𝘀𝗶𝗮𝗺𝗼 𝗻𝘂𝗼𝘃𝗲 𝗼𝗿𝗶𝗴𝗶𝗻𝗶
!!! questo è il capitolo più forte di questa storia. ci sono tematiche di violenza fisica e sessuale, il capitolo è abbastanza pesante e ho mezzo pianto mentre lo scrivevo quindi STATE ATTENTX PER FAVORE !!!
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– Oggi sembri di buon'umore, Suga. –
Affondo il filtro di carta nell'acqua bollente della tazza che ho di fronte.
– Lo sono. –
– Come mai lo sei? –
– Giornata buona a lavoro. –
Appoggio i polpastrelli sulla ceramica bollente, non tanto da bruciarmi, solo da sentirne il calore addosso, il vapore mi lambisce il volto, l'odore inizia a farsi più fruttato.
– È successo qualcosa di particolare? –
– No, è solo stata una giornata buona. Di quelle dove nulla va storto. Sai com'è. –
– Ho capito. –
Incastro i talloni contro la sedia, porto le ginocchia al petto, affondo il mento nello spazio che creano. Non inizio una conversazione, reggo soltanto le sue parole sul bordo delle mie, completo gli spazi, non scrivo una frase da me.
Non ho voglia di parlare.
È stata una giornata buona.
Ho la sensazione che se ti permettessi di toccarla troppo, non sarebbe più così.
Piego il volto di lato, tempia sulla superficie spigolosa della rotula, socchiudo gli occhi, aspetto pazientemente il timer da cucina per togliere la bustina e bermi la mia tisana.
No, non è successo niente di particolare.
È successo qualcosa di familiare.
Il fatto stesso che fosse familiare, è stato in sé particolare, se proprio vogliamo metterci a sezionare e stirare le parole per trovare loro un senso specifico.
Lui era lì come tutte le mattine, mi ha chiesto il caffè come tutte le mattine, ha guardato i miei occhi come tutte le mattine, mi ha preso le mani fra le sue come tutte le mattine. Noya ha discusso coi clienti come tutti i pomeriggi, mi ha chiesto di aggiornarlo sulla situazione come tutti i pomeriggi, ha riso e scherzato come tutti i pomeriggi, mi ha guardato come si guarda un amico come tutti i pomeriggi.
Mi ha messo di buon'umore quel "come tutte le mattine" e quel "come tutti i pomeriggi".
Mi ha messo di buon'umore l'idea che stamattina sono uscito di casa giusto un filino impaziente di vivere, mi ha messo di buon'umore il fatto che per qualche istante ho trovato conforto nel mio corpo, mi ha messo di buon'umore il pensiero che se io non fossi stato io non avrei provato quelle cose, e mi sarebbe spiaciuto, e forse c'è anche qualche piccolo lato positivo nell'essere chi sono.
È durato poco.
Tutto dura poco.
Però c'è stato.
Ed è meglio di niente.
Osservo le goccioline formarsi sul bordo della tazza, piccole lacrime di condensa che tingono la ceramica sbeccata, passo piano le dita sulla loro forma irregolare, respiro l'aria che sa sempre più di erbe e di frutta.
L'altro ieri, è successo qualcosa di particolare, ma l'altro ieri non c'eri, e quando sono tornato a casa, non ero affatto di buon umore. Un po' come indossare gli occhiali, è stato, vedi meglio con quelli addosso, ti ci abitui, ma poi li rimetti nella custodia, li lasci dov'erano, e ti rendi conto che senza tutto il resto ti pare più confuso.
Là sul suo divano c'era crema anestetica sulla pelle gonfia di lividi.
Tornato a casa il mio dolore è tornato, trascinandosi dietro la mareggiata di quello che ero riuscito ad ignorare.
Però lo rifarei.
È stato divertente.
È stato romantico.
Mi sono sentito così normale.
Lui capisce qualcosa di me che forse non sono mai riuscito a capire nemmeno io.
Sposto il cartoncino attaccato al filo da una parte all'altra della tazza, osservo il filtro che galleggia, piccole venature di liquido scuro che s'immergono nell'acqua bollente.
Non scapperò di qui.
Riesco a pensare di poterlo fare solo quando mi dimentico di quello che sono, solo quando Daichi mi guarda e m'illudo di essere quel che dice lui.
Poi però torno a casa.
Torno alle cose solite.
Non scapperò di qui.
Se mi va bene, vivrò soltanto qualche altra blanda ripetizione di queste "buone giornate".
Il timer suona, sciolgo le gambe e le rimetto a posto, pesco fuori il filtro della tisana, lo metto sul piattino che avevo già preparato, tuffo mezzo cucchiaino di miele nell'acqua scura, aspetto che si sciolga, lascio che si raffreddi.
– Ultimamente mi sembri un po' diverso. –
– Diverso in che senso? – rispondo, la voce piatta, monotona, perfettamente controllata per non dire nulla mai, in nessuna occasione.
– Più distante. –
– Cosa te lo fa pensare? –
– Passi tutto il tempo a fissare il vuoto come se stessi pensando a chissà che cosa. –
Inspiro il vapore bollente, lo lascio sedimentarsi nei miei polmoni, scaldarmi dall'interno.
– Dev'essere il caldo. Sai che mi fa sempre comportare in modo strano. –
– Già, il caldo. –
Prendo il manico della tisana fra le dita.
La tiro su.
Mi afferra il polso libero attraverso il tavolo, artigli su pelle chiara, è tanto brusco che mi si rovescia un po' d'acqua bollente sulle dita, brucia, brucia come il fuoco, ingoio il dolore, ho solo gli occhi lucidi quando gli rivolgo il mio sguardo.
– Cos'è che ti ripeto sempre, Suga? –
– Che non devo nasconderti niente. –
– E perché te lo ripeto? –
– Perché mi devo ricordare che tu mi ami per come sono. –
Stringe lo sguardo sul mio.
Il dolore è tanto lancinante sulla mano che mi sembra di sentire strati di pelle sciogliersi su loro stessi.
– Dopo tutto quello che faccio per te mi aspetto di ricevere indietro almeno un po' di onestà, Suga. –
– Sono onesto. Non è successo nulla. Non c'è nulla di diverso. –
– Sei sicuro? –
Occhi negli occhi, morti i miei, affamati i suoi, per lui sono una stella marina con cui giocare sott'acqua, mi taglia le braccia, le divora, aspetta che m'impegni per farmele ricrescere, le taglia esattamente nello stesso punto la volta dopo.
– Sicuro. –
Mi lascia andare.
Chino lo sguardo.
Quando indietreggia sullo schienale della sedia capisco di avere il permesso di alzarmi, quindi lo faccio, svuoto la tisana nel lavandino ed esco dalla cucina.
Imbuco il corridoio e arrivo al bagno.
Apro l'acqua gelida.
Immergo le dita sotto al getto.
Mi guardo allo specchio.
No, non me ne andrò mai di qui.
Sognare stretto a te sul divano è una cosa, andarmene, tutt'altra. Sperare mi viene bene solo quando siamo assieme, solo quando guardo la situazione sotto la luce che le metti addosso tu, da solo, non sono mai stato capace di fare nulla.
Prima o poi te la spiegherò, questa cosa.
Ho la sensazione di non avertela mai detta perché non voglio che tu te ne vada.
Io non ci spero, Daichi, tu continua a sperarci per me.
Dieci minuti al giorno mi fai sentire come se fossi vivo davvero.
Chiudo il rubinetto, mi asciugo delicatamente con un fazzoletto, apro il mobiletto sopra il lavabo, tiro fuori i cerotti per le ustioni. Ne piazzo un paio sui punti più scuri, forse verrà la crosta, mi dovrò mettere i guanti a lavoro per non impressionare i clienti.
Quando mi chiederai cosa mi sono fatto, cosa risponderò?
Forse una bugia.
Forse la verità.
Vederti arrabbiato forse farebbe arrabbiare anche me di riflesso, forse sarei normale per un pochino, forse ne soffrirei.
Vedremo domani.
Sicuramente non ora.
Butto le cartacce dei cerotti e mi guardo allo specchio, mi osservo il collo, le spalle, i vestiti informi contro la silhouette del corpo, ho un paio di pantaloni corti sopra il ginocchio che potrei mettere domani con la scusa del caldo, questa carne che mi stritola le ossa la odio, ma quando la guardi tu, me ne vanto come se non fosse così.
L'altra vita è vera quando sono con te.
Ma quando non ci sei, io non ho la forza di crederla tale.
Se lo fosse la farei a pezzi come ho fatto con questa.
Tu stai di là, Daichi, là sei al sicuro da questo e sei al sicuro da me.
Ad un certo punto ti dirò la verità.
Smetterò di essere egoista di volerti tenere tutto per me.
Concedimi solo un altro po' di crudeltà.
Poi ci diremo quel che dobbiamo dirci.
Io rimarrò qui.
Tu andrai avanti.
Spengo la luce del bagno, esco, rimango in piedi nel corridoio buio.
Vorrei essere come dici tu.
Non lo sono.
La parte di me che tu fai reagire si secca e si sgretola, qui dentro.
Non è forte a sufficienza nemmeno per mormorare, sappiamo entrambi che per chiudere con tutto questo mi servirebbe sentirla urlare.
Mi dispiace.
Mi dispiace, ma...
La luce del corridoio si accende.
Lui esce dalla cucina.
I suoi occhi e i miei s'intersecano, schianto il mio sguardo in basso sulle piastrelle, m'immobilizzo, lo sento camminare. Le piante dei piedi sul pavimento, un passo alla volta, non lo vedo, ma lo sento prendermi la mano ferita fra le sue.
Accarezza il palmo, le nocche, le falangi, accarezza i bordi dei cerotti, le punte delle dita, la pelle sottile dei polsi, quella tesa sopra le ossa, il dorso, le unghie, le vene bluastre in rilievo.
– Te lo ricordi cos'è successo sette anni fa, Suga? –
Deglutisco la saliva.
– Mi sono infortunato, sette anni fa. –
– E cos'è successo, dopo che ti sei infortunato? –
– La mia vita è finita. –
Risale su come una serpe, zampe d'insetti nei pori, sfiora l'interno del gomito.
– Cos'è successo quando la tua vita è finita? –
– Tu mi aiutato. –
– Chi? –
– Tu. –
Prende fiato con calma, c'è qualcosa in lui che trema, non saprei dire cosa.
– È stata la tua famiglia ad aiutarti? Quella che ti ha cacciato di casa perché ha scoperto che ti piacevano i maschi? –
– No, sei stato tu. –
– Il tuo amico, quel bastardo che ha preso il tuo posto senza pensarci due volte e ha smesso di parlarti? –
– No, tu. –
Mi mordo la lingua.
Mamma e papà sono stati degli stronzi.
Ma su Tooru non mi convincerà mai.
Fingo sul tema.
Fingo per sopravvivere.
Fingo.
– Chi ti ha messo un tetto sopra la testa? –
– Tu. –
– Chi ti ha comprato da mangiare? –
– Tu. –
– Chi cazzo è il motivo per cui tu stai respirando e non ti sei ammazzato là in quella stanza d'ospedale sette anni fa? –
– Sei tu. Sei... sei tu. –
Mi afferra il bicipite con forza, continuo a tenere lo sguardo chino, mi sposta nell'aria agitandomi avanti e indietro, pietrificato, paralizzato come sempre, cerco di ritirarmi come una chiocciola nel guscio, di regredire ad uno stato dove il mio corpo sarà problema del mio corpo, e la mia mente non sarà nemmeno più lì.
Lui parla, però.
Perché mi vuole presente, mi vuole reattivo.
Per scoparmi là non devo esserci, ma per mettermi le mani addosso, vivo, vegeto e vigile.
– L'ho fatto per amore, Suga. Io faccio tutto questo per amore. Perché ti amo. Tu sei quello che sei e io ti amo lo stesso. Tu invecchi e smetti di essere bello e io ti amo lo stesso. Tu smetti di soddisfarmi e io ti amo lo stesso. –
Trattengo il respiro.
– Non ti ho chiesto molto in cambio, non ti pare? Ti ho letteralmente salvato la vita, ti amo ogni giorno da anni, non credevo di chiederti indietro un prezzo troppo alto, no? –
Arriva alla spalla.
– Voglio che tu sia onesto. Che tu sia grato. E che tu sia... –
Mi sfiora una guancia.
Lo schiaffo arriva quasi senza che me ne accorga.
Lascio il collo morbido, il mio capo segue il suo movimento, indietreggio di mezzo passo.
– Fedele, Suga. Io voglio che tu sia fedele. –
Mi afferra per il mento.
Mi rimette la testa in linea retta.
Mi costringe a guardarlo.
Ha il mio telefono in mano.
Quello del locale.
C'è la foto di Daichi.
Per la prima volta da anni, lui mi mette le mani addosso e io provo qualcosa.
Quel qualcosa è paura.
I suoi occhi sono nei miei.
– L'ho trovato nella tasca del grembiule che metti per andare a lavoro. Ti ho dato un'occasione di parlare mentre eravamo in cucina, prima. Tu hai continuato a mentire. Allora ho dovuto guardare per forza. –
Stringe le dita sul colletto della mia maglietta.
– Apro e cosa vedo? Messaggi con quel coglione con cui lavori. Questa foto. Lui scrive "alla fine siete riusciti a concludere" e tu rispondi "no lui non vuole perché dice che devo esserne sicuro prima". –
Mi tira verso di sé.
– Questo è il poliziotto che è venuto a casa nostra il mese scorso. L'ho riconosciuto. Viene la Polizia a casa nostra perché tu non sai chiudere quella cazzo di bocca dopo avermi fatto incazzare e invece di chiedere scusa pensi di andarti a scopare il poliziotto. –
Stringe le dita attorno al mio collo.
– Cos'è che ti ha detto, eh? Che ti avrebbe salvato? Che ti avrebbe aiutato ad uscirne? –
La presa è salda, il mio corpo è liquefatto dal terrore, molle, morbido e lasso, mi sposta come se fossi intessuto d'aria.
– Mentiva. –
La luce elettrica mi brucia gli occhi.
– Nessuno farebbe niente del genere per qualcuno come te. Tu fai schifo. Tu non vali nulla. Non sei nessuno per i tuoi amici, non sei nessuno per la tua famiglia, non hai studiato e non sai fare niente. L'unico che ti ha sempre aiutato, qui, sono io. –
Mi porta in avanti.
– E tu mi hai tradito. –
Sbatte violentemente la mia testa contro il muro.
Sbatte una, due volte, il dolore è una fitta che trancia la nuca, il cervello si riempie d'ovatta, le orecchie fischiano, stringo i denti.
– Io ti ho raccolto quando non ti voleva nessuno. –
Mi tiene dal mento, schianta la mia testa indietro sulla parete con più violenza, mi cola qualcosa sul viso, è sangue che sgorga dal naso.
– Non puoi tradirmi. Appartieni a me. –
Mi spinge di lato, le mie ginocchia cedono, cado seduto per terra, mi tremano le ginocchia, le mani, il cuore mi batte forte nel petto, gocce scarlatte tingono il tessuto dei miei pantaloni.
Si china in ginocchio di fronte a me.
Mette le mani sul mio collo.
Non riesco a guardarlo.
Quando stringe, so già che sono morto.
Io sono morto.
Oggi, io sono morto.
Mi affondo le unghie nella carne delle cosce.
Chiudo gli occhi.
Con gli ultimi respiri che riesco ad annaspare scendo giù dentro alla mia mente, ogni scalino, ogni ansa e svolta del labirinto, arrivo al centro, osservo la porta dietro cui mi rifugio, penso di aprirla, cambio idea.
Sono morto.
Tanto vale.
Smantello l'edificio.
Distruggo i muri.
Apro tutto.
Separo le ciglia.
Lo guardo negli occhi.
Io sono morto.
Però ti odio.
Ringraziarti? Io, a te? Ringraziarti per avermi salvato la vita? Essere onesto con te? Fedele? Doverti qualcosa? Doverti me stesso? Soddisfarti?
Io avevo quattordici anni.
Ho scritto in un bigliettino che ho messo nell'armadietto di Tooru mentre eravamo ad allenamento che pensavo che tu fossi l'uomo più bello del mondo.
Questo è tutto quello che ho fatto.
Il resto l'hai fatto tu.
Mi hai ucciso tu.
Mi hai distrutto tu.
Tu hai letto quel pezzo di carta perché eri curioso di cosa stessimo parlando e tu hai iniziato a tenermi di più per allenarmi, tu hai messo le mani sulla mia schiena prima, sulle braccia poi, dentro ai vestiti alla fine, tu mi hai portato nell'ufficio, tu mi hai spogliato, tu mi hai detto che potevamo amarci anche se io avevo quattordici anni ed ero un ragazzino.
Io cosa potevo fare?
Io cosa dovevo fare?
Mi hai convinto che ero fortunato.
A quattordici anni con un trentenne che m'infilava le mani nelle mutande.
Tu mi hai convinto che lo volevo.
Tu mi hai detto che se ti avessi amato avrei dovuto fare sesso con te.
Tu mi hai insegnato che quando stai con qualcuno devi fare tutto quello che ti dice per compiacerlo.
Tu mi hai spiegato come ci si piega, come ci si spoglia, cosa si dice, cosa si fa quando si fa sesso, tu mi hai istruito su cosa fosse, l'hai fatto con me, io avevo quattordici anni.
Lo so che hai riso quando mi sono fatto male.
Te l'ho letto negli occhi.
Io atterro male.
La mia gamba si piega.
Il legamento si lacera.
La mia vita era finita.
Ora sarei potuto diventare un oggetto nella tua.
Tu hai detto alla mamma che mi piacevano i maschi. Lo so che sei stato tu. Lo so, lo so anche se non me l'ha mai detto nessuno, io lo so e basta.
Tu hai detto a Tooru che non volevo vederlo mentre ero all'ospedale, tu hai detto a Tooru che avrebbe dovuto lasciarmi andare perché vederlo gareggiare mi avrebbe fatto troppo male, tu gli hai procurato il posto al campo di allenamento in Russia, tu l'hai mandato via quando avevo bisogno che ci fosse.
Tu hai deciso di prendermi a vivere con te.
Tu mi hai portato qui.
Tu mi hai detto che non era importante finire il liceo mentre stavo male e che l'avrei finito dopo, tu quel "dopo" l'hai sempre lasciato perdere, poi, l'hai sempre allontanato.
Tu mi hai fatto a pezzi.
Tu hai distrutto ogni angolo di me.
Tu mi hai reso questa cosa grigia e informe che non sa pensare e non sa reagire e che si trova di fronte la vita e che comunque torna pacificamente in gabbia a capo chino, tu mi hai fatto così, tu mi hai creato, tu come Dio, a impastare con la creta creature a sua immagine e somiglianza, creature che ha amato un quarto d'ora, prima di condannare a lottare per non crepare di fame.
Io avevo quattordici anni.
Io ho scritto una stronzata al mio migliore amico perché avevo quattordici anni.
Tu hai fatto di me quello che sono.
Tu mi dai la colpa.
Tu mi chiedi di dirti "grazie".
Per questa vita.
Mi stringi le mani al collo per tagliarmi via l'aria dai polmoni e lo fai perché non ti ho detto "grazie" per questa vita.
Mi ammazzi perché non ti sono grato.
Perché fosse per te dovrei dirtelo anche adesso.
Dovrei aprire gli occhi, guardarti, e ripetertelo fino a farti sazio.
Strozzami, ammazzami, uccidimi qui sul pavimento di una casa in cui non sono mai stato felice, ti ringrazio di questo. Prendimi, fammi a pezzi, strappami i vestiti di dosso, te ne sono grato, girami di spalle, schiacciami la faccia sul materasso, immaginami un ragazzino, grazie di farlo per me, mettimi le mani addosso, artiglia ogni centimetro della mia vita per portarmelo via, fammi sentire come se non valessi nulla, non posso far altro che dirti grazie. Grazie, per l'amico che mi hai tolto, grazie, per la famiglia che hai fatto crollare, grazie per avermi stuprato nell'ufficio in cui ero venuto per chiederti come fossi andato all'allenamento e non per slacciarti la cintura in ginocchio, grazie per avermi fatto lasciare la scuola quando ero piccolo e troppo confuso per affrontare la grandezza di quel che mi stava accadendo, grazie, ammazzami, grazie, uccidimi, grazie, sono già morto, è questo che vuoi sentire?
Chissà se sei mai stato felice, vestito del mio cadavere.
Chissà se farmi questo ti è servito.
Spero di no.
Spero che per quanto tu abbia cercato di ricevere amore da quel bel pesce nell'acquario tu non ti sia sentito amato da lui nemmeno un secondo della tua vita.
Io avevo quattordici anni.
Da me non hai mai ricevuto niente che fosse genuino.
Perché l'amore per te che ho provato, tu te lo sei costruito da solo. Tu me l'hai infilato in corpo a forza. Tu me l'hai insegnato bacchettandomi per gli sbagli, indottrinandomi nella tua idea, pregandomi di volerti.
Lo sai meglio di me, che se non avessi fatto questo, non ci sarebbe stato.
Ti sei creato un amante di plastica.
Ora lo ammazzi perché è di plastica.
Non ti pare di aver già fatto abbastanza?
Io avevo quattordici anni.
Ora sono morto.
Però ti odio.
È l'unica cosa che concedo a me stesso.
L'unica.
Non ho nient'altro.
Spero che Noya vinca una borsa di studio e vada all'Università come sogna, che si sposi con Asahi in un bel posto pieno di fiori e che non impari mai a dire le cose una per volta, ho sempre trovato adorabile quel suo modo di appiccicare le parole.
Spero che Tooru vinca tutte le Olimpiadi che può, spero che gli facciano sempre delle divise bellissime, spero che sorrida senza pensare a me nemmeno una volta, spero che continui a brillare, spero che mi dimentichi, spero che sappia prima di farlo che non l'ho mai odiato nemmeno una volta.
Spero che Daichi diventi Capo della Polizia. Spero che sua madre un giorno gli dica che amava lui più di suo padre. Spero che riesca a salvare qualcuno. Spero che abbia dei figli. Spero che non smetta mai di sorridere in quel modo. Spero che un giorno faccia davvero un poster sexy della Polizia. Spero che non dubiti mai di se stesso. Spero che sappia che la vita finta che mi ha dato è stata la cosa più simile alla felicità io abbia mai provato nella vita.
Apro gli occhi.
Di te non spero niente.
Cosa dovrei sperare?
Anche tu mi odi.
Mi hai sempre odiato.
Non fai questo a qualcuno a cui vuoi bene.
Tu mi detesti perché esisto.
Perché esistere è un peccato che non mi hai mai perdonato.
Mi hai fatto tu.
Mi odi per come mi hai fatto.
Per te non spero niente.
Fai quel che ti pare.
Io avevo quattordici anni.
Sono morto.
Io sono morto.
Io sono morto.
Sono morto.
Morto.
Basta.
Sono morto.
È finita.
Non ne potevo più.
Sono morto.
Avevo quattordici anni.
Sono morto.
La prima volta che mi hai tirato uno schiaffo ne avevo quindici.
Mi avevi toccato attraverso i vestiti.
Qualcosa dentro di me mi aveva costretto a gridarti di non toccarmi.
Sono morto.
Avevo quattordici anni.
Non mi toccare.
Sono morto.
Non mi toccare.
Quattordici anni.
Non mi toccare.
Morto.
Quattordici.
Tu non...
Non...
Non mi...
Tiro su un ginocchio.
Non se l'aspetta.
Se lo ritrova sul petto.
È confuso.
Non sa nemmeno lui quel che sta facendo.
Lo spingo via.
Lui lascia andare.
Ha gli occhi vitrei.
Io annaspo per cercare l'aria.
Lui si guarda le mani.
Vorrebbe dire qualcosa.
Indietreggia.
Si rende conto di cosa sta succedendo.
Ha paura di se stesso.
Ha paura di quello che voleva fare.
Smetterà di avere paura.
Ricomincerà.
Non fallirà.
Affanno più aria, fino ad annegarci dentro.
Lui mi guarda.
Io lo guardo.
Mi alzo sulle gambe che tremano.
Apro la porta di casa.
Esco.
Inizio a correre.
Non smetto.
Sono morto.
Avevo quattordici anni.
Non mi toccare.
Per le scale quasi scivolo, mi reggo al corrimano.
Quattordici.
Non mi toccare.
È finita, sono morto.
La porta è aperta, il portinaio non mi guarda nemmeno, esco in strada correndo, non smetto di correre.
Mi hai ammazzato.
Ti odio.
Mi hai dovuto toccare per forza.
Io ti stavo implorando.
Non mi toccare.
La strada è quasi deserta, le poche persone che ci sono si girano quando gli passo a fianco, ma per loro sono una folata di vento, non mi prestano attenzione.
La mia testa non sa dove sto andando ma lo sa il mio corpo, lo sa la mia memoria, c'era un numero sul cartoncino, sotto al nome, e sotto al numero c'era scritta una strada, e quel cartoncino è fosforescente a confronto di dieci anni rinchiusi nel pallido filtro color seppia di un vecchio computer.
Ero un adolescente da un anno.
Non avevo nemmeno finito di cambiare la voce.
La mia pelle era morbida come quella di un bambino, il viso rotondo di chi ancora deve affrontare la pubertà, passavo il mio tempo a scrivere sul diario i testi delle canzoni, parlavo d'amore sotto alle coperte col mio migliore amico convinto che fosse l'obiettivo di vita di ogni persona.
Il sangue mi gocciola sulla maglietta.
Mi pulsa la pelle del collo.
Il dolore alla testa trafigge le tempie come uno spillo.
Qualcuno si gira a fissarmi, con la coda dell'occhio vedo i suoi occhi seguirmi, ma io continuo a correre, e non posso sapere cosa pensi di me.
L'aria è afosa.
Umida e fredda come melassa, mi si appiccica alla pelle.
Mi bruciano gli occhi.
Mi gira la testa.
Mi formicolano le punte delle dita.
Avevo quattordici anni.
Sono morto.
Non mi devi toccare.
Tu non mi devi toccare.
Non ti devi permettere di toccarmi.
Non mi toccare.
Non mi puoi toccare.
Non ti azzardare a toccarmi.
Apro la porta della Centrale di Polizia con le gambe di gomma.
Non ho smesso di correre.
Quanto ho corso?
Un minuto?
Quaranta?
Lui vive lontano, ci vuole la metro.
Ma qua non è che ci vive, ci lavora.
Dov'è che lavora?
È vicino a casa mia?
Perché sono qui?
Cosa sto facendo?
Arranco qualche passo in avanti, sento voci attorno a me, percepisco gli sguardi, goccia di sangue sulla neve, sono immobili, stanno per reagire, si avvicineranno, mi vorranno aiutare, io cerco di andare avanti, io stiro il collo, muovo gli occhi in fiamme, cerco fra le facce.
Stasera sarebbe rimasto alla Centrale per interrogare un sospettato.
Me l'ha detto stamattina.
È qui.
Dove?
Cos'è questo posto?
Chi sto cercando?
Cosa succede?
Apro la bocca.
Non ne esce niente.
Mi fa male tutto.
Sono morto.
Morire fa davvero così male?
Le voci si dipanano, non le ascolto.
Arriveranno.
Mi chiederanno come sto.
Mi metteranno le mani addosso.
Dove sei?
Cosa ci faccio qui?
Chi è questa gente?
Spalanca la porta di vetro fra l'ingresso e le scrivanie.
È in divisa.
Ha le lacrime agli occhi.
Ha tanta paura.
Mi si piazza davanti.
Non riesce a dire nulla.
Stringo le mani su di lui.
Mi lascio cadere sul suo petto.
Lo stringo forte da volerlo far diventare una parte di me.
Singhiozzo nella sua spalla.
– Non mi toccare. –
Cerca di separarsi da me, glielo impedisco, continuo a tenerlo saldamente fra le mie braccia.
– Non mi toccare. –
Rimane immobile.
– Non mi toccare. –
Mi avvolge contro di sé.
– Non mi toccare. –
Fa male.
– Non mi toccare. –
Mi nascondo contro di lui.
Affonda il viso fra i miei capelli.
– Avevo quattordici anni. –
– Lo so, Kōshi. –
– Ora sono morto. –
Piange per me nel bel mezzo della Centrale di Polizia.
Mi sanguina il naso.
Ho la sensazione che ci siano segni di mani violacei sul mio collo.
Una delle mie guance è gonfia.
Sono sudato.
Sono vestito com'ero vestito a casa, non ho nemmeno le scarpe, sono sceso per strada coi calzini spaiati.
Piange per me.
– Ora sono morto. –
Mi accascio fra le sue braccia.
Perdonami per questo atto così egoista, Daichi.
Ma lui lo odio.
Permettimi soltanto di scegliermi la tomba.
Voglio che la mia, sia tu.
Quando mi sveglio, per qualche istante non mi ricordo nulla. Sbatto le palpebre contro una fonte di luce sconosciuta, mi guardo attorno confuso, ci sono pareti bianche che non ho mai visto, l'odore è asettico e pungente, il letto non è il mio, nemmeno i vestiti, sento il rumore intermittente e acuto di un qualche macchinario, ho i muscoli indolenziti.
Faccio leva sui gomiti per cercare di tirarmi su almeno un po', apro gli occhi che bruciano, quando inspiro dalle labbra aperte, mi brucia la gola.
Cerco di capire dove sono.
La realtà mi affonda nella mente come una ghigliottina, quando vedo Daichi ancora in divisa, la fronte poggiata sul bordo del mio lettino d'ospedale, dorme sonni che sicuramente non definirei tranquilli.
Gli eventi si riposizionano come organi a formare una sola creatura, arterie e vene collegano apparati diversi, la vita si risveglia scandita dal battito del cuore, circola ossigeno, con esso la mia memoria contestualizza il presente.
Sono morto.
Io sono morto.
E allora che cosa... cosa ci faccio qui?
Mi sposto per cercare di sentire di nuovo le gambe, il lenzuolo si arruffa. Il corpo di Daichi si contrae al minimo manifestarsi di un segno da parte mia, vedo le sue spalle irrigidirsi, le braccia riprendere vita, si solleva in un secondo, mi rivolge occhi sconvolti, gonfi, che hanno pianto per ore.
– Kōshi. – dice, e basta, perché non sa cosa dire, me ne rendo conto persino io, ma voleva comunque poter pronunciare qualcosa.
Prendo aria nei polmoni.
– Daichi. – rispondo.
Cerca con lo sguardo le mie mani ancora aggrappate al lenzuolo.
Non sembra volermi imporre il contatto, ma lo ricerco anch'io, allungo il braccio dalla sua parte, mi sento ancorato meglio al suolo quando allaccia le dita fra le mie.
– Kōshi, tu... –
Parole di vetro che tintinnano, le sue, come fatte vibrare da un suono acuto. Vacillano, tremano, qualcuna cade a pezzi.
– Tu come... –
Occhi castani, scuri, sempre risoluti e diretti verso di me, ora paiono navigare in un mare di lacrime.
– Come ti senti, Kōshi? –
Mando giù nella bocca arida.
– Uno schifo. Come se fossi morto e qualcuno mi avesse riportato indietro. –
– Vuoi che chieda all'infermiera altro antidolorifico? –
– Sì, ma non ora. Ora stai qui un attimo. Sto ancora... cercando di capire. –
Annuisce, porta anche l'altra mano sulla mia, mi bacia le nocche una, due volte, preme le mie dita contro il suo viso come se volesse sentirmi reale sulla sua pelle.
– Ha trovato una foto. – dico poi.
Mi lancia uno sguardo inizialmente confuso.
Poi comprende.
Prende fiato per parlare.
Lo precedo.
– Ho dimenticato il telefono del locale nel grembiule, dev'essermi arrivato un messaggio, o magari l'ha preso per spostarlo, non lo so, ma l'ha trovato. Ha aperto la chat con Noya. C'era la tua foto ai mondiali, quella che ti ho chiesto di mandarmi l'altro giorno. –
Espira l'aria che aveva trattenuto nel petto.
Se prima sembrava voler dire qualcosa ora rimane solo zitto.
– Ci credi che due minuti prima che mi mettesse le mani al collo stavo pensando a come dirti che non l'avrei mai lasciato? Mi guardavo allo specchio e pensavo che prima o poi sarei dovuto essere onesto con te su questa cosa. Che avrei dovuto avvertirti che qualunque cosa fosse successa tanto alla fine sarei rimasto con lui. –
Qualcosa di umido si fa strada dentro di me, qualcosa di umido, marcio e appiccicoso, salamandre, lucertole con la pelle lucida e scura, strizzano lo spazio fra le costole, spremono lacrime sulle mie ciglia.
– Non mi aveva mai messo le mani al collo. –
Sento piccole gocce solcarmi la pelle, radunarsi sul mento, picchiettare sul tessuto bianco che mi copre.
– Quando l'ha fatto ho saputo subito che sarebbe finita così. –
Daichi nasconde il viso fra le lenzuola.
– La prima volta che abbiamo fatto sesso avevo quattordici anni. Eravamo nel suo ufficio. Non avevo nemmeno mai visto un preservativo nella vita reale. A malapena sapevo di provare attrazione per gli altri maschi. –
Singhiozzo.
– A quindici durante un allenamento mi stava aiutando a fare stretching. Mi ha toccato l'interno coscia. Qualcosa mi è scattato dentro, gli ho urlato di non toccarmi davanti a tutti. Quando siamo rimasti soli mi ha tirato il primo schiaffo. –
La mia gola si apre e si chiude.
– Ha detto lui a mia mamma la cosa che l'ha portata a buttarmi fuori di casa. Mi ha convinto lui a lasciare il liceo. Mi ha allontanato lui da tutti i miei amici. –
Le mani cercano il contatto, spasmodicamente, pianto le unghie sulle sue dita, ho bisogno di sapere che è qui, con me, a fare da intermezzo fra questo e quel che c'è fuori, a respingere il resto del mondo.
– Non so se sono capace di amare te, Daichi. Ma so di essere capace di odiare lui. –
Il suo sguardo incontra il mio.
– Mi devi promettere una cosa. –
– Quello che vuoi, Kōshi. –
Prendo aria dentro una cassa toracica che sussulta.
– Mi conosco e conosco quello che ho vissuto, quindi so che succederà. Se mai dovessi dirti che voglio rivederlo, se mai dovessi dirti che ho cambiato idea, se anche solo una volta nel cazzo di tempo che mi rimane io cedessi di nuovo, tu mi devi rinchiudere e buttare via la chiave. Mi devi tenere lontano. Devi impedirmi con ogni mezzo che hai, anche con la forza, se necessario, di condividere di nuovo l'aria con quel pezzo di merda. –
Daichi deglutisce le lacrime, lo vedo, e poi annuisce.
– Te lo prometto. –
– Di nuovo. –
– Te lo prometto. –
Tiro le sue dita verso le mie, all'inizio non se l'aspetta e fa resistenza, quando capisce cosa sto cercando di fare ammorbidisce il braccio, lascia che porti le sue mani al mio petto.
– Gli ho dato abbastanza. Ho pagato abbastanza. Quell'uomo mi ha preso abbastanza. –
Inspiro nella gola che brucia.
– Mi ha ucciso. –
Il sale delle mie lacrime si sedimenta nei tratti del mio volto.
– Ora basta. –
Lo strattono dalla mia parte.
Daichi si lascia trascinare.
Mezzo seduto sul lettino, scomodo, incastrato per come viene, mi stringe a sé, io mi nascondo nel suo petto.
– Lo so che non dovrei, lo so che è sbagliato, lo so che dovrei fare da solo, ma mi devi proteggere, Daichi, mi devi aiutare, mi devi tenere al sicuro. Lo so che è egoista, lo so che non posso continuare ad appoggiarmi sugli altri, lo so che... –
– Kōshi, non è né egoista, né sbagliato. Non esiste un modo giusto di affrontare queste cose. Ti aiuto. Ti proteggo. Non devi nemmeno chiederlo. –
– Sì, ma non è così che si dovrebbe fare e... –
– No, no, non c'è un modo in cui dovresti fare le cose. Non c'è una regola. –
Sento il tessuto ruvido della sua divisa fare attrito sul mio viso.
Mi accarezza dolcemente i capelli.
– Però ci sono delle cose che servono più di altre. Ci sono cose che ti possono dare una mano in un modo in cui io non posso riuscire. –
– Ma io non voglio quelle cose, io voglio che mi aiuti tu e voglio che mi stia vicino tu e voglio che... –
– Non si escludono, Kōshi. Non è una o l'altra. È una e l'altra. Non stavo cercando di dirti che non ci sarò. Stavo cercando di dirti che non posso bastare. –
Tiro su rumorosamente col naso.
– Di cosa parli? –
– Di aiuto professionale. Di specialisti. Di medicine. Di dottori. –
Il terrore m'invade arrampicandosi dalle gambe fin nel petto, si ramifica sulle braccia, nel collo, aderisce alle pareti della mia testa.
No, no, di cosa parla? No, come potrei, come potrei mai aprire bocca con uno sconosciuto quando con te è stato già praticamente impossibile, come farei, cosa succederebbe?
No, Daichi, no, ho paura, questa cosa mi spaventa.
Io non posso...
Non posso...
– Solo se posso stare con te. Ci vado. Ma poi torno a casa con te. E tu mi aiuti. –
Daichi prende fiato profondamente, ma non risponde subito.
Ci mette un attimo.
– Kōshi, non capisco cosa mi stai chiedendo. –
– Vengo a vivere da te. Chiedo al capo di raddoppiarmi i turni e ti pago l'affitto. Pulisco casa. Non ti disturbo. Non entro in camera tua. Dormo sul divano. –
– Non credi che sia troppo... presto, una cosa del genere? Non sarebbe meglio se chiedessimo a Noya di darti una mano in questo periodo? –
– No. Devi essere tu. Vorrei non essere così capriccioso. Vorrei non essere così lagnoso. Ma devi essere tu. –
Respira piano, le sue mani si affiancano alle mie guance, mi stacca piano da sé e cerca i miei occhi.
– Kōshi, non c'entra niente l'affitto, dove dormi, o cosa fai, chiaro? E non c'entra nemmeno il fatto che sia tu, anzi, dovresti sapere meglio di me quanto mi piaccia starti vicino. Non sei né capriccioso né lagnoso. Quello che intendo è che non voglio che tu passi dalla padella alla brace. Non voglio che tu ti rimetta in una situazione dove ti senti in dovere di fare qualcosa o comportarti in un certo modo. –
– Non mi sono mai sentito in dovere di nulla con te, Daichi. –
– Ne sei sicuro? Se ti abbraccio sui lividi ti faccio male lo stesso. Forse è meglio che tu aspetti che i lividi guariscano. –
Stringo i denti, assorbo le sue parole e cerco di elaborarle, poi scuoto la testa.
– No. No, no, non hai capito. –
– Spiegami, allora, perché l'idea mi spaventa molto, Kōshi. –
Ingoio un singhiozzo, provo ad esprimermi con quanta più chiarezza possiedo.
– Sei l'unica persona in dieci anni con cui io mi sia mai sentito normale, Daichi. Il tuo modo di fare, la tua pazienza, la tua delicatezza sono le uniche cose che mi abbiano mai dato l'impressione di essere sereno. Non so perché sia così, forse quello che hai vissuto, forse il tuo carattere, forse una coincidenza astrale. So soltanto che è così. Non troverò mai il coraggio di guarire se non saprò di avere un posto dove sono libero di essere malato. –
Trattiene il fiato.
Poi annuisce appena.
Lo fa con timore, la paura non se n'è andata, e vorrei pensare che il problema sia io ma non riesco ad essere così cieco, io so che ha paura di se stesso, ha paura di sbagliare, ha paura di come si ritroverà a gestire il carico emotivo che quel che gli chiedo comporta.
So di star pensando solo a me stesso.
So di stargli chiedendo una cosa enorme.
Sento il senso di colpa.
Ma sono morto, oggi.
Di fronte a quel terrore viscerale, non riesco più a fermare le richieste d'aiuto.
– E se un giorno diventassi come lui? Non so se mi merito la tua fiducia, Kōshi, non so se sono in grado di meritarla. –
Le sue mani tremano sulle mie guance.
Non diventerai mai, come lui, Daichi. Tu non sei come lui. Il fatto stesso che ti ponga il problema, è una riprova di questo.
Chiedere aiuto mi libera di molta della nebbia che mi offusca la mente.
Le cose sono più affilate, più dure, ma sono anche più nette, più definite.
La libertà di star male mi dà la possibilità di vedere star male anche chi mi sta intorno.
– Vieni dal dottore con me. Anche tu vai dal dottore. Andiamo dal dottore. Tutti e due. E tu aiuti me. E quando sto meglio io aiuto te. Devi essere tu. Proverò ad essere io. –
– Sei già tu per me. –
Si china.
Mi bacia la fronte.
Mi stringe forte a sé.
Il dolore dei muscoli è presente e chiaro, ma non glielo dico, so come reagirebbe, ora questo è più importante, mi serve di più.
Le tempie smettono un attimo di pulsare, affondo le dita sulle sue braccia.
– Mi sembra già di stare un po' meglio. Pensavo che sarebbe stato più... difficile, svegliarmi dopo quello che è successo. –
– Vuoi che ti dica la cosa piacevole o quella spiacevole? –
– La cosa vera. –
Tiene il mento sopra la mia testa.
– Il tuo cervello sta rifiutando, ora, Kōshi. Nega. Taglia. Toglie. Arriverà tutto, e sarà tremendo. –
– Lo immaginavo. –
– È anche per questo che ho paura di dirti di sì su questa cosa di farti stare da me. Perché ora non sei lucido. Dopo potresti cambiare idea. Potresti avere paura anche solo di avere un uomo vicino. –
– Aiutami finché non succederà. Se succederà, ho la certezza che sarai il primo a rendersene conto e a trovare una soluzione. –
– Ho paura che la mia ossessione di saperti al sicuro per te sarà solo un'altra gabbia. –
– Daichi. –
– Dimmi. –
Trovo conforto nel calore del suo corpo.
– Ti ho già detto che io non sono tua madre. –
– Lo so. –
– Mi sono dimenticato di dirti che tu non sei tuo padre. –
Rimane immobile, s'irrigidisce.
Poi qualcosa di umido s'infila fra i miei capelli dove tiene il viso.
– Qualcosa di me è morto oggi. Lui ha ucciso qualcosa di me. –
Chiudo gli occhi.
Mi concentro su ogni dolore del corpo.
Cerco di visualizzare ogni angolo di me per cui oggi sono in lutto.
Saluto pezzi che non torneranno mai al loro posto.
– Aiutami a cercare di salvare quello che è rimasto. –
─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───
i cried so fucking hard non so nemmeno io perché cioè cazzo ma l'ho scelto io di scriverla sono una cretina ma perché
guardate vorrei sproloquiare come sempre ma non so proprio cosa dire quindi
let me know cosa ne pensate
grazie per averlo letto
giuro che ora proviamo ad essere più sereni
un bacio
juls <3
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