cap. 26 Radici di quercia
La notizia che Ergon era morto aveva fulminato Chiura diversi mesi dopo l'incoronazione. La valle si era svegliata quella mattina sotto un manto gelido, come anche la natura si fosse ritratta in lutto e avesse nascosto il volto, coprendosi di neve.
Lo stendardo reale era stato portato a mezz'asta e un drappo nero issato. Il vento gelido del Nord lo aveva fatto vibrare e schioccare nell'aria silenziosa l'intero giorno come volesse strapparlo via.
Inurasi si era stretta nello sconforto. Ergon era stato un grande sovrano; era riuscito con un miracolo di equilibrio a perseguire i suoi scopi senza scontrarsi con la nobiltà di cui limava i privilegi, lusingandola con riconoscimenti di facciata ed esibendo, a ogni buon conto, una guardia di fedelissimi numerosa e agguerrita.
Il popolo l'aveva amato moltissimo perché con una intelligente pianificazione aveva migliorato le condizioni di vita delle classi umili; durante il suo regno zone aride dove l'acqua era scarsa e malsana, erano state raggiunte da acquedotti; zone isolate dell'interno erano state collegate da nuove strade, i borghi si erano arricchiti di palazzi signorili e la giustizia era stata amministrata con più rigore.
La capacità del re di scegliere gli uomini di potere aveva portato frutti di stabilità e di ordine. Persino chi aveva vissuto il nuovo corso come una limitazione, come il vecchio signore di Chiura, gli aveva riconosciuto una forza morale e materiale tale da sconsigliare di dichiararsene nemico.
La sua morte percosse il regno con forza, e la gente lo accompagnò col pensiero fino al luogo delle grandi anime, raccomandandolo al dio dei venti perché il suo spirito soffiasse potente e libero nei cieli stellati.
Tutti coloro che a quel re avevano giurato fedeltà nella divisa candida delle guardie, vissero un cordoglio ancora più profondo.
E quelli tra loro, poi, che potevano ricordare un rapporto diretto, quello sguardo indagare con cura nel proprio animo, quella voce profonda far vibrare il cuore, si sentirono strappare via qualcosa dai visceri, come se quell'albero vigoroso che era stato il re avesse affondato le sue radici in ognuno di loro, e ora che la quercia si era abbattuta divelta dalla tempesta, quelle radici avevano aperto la terra nel cadere e la terra aperta era il loro petto.
Furius aveva sofferto particolarmente. In un tempo lontano il re gli aveva indicato una strada: Archés avrebbe dovuto reggere un peso micidiale che minacciava di schiacciarlo. Il re conosceva bene quel peso, e le forze di suo figlio. Furius l'aveva salvato, ora per sempre restava legato al suo destino; Archés non avrebbe retto se fosse stato lasciato solo, ed Ergon glielo aveva affidato.
Furius dovette fare appello a tutte le sue forze per non cedere come un ragazzino, durante la cerimonia in cui la valle di Chiura ricordò il grande re e accese in suo onore il falò funebre.
L'aria aveva ondeggiato sopra le alte lingue di fiamma, e le faville avevano vorticato verso l'alto, trascinando i pensieri e le preghiere dei valligiani perché Ergon non si perdesse nel nulla ma divenisse una di quelle entità che accompagnano i vivi e vegliano su di loro.
Si credeva, a Inurasi, che se molti cuori pregano con sincerità per un'anima, questa viene accolta e risparmiata dal buio, che inghiotte chi vive invece inutile come una bestia dei campi.
Non un inferno ma l'oblio, attendeva le persone comuni; e non serviva, pagare la gente in punto di morte perché al falò pregasse. Il dio rideva, di simili tentativi. Ma per Ergon il regno si era fermato e perfino i piccoli dei collegi erano stati portati attorno ai roghi, a guardare incantati le cataste bruciare e a intonare i lenti, struggenti canti del rito di accompagnamento.
Furius aveva dovuto irrigidirsi per non mostrare debolezza, ma Leona non aveva provato nulla. Aveva visto donne che il re non l'avevano mai neppure intravisto a una cerimonia, lacrimare e lamentarsi con tono sincero, e aveva provato dispiacere per loro.
Si era stupita del silenzio del suo cuore e ne era stata avvilita e mortificata. Ciò che era accaduto mesi prima doveva averla inaridita, evidentemente. Furius no, Furius soffriva. E Leona aveva provato voglia di piangere per lui, e bisogno di consolarlo. Ma per Ergon non aveva versato una lacrima.
Non le era riuscito neppure chiedendo a se stessa perché fosse così dura, neppure cercando di forzarsi a farlo.
Giorni erano trascorsi e la gente intristita aveva ripreso il lavoro. Tempo dopo, nel pulire un portaoggetti nella camera del padrone, una donna l'aveva fatto cadere, e parecchie cose erano rotolate fuori. Leona, che stava lavorando con lei, non aveva neppure rimproverato la donna, tanta mortificazione quella aveva dimostrata.
Erano giorni cupi, in cui le cose apparivano assai diverse dal solito. Le donne raccolsero insieme ciò che era caduto e un piccolo oggetto finì non visto sotto un letto.
Quasi un mese trascorse ancora e tutti erano ormai tornati alla vita normale, quando riordinando Leona notò sul pavimento un brillìo di metallo. Raccolse il piccolo distintivo rigirandolo tra le dita.
Urveo la trovò diverso tempo dopo, piegata in due nella sala; l'uomo si precipitò in suo soccorso, perché boccheggiava. Usò la forza per rialzarle il busto e allontanarle il braccio stretto contro lo stomaco, ma non vide sangue. Stupito, non trovò alcuna ferita ma notò la mano serrata convulsamente intorno a qualcosa. Stentò ad aprirle le dita, bianche da quanto stringeva.
Riconobbe la medaglietta-ricordo con l'anno stampigliato che Furius aveva ricevuta al giuramento, come tutti gli allievi che superando il corso diventavano membri della guardia. L'anno, il corso, il motto di fedeltà al re, intorno al profilo di Ergon.
Urveo guardò la donna, che rantolava come non riuscisse a respirare. "Calmati", le disse, comprendendo in un lampo che cosa stava succedendo. Ma quella scuoteva la testa e inghiottiva aria affannosamente, in preda al panico.
"Devi calmarti, non ti sta succedendo nulla, riprendi il controllo, donna!" Ma Leona era scossa ora da un tremito violento; l'uomo le si sedette accanto e l'abbracciò. Aveva visto succedere altre volte, cose così. Accadeva, che un lutto travolgesse qualcuno e gli scatenasse il panico. Incontrollabile, illogico.
"Sta calma", prese a ripeterle tenendola stretta, massaggiandole un braccio:"Non avere paura, è tutto a posto".
Leona prese a singhiozzare:"Non respiro", mescolava tra i singhiozzi, "Non respiro!"
"Non è vero, lo vedi anche tu; la sensazione di soffocare non è fuori, ma dentro. É l'anima, che sta soffocando".
Urveo la cullava rassicurante e Leona gli si aggrappò come una bambina:"Ho paura, una paura terribile", singhiozzava.
"Lo so, lo so. Ma non c'è nulla che ti minaccia, lo vedi anche tu. Controllati, ora passa".
Leona continuò a respirare affannosamente a lungo, stretta al vecchio, percorsa da brividi; cosa mi succede, continuava a pensare, cosa mi succede... ma lentamente il tremito si calmava, il respiro si faceva più regolare.
Urveo continuò a cullarla, attendendo che si riprendesse. Infine, il pianto si quietò; la donna non sembrava in grado di reggersi da sola, ancora, e Urveo lasciò che rimanesse appoggiata a lui.
"A che serve vivere, Urveo", disse infine Leona a fatica:"Se il solo arrivo è la morte? Che scherzo è, a che serve quello che facciamo? Di colpo tutto mi è indifferente e non ho motivo di muovermi da questa panca... in che inutile gioco ci affanniamo?"
Urveo sorrise appena. Eccolo, dopo il panico, il tunnel buio del vuoto, del disorientamento di chi perde qualcuno di importante.
"La morte non conta nulla, donna", prese a dirle: "Non è uno scopo, non è niente. Soltanto, ferma i giorni del lavoro e conclude i nostri sforzi. Segna il momento di raccogliere gli attrezzi e fare posto a chi continuerà a costruire.
Noi più vecchi, spesso la consideriamo con sollievo, perché siamo stanchi e dolenti e certi che l'opera andrà avanti anche meglio, in mano a forze fresche. Non devi angosciarti per Ergon: ha avuto un tempo abbastanza lungo da realizzare molti progetti, e non credo abbia sprecato nulla di quanto ha ricevuto.
Noi tutti veniamo al mondo con una dote di risorse e un tempo definito per usarle. Credo che lui abbia fatto un ottimo uso di entrambe le cose, vedendo la forza con cui tutti si sono stretti a spingerlo davanti al dio dei venti. Ergon sarà di quegli spiriti che meritano di passare oltre, in una vita ancora migliore e non dovresti dolerti per lui, non ce n'è alcun motivo".
Leona scosse il capo confusa:"Il grande re è morto da tanto... che c'entra con questa paura che mi sta accecando, con quest'aria che non gonfia i polmoni, con questo desiderio di non vedere e sentire più nulla... ".
Urveo continuò a tenerla vicina:"Quando qualcuno a cui abbiamo tenuto molto muore, a volte il cuore si chiude e si nasconde, come una bestia del bosco all'arrivo di una muta di cani. È una reazione istintiva, di difesa, che scatta senza neppure volerlo. Ma la realtà resta all'agguato proprio come un cane che ha fiutato il selvatico.
Quando il cuore sente che è passato un tempo bastevole, si riapre e si scopre. E la realtà lo aggredisce e lo sbrana, mentre gli altri hanno già superato il cordoglio. Basta nulla, una parola, un ricordo... un distintivo... e quello che il cuore ha tentato di evitare arriva e fa strage.
La verità è che la morte di un vecchio lo libera dalla mortificazione di non avere più forze, e lo solleva da responsabilità che non ha più la lucidità per risolvere; ma quella morte priva chi gli sta intorno di un riferimento, di un'esperienza su cui si faceva affidamento, che confortava come una luce.
E soprattutto, conclude il tempo delle parole. E ciò che non si è detto o fatto, sembra di non potersi più dire. Per uno strano scherzo, tutti i ricordi di ciò che è stato finiscono nascosti dal pensiero di ciò che non si è fatto in tempo a fare, il pensiero delle ultimissime cose rimaste a mezzo, delle ultime parole che sono rimaste in gola.
È una trappola che va evitata, donna, e tu ci sei caduta in pieno, invece. C'è un motivo?", e Urveo la scrutò indagatore. Leona lo fissò incredula.
"Il re sapeva quanto gli fossi affezionata?", le chiese ancora più precisamente. Leona riebbe negli occhi la furia di Ergon, il giorno dell'incoronazione, la rabbia violenta con cui l'aveva insultata e colpita, le parole amare e lo sguardo rancoroso, la voglia di ucciderla che le aveva buttato contro. La vista le si velò di lacrime.
"Non lo sapeva", intese correttamente Urveo:"E d'altra parte è difficile credere che qualcuno nato così lontano possa amare la nostra terra così profondamente, la nostra gente con tanta disponibilità, e il nostro Re con tanta assoluta dedizione.
Tu sei un mistero, donna, che neppure Ergon poteva conoscere, benché si dicesse che fosse in grado di leggere l'animo di chiunque. E sono pronto a scommettere che ora quello che ti toglie il respiro è la pena di quello che non hai potuto dirgli, di quello che avresti voluto sapesse, e non saprà più".
Leona sentì la verità di quelle parole. Urveo stava leggendo dentro di lei come un libro aperto e Leona aveva un disperato bisogno, di qualcuno che le spiegasse cosa le accadeva.
"Allora cosa devo fare, ora?"
Perché, proprio, le sembrava che fosse tutto così privo di senso, il mondo, da avere voglia di scendere subito da quel carro infernale, che girava in tondo in una landa piatta, vuota all'infinito.
"Quello che non potevi dire prima, ora lo puoi, donna", le rispose:"Ergon ora non è più lontano e non ci sono più barriere tra voi. Ora puoi parlargli francamente, al contrario di quanto possa sembrare, senza timore di venir meno a qualche regola di rispetto o che non ti creda sincera.
Ergon non si è dissolto, non si è perso per sempre. Se lo chiami, ti sentirà. Se gli parli, ascolterà e quello che volevi sapesse forse lo ha già visto nel tuo cuore, perché gli spiriti sono potenti".
Leona chiuse gli occhi:"Gli spiriti... credi davvero che ci sia qualcosa, dopo la morte?", chiese a Urveo, perché tutto era buio e gelo, intorno, come se fosse già morta anche lei e quello era ciò che vedeva, cioè il nulla.
"Non hai mai avuto la sensazione, che ciò che pensavi non venisse dalla tua mente... come un suggerimento, come un'idea di qualcuno che parla vicino, anzi dentro di te?
Non ti è mai sembrato, che chiudendo gli occhi avresti potuto scambiare la voce di qualcuno che ti parlava con quella di qualcuno che non poteva parlare più?"
Come adesso, le sembrò di sentire dentro, come adesso, Leona, che non so più come raggiungerti e mi stai facendo dannare... Hai davvero chiuso il cuore e lo hai nascosto bene. Vuoi deciderti a venire fuori, coniglio?
Leona aprì gli occhi, incerta:"Non credi che sia un illusione, Urveo? Che quando siamo più infelici, ci aggrappiamo a tutto pur di non annegare, e crediamo alle favole?"
"Al contrario, donna", le rispose paziente:"Più siamo infelici, più lo sguardo si fa confuso, velato di lacrime e dolore, e più è difficile distinguere chi ci tende una mano.
Riflettici, e ricorda come proprio nelle prove peggiori ti sia sentita più sola. E come alla fine, comunque, un modo di raggiungerti l'abbia sempre trovato, chi ti sta vicino. Perché la mia sensazione è che l'abbiamo tutti, anche chi non lo sa affatto, qualcuno che ci parla dentro. E ascoltarlo è sempre una buona cosa, perché vede più lontano di noi e conosce bene il mare che attraversiamo e la rotta migliore".
Leona tacque a lungo, a tentare di riflettere. Se sei davvero tu, che parli attraverso lui, dimmi qualcosa che lui non può sapere. Provami che ci sei, gridò col pensiero intorno; aiutami, implorò.
"Non posso provarti che è vero", le disse Urveo concludendo il suo discorso:"Nessuno può, perché è un merito che deve potersi vantare davanti al dio dei venti, quello di aver saputo restare sulla giusta rotta senza smarrirsi nella nebbia. Ma prove o no, quello che devi fare è ascoltare e lasciarti curare.
Che importa di chi sia la voce che ti guida, purché sia dalla direzione giusta? Che sia una stella, in alto nel cielo, o un fuoco d'uomo, acceso nel faro, le navi che arrivano al porto hanno creduto in una luce. Che altro potevano fare?"
E tu, che altro puoi fare?, le chiese la voce di dentro; Leona passò la mano sul volto, asciugandolo e strappando via quel velo di morte che la stava soffocando.
"Succederà ancora, Urveo?", chiese umilmente; e intendeva quel cadere nel panico, quel sentirsi morire, quel non desiderare più nulla.
Il vecchio la rifletté assorto:"Forse. Ma ora sai quali trappole tende un lutto. Sai come puoi sentirti. Ricordare ti aiuterà, e ti aiuterà anche a confortare chi dovesse caderti vicino. Provare certe cose è l'unico modo per saperle riconoscere negli altri. Attraversare certi guadi, l'unico modo per conoscerli e tendere una mano a chi ci arriva impreparato.
È un'esperienza aspra ma può essere preziosa, donna. Tocca te decidere se seppellirla dove non possa più ricordarla, o usarla per confortare qualcuno che ti dovesse inciampare affianco senza fiato".
Leona annuì. Si, era un'esperienza aspra, ben più di quanto si aspettasse. Guardò il distintivo, e urlò nel buio: Non l'ho tradito, Ergon, non l'ho tradito... proteggevo il suo sangue... e il tuo. Perdonami ti supplico, perché lo amavo e ancora lo amo. Tu lo sai, che è vero. Un soffio di vento agitò le tende appese alla finestra della sala.
"Furius tornerà tra poco", commentò Urveo vedendo le ombre lunghissime e l'aria ormai scura. "Lavati la faccia e metti a posto quella medaglietta".
Leona sospirò piano:"Grazie di tutto, Urveo. Al tuo falò, io pregherò con tutta me stessa e le nostre voci, mia e di Furius e di Fidelio, impediranno al dio dei venti di dimenticarsi di te".
Il vecchio sorrise, alzandosi a fatica:"Ci conto, figlia mia. Sono troppo curioso di sapere com'è, leggere nelle menti e vedere il mondo dall'alto, senza più questa zavorra ingombrante", disse indicando le gambe un po' gonfie e le membra ossute. "Però con calma, non ho ancora fretta", scherzò, raddrizzandosi meglio che poteva, e Leona gli baciò la mano che ancora teneva nelle sue, perché l'aveva chiamata figlia.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro