto amato Archés, nessuno vorrà mai alzare la mano sul figlio di Ergon!"

Archés scosse il capo:"Già molti mi onorano col sorriso sulle labbra e l'ostilità negli occhi. Quando sarò re e comincerò a colpire i privilegi della nobiltà, i ragni tesseranno la loro tela e io ci finirò dentro senza scampo, nonostante l'ottima guardia di Tauro. Ho bisogno di qualcuno che mi salvi avvisandomi in tempo che i ragni mi hanno raggiunto".

Gli occhi di Dagor si erano allargati:"Vuoi che faccia il doppio gioco?", e chiedeva conferma di aver capito bene.

Perché Dagor aveva vissuto seminascosto per tutta la vita, senza mai assumersi un impegno di rilievo. Un uomo di modeste capacità, lo si giudicava.

Archés sapeva bene da dove nascesse quel suo tenersi discosto dagli altri. Lo sapeva da quando erano ragazzi, al collegio, lui un paio d'anni più grande di Dagor.

Archés era un giovane di intuito ed Ergon riversava in lui tutta l'esperienza che gli riusciva di comunicare. Precocemente, avevano affrontato ogni genere di argomenti, perché il re voleva che il principe avesse una mente aperta e fosse da subito consapevole delle regole aspre del loro mondo.

Dagor era invece un giovanetto piuttosto ingenuo, che viveva la sua prima, grande passione. Un innamoramento che già sarebbe stato di per sè motivo di scherno: un maschio prende e usa, non può sospirare imbambolato al passaggio di una bella donna!

Ma la cosa era ancora più grave, perché l'oggetto d'amore di Dagor era un ragazzo del penultimo anno, già quasi un uomo, muscoloso come un toro e gretto come una bestia.

Archés intuì che Dagor era così sprovveduto da non sapere quale considerazione il loro ambiente riservava agli omosessuali. E quando si accorse che l'infatuazione del ragazzino si stava spingendo fino a tradirlo, agì. Fece in modo di organizzare una serata in compagnia dei più grandi, cosa che il suo rango gli ottenne facilmente. Nessuno sdegnava di mostrarsi in sua compagnia, per potersi poi vantare della sua amicizia.

Nascose il ragazzino in una saletta affianco, da dove potesse origliare. Gli ordinò di non farsi vedere e sentire per nessun motivo, ma di non perdere una parola; poi durante la serata portò il discorso sull'omosessualità.

Non fu necessario spingere, perché quelle menti rozze svelassero le proprie opinioni. Era un argomento adatto a commenti salaci e a giudizi feroci e Archés dové frenare lo schifo, quando passarono a descrivere il trattamento che a loro giudizio sarebbe stato opportuno riservare a chi osava disonorare la sua natura di maschio.

Le oscenità che vennero fuori ridendo, richiesero al principe un discreto autocontrollo. Quando poté mettere fine a quell'incontro e i ragazzi più grandi furono andati via, tornò a recuperare il ragazzino.

Archés sapeva che benché ingenuo, perché privo di esperienza e di chi parlasse con lui francamente, Dagor era tutt'altro che stupido.

Lo trovò tremante, con lo sguardo disperato di un animale in trappola. Archés gli passò un braccio intorno alle spalle e lasciò che sfogasse in un pianto sommesso, il dolore della disillusione, l'orrore di quella violenza che aveva sfiorato, la paura d'essere un aborto d'uomo, la confusione che gli si agitava dentro.

Poi, passato quel primo sconforto, avevano parlato. Dagor era entrato in quella stanza innocente come un bambino. Ne uscì cresciuto come se quelle poche ore fossero state anni. Uscì consapevole di quello che era, consapevole della crudeltà con cui sarebbe stato trattato se si fosse capito, consapevole di come chi divideva quella sua stessa sorte si costruisse di norma un paravento di normalità per non farsi individuare.

Uscì stupito della sensibilità di Archés, della sua capacità di non giudicarlo, dell'amicizia che gli aveva offerto. Dagor aveva sondato se questo venisse da un sentire comune. Ma no, il principe era decisamente, assolutamente, entusiasticamente etero, come gli spiegò. Ma pesava le persone per cose diverse, che non fossero con chi ambissero a far sesso. Pesava le persone per il loro cuore e per la loro mente.

Dagor entrò nella stanzetta infatuato di un bruto, ne uscì innamorato del principe, senza rimedio.

Ora Archés si proponeva di sfruttare, quel sentimento. Gli ripugnava, ma era certo che Dagor non gli avrebbe negato nulla e non l'avrebbe tradito.  

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