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cap. 20 Scegliere un nome

È autunno, e un gruppo di piccoli entra in collegio per la prima volta. Sono bambinetti di tre, quattro anni e per lo più hanno gli occhi grandi, liquidi di paura. Uno,  più alto di molti, si guarda intorno tranquillo.

All'apertura del portone saluta l'uomo che lo accompagna con assoluta compostezza. "Ci vedremo al prossimo riposo... ", è lui che dice al vecchio:"Passeranno presto questi pochi giorni. Mia madre sarà triste, stalle vicino Urveo".

Quello annuisce e neppure si stupisce perché il bambino, da subito, è stato incredibilmente precoce. Parla già come se avesse molti anni di più e anche fisicamente sovrasta di gran lunga i coetanei.

Con gentilezza si accosta a un brunetto irrequieto che tenta di tornare alla carrozza che lo ha portato a Chiura da chissà dove. "Non si può", gli dice semplicemente, perché nessuno di loro, evidentemente, può tornare a casa. "Ma qui possiamo stare insieme, e credo non sarà male, avere molti compagni. Entriamo, qualcuno deve farsi vedere contento; gli altri, vedi?, sono un po' spaventati".

Il piccolo ritroso non è affatto in grado di capire quelle parole, che starebbero bene in bocca a un adulto. Ma capisce che un amichetto gli tende la mano, protettivo, con l'aria rassicurante, e in un guizzo d'orgoglio molla il manto del padre.

 Urveo accompagna il bambino con lo sguardo mentre entra. È cominciata presto, la strada di Fidelio. Già spontaneamente è alla guida di chi ha intorno, già istintivamente cerca di tranquillizzare chi è più fragile, già si dimostra generoso.



È fine estate e sono su in montagna. Fidelio è percorso da un brivido d'eccitazione perché ha trovato delle tracce, si è mosso accortamente, ha calcolato come non finire sotto vento, e ora la preda è lì, assolutamente sotto tiro. La leggera balestra che Urveo ha preparato per lui può fulminarla senza alcuno sforzo.

È già un tiratore eccellente, che con l'arco calcola istintivamente le parabole di tiro e che imbraccia la balestra come sia parte della sua spalla. Ma non scocca la freccia; trova gli occhi seri di suo padre e sorride, chiedendogli di ammirare la scena.

C'è un incanto nell'aria serotina, sotto le cupole quasi buie degli alberi, che il bambino non spezza. A che servirebbe? Hanno già la cena; non si frantuma la vita di un essere vivente per semplice piacere, neppure quella di un animale.

Furius vede che Fidelio ama il bosco e ne sente la vita pulsare e scorrere nelle vene. Una sensazione che ricorda bene; così simile a lui, quel figlio! Ma senza l'orrore che l'aveva oppresso da bambino: Fidelio è libero di essere ciò che sente.

E il bambino non ha dubbi, in ciò che vuole diventare. Furius sa di essere osservato senza un istante di tregua, vede riprodotto ogni suo comportamento, persino i suoi gesti, le sue espressioni. Ora che è un po' più grande, - ma Fidelio è nato grande!-, pensa Furius con sconcerto, lui cerca di fargli capire che suo padre è un uomo con molti difetti.

"Non prendermi troppo a esempio, Fidelio. Io ho sbagliato tanto spesso da non spiegarmi come alla fine abbia avuto tanta fortuna. Certo non per merito ho avuto tua madre, prima, e ora te. Ho molto da farmi perdonare, molto da recuperare.

Tu guarda piuttosto a tua madre. Lei, è la vera guerriera, quella che ha saputo scegliere da subito la sua strada e non se ne è allontanata mai, a nessun costo".

Ma quando parla con Leona, Fidelio ascolta con gioia mille storie di eroi  e il primo, e il più amato in quei racconti,  è suo padre.

"Tutti sbagliamo Fidelio, non fosse altro perché spesso una strada veramente giusta non c'è", gli dice quando Fidelio chiede perché Furius pensi di aver sbagliato molto.

"Si fa il meglio possibile, ma spesso quel meglio ferisce comunque qualcuno. Il cuore con cui si fanno le cose... è quello che conta più di tutto! Si perdona senza sforzo, se chi ti fa del male non lo sapeva, non lo voleva e tenta di porre riparo.

Si riprova senza scoraggiarsi, se un fallimento è frutto di un errore in buona fede; o anche se un impegno serio si è dimostrato comunque insufficiente. Con la coscienza tranquilla, si riparte sempre.

Quindi ricorda che è meglio non essere mai troppo severi, con gli altri, soprattutto se si capisce che la loro intenzione non era colpirti. E anche in quel caso, occorre chiedersi sempre cosa li abbia spinti; perché spesso sono paura e pregiudizi, che spaccano la gente; e possono superarsi con intelligenza, se si ingoia l'orgoglio e ci si sacrifica per primi.

L'orgoglio, Fidelio, è un'arma potente che può aiutarti a tirar fuori da te stesso forze sconosciute, ma che può anche ritorcertisi contro e impedirti piccoli, preziosi, indispensabili gesti. Devi imparare a usarlo, l'orgoglio, come un pugnale. Che occorre saper portare in un fodero  per non ferirsi".

Fidelio ascoltava molto sua madre. Sapeva bene che questo era in dono unico, a Inurasi. Aveva scoperto subito che la sua era una famiglia diversa e speciale. Aveva capito subito che anche il suo destino era unico e speciale. Come Leona aveva sempre saputo, anche Fidelio sentiva che aveva una strada; ma lo tenne per sè, per non spaventare quelle due creature che gli avevano dato la vita.

Pur essendo chiaro come il sole che era un bambino diverso, intelligente e sensibile e già da subito grande, il più di se stesso Fidelio lo tenne per sè.

Quando rientrarono dalla caccia il calore del rifugio li accolse come un abbraccio. In quota faceva comunque freddo al calare della notte e Leona aveva rinunciato ad accompagnarli perché al rientro trovassero il camino acceso, il rifugio caldo, il cibo cotto a puntino, la carne succulenta odorosa di brace.

I suoi uomini annusarono l'aria già dall'esterno e fecero l'ultimo tratto di salita in volata. Entrarono ridendo, affamati come gli orsi che erano, gonfi di soddisfazione per il ricco carniere, infreddoliti e felici per aver diviso quelle ore nel bosco.

Dopo cena crollarono appagati, il piccolo raggomitolato accanto al calore paterno e quello col braccio passato intorno al figlio, protettivo, col profilo disteso, innocente, identico a quello del bambino.

Leona restò sveglia a fissarli, combattendo il sonno che il calore e la serenità conciliavano. Non voglio dormire, confessò al padre, sfiorando istintivamente la base del collo in un gesto antico.

Ma il ciondolo ormai, riposava nascosto sul petto di Fidelio. Fidelio! Quanto le aveva attraversato l'anima come un fulmine, leggere quel nome sui documenti.

Per la legge, il nome del nuovo nato andava dichiarato entro due giorni dal parto. L'ufficiale del registro era venuto a casa e Furius aveva lasciato il suo capezzale per pochi istanti. Aveva deciso da solo mentre lei non era cosciente.

Non avevano mai parlato di come chiamare il figlio che sarebbe arrivato. Con una sorta di ritrosia, quasi che non importasse affatto, perché la sola cosa era che nascesse sano. O sana.

Così, Furius aveva dovuto scegliere senza di lei. Anni, secoli, una vita prima, ancora ad Adamanta, Furius si era stupito che Leona portasse un nome che in lingua Inuri aveva un significato, anzi, lo stesso significato che presso i federali.

Leona, esasperata, gli aveva ribattuto che c'era un tempo in cui il popolo d'Inurasi non era ancora sprofondato nel totale isolamento che loro consideravano naturale. Un tempo in cui contatti portavano merci, uomini e lingue a mescolarsi.

"Anche mio padre aveva un nome che potresti considerare Inuri, con un significato chiaro nella tua lingua, che è identico nella mia". Fidelio.

Fedele. Colui che nella sua fede resiste, senza mai tradire. 

Un discorso tra loro così lontano nel tempo da essere sepolto molto in profondità nella memoria, per Leona.

Ma Furius aveva ricordato. Leona comprese che scegliendo quel nome Furius aveva imposto al bambino quasi un sigillo segreto, nascosto a chiunque altro, ma che voleva essere un ricordo indelebile, un legame col sangue materno tanto più prezioso, quanto più fragile in quel momento sembrava la speranza che lei potesse restargli accanto.

Un desiderio, quello di Furius, difficile da spiegare apertamente. Così con una sorta di pudore, quando tornata lucida Leona aveva chiesto come aveva chiamato il figlio, Furius le aveva porto i documenti senza parlare.

E nessuno seppe, neppure Ilruik e Diaspra, che vero gesto avesse fatto Furius.

Era convinzione comune, a Glittica, che imporre un nome comunicasse una qualche qualità, un qualche dono, al bambino che lo riceveva. Si attingeva spesso al mondo naturale, al regno minerale o animale, o a quello degli eventi e dei sentimenti.

Erano spesso nomi evocativi, quelli Inuri, fantasiosi, descrittivi. A tutti parve che Fidelio fosse un nome adatto al rampollo di un'antica casata nobiliare. Fedele alla tradizione, all'onore dei Chiura, alla casa reale.

E nessuno poteva immaginare che Furius affidasse suo figlio al ricordo di uno straniero, un uomo che combatteva senza armi e aveva gli ideali della Federazione marchiati a fuoco sul cuore e dentro, il cuore.

Ma Leona capì. E tenacemente, lottò per tornare alla vita. Per essere di nuovo la donna di quell'uomo incredibile che era Furius. Per essere madre del suo bambino.

E ora, di notte, al rifugio, non voleva dormire. Devo fissare nella  memoria ogni istante di questa notte, pensava. Non devo dimenticare nulla, di questa scena. Lo voglio custodire per sempre, questo istante perfetto, contro ogni insulto del futuro.

E carezzava con gli occhi i suoi orsi bruni addormentati. Presto Fidelio sarebbe partito per il collegio dei più grandi, vicino Glittica. Avrebbe smesso di averlo vicino così spesso, come aveva potuto finché lui aveva ricevuto istruzione a Chiura.

Un miracolo, quello che le aveva ottenuto Furius, di crescere suo figlio nonostante gli usi Inuri. Un altro miracolo, dopo quello di averla apprezzata come donna, dopo quello di averla protetta, dopo quello di averla resa madre.


Fidelio si mosse nel sonno scoprendosi. Leona prese delicatamente il lembo della coperta e la tirò piano per rimettergliela sulle spalle. Furius sorrise sbirciando tra le ciglia folte, tenendo gli occhi socchiusi. "Dormi, donna", le sussurrò, e Leona si mise giù felice.

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