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𝗹𝗮 𝗽𝗮𝗰𝗲 𝗰𝗵𝗲 𝘃𝗼𝗿𝗿𝗲𝗶

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Il mio collo fa un rumore strano.

Lo piego a destra e a sinistra, le vertebre scattano comprimendo il liquido sinoviale, una cascata di rumori poco promettenti rintocca a partire dal mio corpo.

Socchiudo gli occhi.

Sospiro.

Mi tiro su.

Le tapparelle sono ancora chiuse, non mi fermo ad aprirle, vado al bagno come faccio sempre di prima mattina per risistemarmi e farmi una doccia, l'acqua gelida mi lava via il sonno dalla pelle.

Non mi asciugo i capelli, fa troppo caldo, li strizzo e basta, mi rivesto, arrivo in cucina giusto un po' più sveglio di qualche attimo fa.

Metto su l'acqua nel bollitore.

Faccio fuori due vasetti di yogurt al mango.

Riempio due tazze uguali e immergo due bustine uguali di tè verde.

Lascio il mio sul tavolo.

Prendo l'altro.

Mi dirigo in camera mia con calma.

Inspiro il vapore bollente nelle narici, reggo la ceramica dal manico e tiro su l'altra mano, busso rapidamente sul legno della porta, non ricevo risposta, non la ricevo mai, ma nonostante tutto lo faccio lo stesso, per dare l'occasione a chi c'è dall'altra parte di dire la sua, di dire "no", se mai volesse farlo.

Entro nella stanza abbassando piano la maniglia.

Appoggio la tazza sul comodino.

Alzo il lenzuolo, mi siedo sul materasso, mi stendo, apro le braccia.

Kōshi aderisce a me come miele, denso e viscoso sulla pelle.

Nasconde la fronte contro il mio petto.

Respira nella mia maglietta.

Cinge i miei fianchi con le cosce.

– Giornata buona o cattiva? – mormoro ad una matassa confusa di capelli d'argento.

– Buona. –

– Buona un po' o buona tanto? –

– Buona una via di mezzo. –

Stampo le labbra fra le ciocche chiare.

– Sono felice. –

– Anch'io. –

Ha il viso premuto sul punto in cui batte il mio cuore.

– Stringimi un po' più forte, Daichi. –

– Sei sicuro? –

– Ti prego. –

Lo cingo più saldamente, imprimo un po' di forza nelle braccia e lo avvolgo su di me, chiudo gli occhi, inspiro il suo profumo, il tempo si cristallizza, tutto rallenta e si fa distante, vivo in pace attimi che mi godo come se finiti quelli dovessi davvero morire.

Le ultime due settimane sono state confuse.

Vorrei dire orribili, traumatiche, tremende, vorrei dire perfette, bellissime, meravigliose, vorrei avere un termine, un giudizio, un'idea, ma la realtà delle cose è che sono state solo confuse.

Emotivamente incomprensibili.

L'alternarsi di cose troppo diverse perché possa metterle in ordine.

Confuse.

Nella vita ho sempre avuto una viscerale, intramontabile e totalizzante paura della rabbia. La rabbia mi ha sempre terrorizzato. La mia rabbia, non l'ho mai nemmeno presa in considerazione, tanto lo spavento di avere a che fare col fatto che la posso provare anch'io. Anni di una vita ancora breve, sicuramente, ma non troppo facile, senza mai concedermi di provare rabbia, vedendola come il compiersi di un destino scritto, l'anello di una catena che aveva a che fare col mio DNA, la palese parentela che avevo con mio padre.

Io non mi arrabbio.

Sono mortificato all'idea di esserci andato vicino nella vita.

Guadagno indipendenza da casa mia, respingendo la rabbia.

E poi sono a lavoro.

Poi la porta della centrale si apre.

Poi l'incubo torna, e mentre cerco di togliermi dalla mente l'immagine della mamma che annaspa sotto le dita più forti di papà, quell'immagine è di nuovo lì, e non è la mamma, è Kōshi, col collare violaceo della violenza al collo, col sangue rappreso rosso scarlatto, gli occhi lucidi che luccicano lacrime.

Rabbia.

Un sottofondo, una nota ribattuta al fondo del cervello.

Io aiuto Kōshi, io lo reggo quando collassa, io lo seguo in ospedale, non lo mollo un secondo, gli sto accanto, tutto, faccio tutto nel modo in cui va fatto, ma lei c'è, lei è lì, lei mi aspetta.

Rabbia.

Mai provata.

Mai conosciuta.

Nuova.

Terrificante.

Violentemente soddisfacente.

Kōshi mi prende le mani sul lettino d'ospedale, io lo guardo, cerco di fare quel che devo, soffro per lui come un cane, ma là sotto, c'è qualcos'altro. Io abbraccio Kōshi, io gli parlo, tento di essere di supporto, ma un recondito recesso della mia mente sogghigna come un predatore con la carcassa di una preda fra i denti.

Non sono come lui.

Non sono come loro.

Io non sono...

Non sono...

Morte e possesso, creatura che striscia nella mia mente e sibila ai miei pensieri, "lo ammazzo perché ha fatto del male a ciò che è mio", io non ammazzerei mai nessuno, Kōshi non è mio, ma il sussurro è assordante.

Gli metto le mani al collo come ha fatto con il mio Kōshi, le stringo, finché le vertebre non si spezzano. Fronte contro il muro, allo stesso modo, ma voglio vedergli il cranio che cede, che si rompe, il setto nasale sfondato, fiotti di sangue in gola che gli sembrerà di non riuscire a respirare. Pietà, deve chiedere pietà, questo rifiuto, questo verme, questo pedofilo pezzo di merda che fa della vita degli altri uno zoo di vetro da spostare in una teca, perché ha ferito il mio Kōshi, voleva portarmi via il mio Kōshi, voleva il mio Kōshi, voleva... lui voleva...

Kōshi mi chiede di venire a stare da me.

La mareggiata di sangue che si è fatta strada nella mia testa si ritira.

Il naufrago viene sputato via dalle onde.

Si guarda attorno.

Valuta la situazione.

Panico.

Cos'è questa cosa?

Cos'è, questo, Daichi?

Cos'era?

Uccidere qualcuno?

Mettere le mani addosso a qualcuno?

Fare del male a qualcuno?

Per il tuo Kōshi?

Tuo?

Cos'è stato?

Daichi, cos'era?

Che cosa...

Ti sei sbagliato o ti sei nascosto, Daichi? Ti sei fatto prendere o ti sei lasciato andare? Ti sei alienato o ti sei mostrato? Rispondi, Daichi, cos'era, che cos'era, che cosa diavolo era, che cosa...

No, Kōshi, da me no, non puoi. Kōshi, tu non sai, e se io alla fine non fossi diverso? E se alla fine fossi la stessa cosa? E se diventassi così? E se ti facessi del male? E se pensassi a te come qualcosa di "mio"? E se...

"Mi sono dimenticato di dirti che tu non sei tuo padre."

Ne sei sicuro?

Lo sai?

Ti prego, dimmi che lo sai.

Dimmi che ne hai la certezza.

Dimmi che...

Il dottore.

Camice bianco, capelli scuri, occhi gentili e sorriso dolce, mi vede arrivare in studio come un animale ferito, spaventato e alla ricerca di un angolo dove potermi nascondere, mi siedo di fronte a lui, parliamo del più e del meno, del tempo, di sport, di cibo. Aspetta, non invade, mi chiede solo se "il ragazzo con cui sono arrivato è il motivo per cui sono qui", io dico "sì", dico "no", dico "c'entra ma non solo". Annuisce. Passa oltre.

I primi due giorni Kōshi rimane in ospedale.

Il terzo viene da me.

Ci accordiamo che dormiremo sul letto una settimana per uno, inizia lui, poi faremo a cambio.

In realtà non facciamo mai davvero a cambio.

Non dorme.

Urla di terrore appena gli cala la falce del sonno sulle palpebre.

Mi siedo con la schiena contro la porta sul tappeto di camera mia, mi prega di rimanere lì fermo, a proteggerlo, annuisco, ad ogni suono straziato che gli esce dalla gola a me torna la rabbia, e il senso di colpa, e il terrore.

La sua dottoressa gli dà una medicina.

Dorme.

Il quinto giorno torno al lavoro.

Kōshi ha tre settimane di malattia.

Torno a casa la sera ed è pulita fin negli spazi fra le piastrelle. Splende, ma sa di candeggina. Non so come reagire. Noto che non ha buttato la spazzatura, ha paura di uscire di casa, ha senso che non l'abbia fatto. Gli dico scherzando che almeno mi è rimasto qualcosa da fare. Gli si riempiono gli occhi di lacrime. Mi chiede scusa in ginocchio.

Lo consolo.

Va a letto.

Lei torna.

Chiamo il dottore e lo prego di liberarsi, la mattina dopo sono là insonne, a chiedergli di rinchiudermi perché il mio sangue è marcio, sono nato malato, sono nato violento come il mio papà, e farò cose orribili, sono solo un pericolo.

Il dottore mi guarda in faccia.

Mi chiede chi è Kōshi per me. Se è il mio fidanzato. Scuoto la testa. Mi chiede se mi piace. Annuisco. Mi chiede se sono innamorato. Dico "probabilmente". Mi chiede se ci tengo. Dico "da morire".

Mi guarda negli occhi.

Sospira.

Mi dice che non vuole mentirmi.

Mi dice che lui crede che il problema sia un altro.

Crede che io mi concentri così tanto sul demonizzare la mia rabbia per evitare di sentirmi una vittima. Crede che io mi torturi sul filo di definirmi un carnefice perché se non lo facessi, sarei impotente di nuovo. Crede che io preferisca essere mio padre, che tornare ad essere me stesso com'ero quindici anni fa, che guarda la mamma sanguinare e non fa niente.

È più facile dare la colpa a te stesso che accettare di non poterla avere perché nella situazione non hai potere. È più facile crederti cattivo che saperti inutile. È molto più facile prendersela con la tua rabbia, che trovarti inerme a doverla provare per una ragione valida.

Il tuo ragazzo stava per morire e tu non avevi potere.

Ti trasformi in carnefice da solo per avere quel potere e averlo su qualcosa che conosci.

La verità è che non avevi potere.

La verità è che la situazione è la stessa di quando eri bambino.

Tu non hai potuto farci niente.

Non riesci a perdonarti, il fatto di non averci potuto far niente.

Perché allora dovrei aver paura della mia stessa rabbia, gli chiedo, riferendomi a prima, riferendomi a sempre, riferendomi ad una vita intera prima di Kōshi.

Mi guarda e sorride.

Scuote la testa.

Scappi sempre dalla stessa cosa.

Scappi da ciò che non conosci.

Scappi dall'irrazionalità della rabbia, poi scappi dall'inutilità dell'impotenza.

Controlli.

Metti in fila.

Cataloghi.

Daichi dai sedici ai venticinque vede la ferita nel suo papà che urla in casa e mette le mani addosso alla moglie, non se la sente di prendersela con se stesso, se la prende con lui. Daichi ai venticinque compiuti vede il dolore nel ragazzo coi capelli chiari, deve prendersela con se stesso perché sa di non aver padri da mettere in croce, ricorre alla rabbia, nemica antica e conosciuta, per difendersi, per darsi del violento, più che del superfluo.

Daichi, il problema è che non hai controllo.

Non hai potere.

Non hai facoltà.

Non c'è muscolo da allenare, titolo da guadagnare, vita da vivere che cambierà questa cosa.

Le vite degli altri non puoi deciderle tu.

Le ferite degli altri non puoi cancellarle tu.

Non puoi farci nulla.

Il tuo dramma, è proprio questo.

Vado al lavoro col cuore in gola, vivo un turno che è un inferno di parole che divorano i pensieri coerenti, mi manca il fiato, quando mi cambio per tornare a casa.

La casa è di nuovo pulita.

Non ha portato la spazzatura.

Non chiede scusa, ma gli trema il labbro.

Nessuno dice niente.

Ci abbracciamo stretti in una casa che splende.

Trasgrediamo la regola di dormire separati.

Ci addormentiamo avvinghiati stesi storti sul divano.

Il sesto giorno non vado a lavoro.

Andiamo a fare la spesa insieme, cuciniamo spartendoci la piccola cucina di casa mia, guardiamo un film, ci diamo un bacio talmente veloce che quasi sembra non ci sia mai stato, teniamo le dita intrecciate.

Dorme senza urlare.

Dormo senza sogni.

Il settimo giorno è il primo che decido di bussare per svegliarlo col tè invece che con la cruda realtà di quel che gli è capitato.

Mi vede con la tazza in mano al bordo del materasso.

Mi invita sotto le coperte.

Accetto.

Decidiamo che cinque minuti al giorno, la mattina, tutti e due abbiamo bisogno di esistere soli in un mondo che è un po' troppo da mandar giù in un boccone solo.

Vado al lavoro.

Kōshi riempie un carrello online di cose che vorrebbe comprare.

Quando torno a casa è in lacrime per il senso di colpa, io mi arrabbio fin nel midollo osseo, viviamo i nostri difetti, le nostre malattie, aggrappati alla realtà con le dita intrecciate, quando finisce siamo sfiniti, ci stiamo ancora tenendo per mano, Kōshi dorme sul letto, il sonnifero lo stende, io entro per sedermi contro la porta chiusa dopo che ha preso sonno, lo guardo col volto lasso e intorpidito, disperazione la mia, di saperlo esistente.

Se fossi stato con te non ti sarebbe mai successo niente del genere.

Se fossi stato con te l'avrei fatto a pezzi.

Se fossi stato con te saresti salvo da tutto questo.

Mi guardo le ginocchia.

Però non c'ero.

E non ci sarei potuto essere.

Gli bacio la fronte.

Dormo sul divano un sonno che sa di lacrime.

Torno dal dottore il nono giorno.

Mi chiede di mamma e papà.

Riesco a raccontare un evento minuscolo ed insignificante.

Gli chiedo come farò ad uscirne se la situazione è la stessa di quando ero piccolo, ora. Non ne sono uscito allora, come farò adesso?

Toglie gli occhiali.

Sguardo morbido, ma deciso.

La situazione è la stessa, Daichi, ma non i protagonisti. Le dinamiche sono tanto simili da farti il male che ti fanno, ma gli attori, sono diversi. Kōshi è Kōshi, tu sei tu, lui è lui, non c'è il tuo papà, non c'è la tua mamma, tu di anni non ne hai più sette.

Annuisco.

Quando torno a casa scende tutto giù come una valanga.

Chiedo scusa in ginocchio io, questa volta.

Kōshi mi spazza via le lacrime dal viso.

Mangiamo il pollo fritto con i nasi che un po' colano e gli occhi un po' gonfi, lui urla di nuovo durante la notte, io mi sveglio per sedermi alla porta, ma c'è un'abitudine in questo, uno standard, è come se lui urlasse per darmi il potere di proteggerlo, è come se io lo proteggessi per dargli la libertà di urlare.

Il decimo giorno di nuovo io non devo andare a lavoro, quindi quei cinque minuti di contatto fisico che ci concediamo al mattino non sono cinque minuti, sono tre ore, collassati e sfiniti con la luce che filtra dalle finestre mentre recuperiamo il sonno perso, incastrati assieme fra le coperte. Kōshi mi stringe coi palmi premuti sulla schiena, sotto alla maglietta, cerca il calore della pelle, di un corpo vivo. Io tengo gli occhi socchiusi, per la gran parte del tempo dormo, ogni tanto le mie palpebre si aprono per accertarmi del fatto che sia lui, che sia davvero qui, che esista.

Il decimo giorno va tutto bene.

Ci facciamo la doccia uno dopo l'altro, e Kōshi fa un po' la vipera, io faccio un po' lo zerbino, usciamo a pranzo e andiamo a fare una passeggiata in un parco, sorride come se non fosse successo nulla, gli faccio un paio di foto fra i rami dei cespugli in fiore senza che se ne accorga. A casa prepara la cena e io lavo i piatti, guardiamo un film stretti sul divano, prima di andare a dormire si avvicina per stringermi come fa sempre, invece delle braccia al collo, preme le labbra sulle mie.

L'undicesimo giorno sono di nuovo dal dottore.

Qual è il mio problema, signore? Qual è? Ho in casa un uomo che ha subito l'inferno per quasi metà della sua vita, un ragazzo che ho visto arrivarmi di fronte con la faccia macchiata di sangue e il collo striato da un tentativo di ucciderlo, mi ha pianto sul petto più volte di quante vorrei l'avesse fatto, vederlo respirare e vederlo soffrire sono stati la stessa cosa per la maggior parte del tempo che siamo stati assieme. Ed eppure, io...

Che cos'ho che non va?

Sto steso sul divano a strizzarmi le mani per evitare di alzarmi, entrare in camera, infilarmi sotto le coperte e saltargli addosso, dottore.

Sto da solo a guardare il soffitto invece di dormire perché sapere che lui è a solo qualche metro da me, mi fa scivolare il sangue nelle vene più verso il basso che verso l'alto.

È a pezzi, ma non riesco a non sbavare ogni secondo che lo guardo.

Sotto sotto sono uno stronzo, dottore, no? Sono uno che vuole approfittarsi della debolezza altrui. Sono una merda come gli altri. Non riesco a fare a meno di orbitare con la mente al modo in cui mi tocca, in cui mi parla, al colore della sua pelle, all'odore dei suoi capelli, all'idea di come sarebbe poterlo avere fra le mani per fargli tante, troppe cose che non solo non gli servirebbero, ma gli farebbero male.

Il dottore cambia l'incrocio delle gambe.

Di nuovo, placido come il colore chiaro delle foglie di un albero, mi sorride.

Daichi, quel ragazzo coi capelli chiari non è solo una vittima. Lo è, in questo momento più che mai, ma non solo. È una persona, oltre quello. Una persona che ti piace, di cui sei infatuato, preso, cotto, dilla come ti pare. Tu non sei fatto d'acciaio. Il tuo corpo reagisce all'attrazione come fa quello di tutti gli altri.

Chino lo sguardo.

Dottore, ma lui sta male. Come posso pensare al sesso se lui sta male?

Ciglia scure che incorniciano uno sguardo indagatore, docile ma puntuale, preciso.

Daichi, gliel'hai imposto? Sei andato da lui a chiedergli di farlo? L'hai convinto a farlo? Gli hai messo le mani addosso? Hai sfruttato un momento di debolezza per portarlo a letto con te? Gli hai fatto delle richieste inappropriate?

Scuoto la testa.

È normale che pensi al sesso, con una persona che ti piace accanto. I pensieri non li controlli. Le cose che controlli sono le tue azioni, sono il modo in cui elabori i tuoi istinti nella vita di tutti i giorni. Tu hai pensato al sesso. Hai visto un ragazzo che ti piace e hai pensato al sesso. Nient'altro. Niente di più.

Non rispondo.

Non so cosa dire.

Il dottore sorride di nuovo.

Il ragazzo ti ha chiesto di farlo?

Annuisco.

Non te la sei sentita?

Annuisco di nuovo.

Prende fiato con calma.

Il dottore mi guarda, l'undicesimo giorno, e piega la testa. Mi guarda e batte con le unghie sul retro di una cartellina di cartone su cui tiene fogli piene di scritte che da qui non riesco a leggere.

Tu hai il diritto di non volerlo fare quanto lui ha il diritto di volerlo fare, e sono d'accordo che al momento sia troppo presto, ma quando questo cambierà, quando i tempi saranno maturi, la scelta la dovrà fare lui, non tu per lui. È giusto che tu abbia la possibilità di rifiutare, il consenso dev'esserci anche da parte tua, ovviamente, ma non dire "no" perché credi di poter sapere al posto suo quando si sentirà a suo agio. Spetta a lui fare questa scelta.

Spalanco gli occhi con lo sguardo rivolto al tappeto.

Dottore, ma se scegliesse questa cosa per il motivo sbagliato?

Il dottore alza le spalle.

Te lo dirò chiaro e tondo, Daichi, tu non sei nessuno per decidere che i suoi motivi sono sbagliati. Per lui potrebbero essere giusti.

Dico che non voglio aiutarlo a farsi del male.

Dice che qui secondo lui il problema è più complesso, ed è più antico, ed è sempre in quel luogo dove sono nati tutti gli altri miei problemi, fra le mura color canarino della villetta a schiera dove sono cresciuto.

Tu non ti fidi, Daichi, non ti fidi di Kōshi come non ti sei mai fidato della tua mamma. Tu provi empatia, tristezza, amore, pena, dolore per loro, ma fiducia, fiducia no. Tu li hai visti tornare da chi li ha fatti soffrire, e per quanto tu possa sforzarti, non riuscirai mai a capire questa loro scelta. Tu non ti fidi, Daichi, di questo stiamo parlando.

Mi trema il labbro inferiore, mentre rispondo che quel che sta dicendo è vero, e che di questo mi sento in colpa.

Il dottore ribatte che la mia fragilità non è una colpa, e che dovrei poter essere libero di star male anche io.

Gli chiedo come potrei, se sono le persone intorno a me quelle a cui è stato fatto del male, mentre io non potevo far nulla.

Mi dice pacatamente che il dolore non è una competizione, non è un possesso, non è un dato di fatto. Rubarlo, non lo posso fare. Averlo, non sminuisce quello degli altri.

Torno a casa con gli occhiali da sole per coprire gli occhi gonfi.

Kōshi mi chiede come sto.

Gli dico che sto male.

Mi sento trafitto dalla vergogna quando mi abbraccia e mi consola dicendomi che andrà tutto bene, ma poi mi sussurra che è contento che io sia riuscito a dirglielo, che è fiero di me perché mi sono aperto, che lo aiuta, poter dare una mano col mio dolore come io gli do una mano col suo.

Mangiamo i biscotti con le gocce di cioccolato che ha fatto nel pomeriggio.

Gli racconto qualche aneddoto dell'esercito di cui ride tenendosi la pancia, mentre le briciole si spandono nelle tazze di latte e il tavolo su cui si appoggia traballa.

Il dodicesimo giorno ho un turno d'ufficio, lo porto con me, lo studio della dottoressa è più vicino alla centrale che a casa mia, avendo anticipato il mio appuntamento e dovendolo accompagnare lo trovo più semplice.

Kōshi non parla molto con nessuno, sta seduto con un libro in mano al bordo della mia scrivania, saluta, ma non sorride, sbircia i miei fascicoli quando crede che non lo guardi. È un pelo più espansivo con Asahi, gli chiede di salutargli Noya, gli chiede di dirgli che lo richiamerà fra un paio di giorni, gli chiede come sta.

Rimane rinchiuso in se stesso finché un mio collega appena arrivato non si siede per metà sulla mia scrivania per parlare con me di un caso.

A quel punto slega qualche nodo.

Mi si avvicina.

Mi tocca una spalla, mi avvolge un polso, mi chiede cosa potremmo mangiare "a cena stasera a casa nostra", mi domanda "cosa dovremmo comprare quando fra un po' andremo a fare la spesa".

Guardo adorante ed esterrefatto la sua gelosia.

Ripenso al sesso.

Le parole del dottore aiutano un po', non tanto, un po'.

Il tredicesimo e il quattordicesimo giorno è terrorizzato all'idea di uscire di casa, e mi chiama continuamente mentre lavoro, chiedendomi se c'è una chiave con cui chiudere la porta della camera, chiedendomi se sto facendo qualcosa di pericoloso, chiedendomi quand'è che tornerò da lui.

La prima notte urla.

La seconda prende un dosaggio più alto di sonniferi e dorme dieci ore come un bambino.

E poi dopo quelle dieci ore si sveglia col tè sul comodino, e mi chiede di stringerlo un po' più forte, ed è il quindicesimo giorno, ed è oggi, in una giornata "buona una via di mezzo".

Mare in tempesta, oggi? Torrente in piena, fiume largo e placido, foce a sette bracci o estuario sull'oceano? Pioggia, Kōshi, temporale, piovischio sulle piante?

Non ne ho idea.

In quindici giorni, ogni mattina, non ne ho mai avuta idea.

Costruire la pace che cerchiamo si sta rivelando una tortura.

Ma questa tortura somiglia alla catarsi, e fa male, male in ogni angolo del corpo e della mente, ma libera, distrugge e ricostruisce, e ora siamo nei nostri cinque minuti di contatto fisico, e qui con te riesco solo ad essere dolorosamente fiero del fatto che la nostra barca, in qualsiasi acqua abbia navigato, ancora regge senza affondare.

Le sue cosce mi avvitano il busto.

Mi tira sopra di sé.

Si nasconde sotto al mio corpo.

Accolgo il suo.

– Oggi devi proprio andare a lavoro? – mi chiede, come ogni mattina.

– Purtroppo in questa mia vita da adulto, Kōshi, mi sa di sì. –

– Mmh, ancora un pochino qui, però. –

– Sì, un pochino sì. –

Nasconde il viso nell'incavo del mio collo.

Gratta piano le mie scapole con le unghie corte.

– Oggi cosa devi fare a lavoro? –

– Io e Asahi stiamo lavorando su un caso di furti con scasso. Un altro nostro collega potrebbe avere un suo caso collegato. Riunione e poi si vedrà. –

– Quale collega? –

– Quello dell'altro giorno. –

Mugugna con le labbra chiuse un verso che a metà sembra di fastidio e a metà di divertimento, sento le sue dita scivolare via dalla mia pelle, inerpicarsi verso il mio viso.

– Ti posso chiamare e mi metti in vivavoce quando c'è anche lui? –

Ridacchio.

– Sei geloso? –

– Un po'. Non nel modo cattivo, però. Non come lui. –

Prende un fiato nel petto affilato come una lama.

– Non voglio dire che non mi fidi, o che devi fare come ti dico io, o che ti devo piacere io più di lui, e non voglio che tu ti senta obbligato o che tu ti senta pressato o che tu... –

– Kōshi, tranquillo. Tranquillo. Lo so. Ti conosco. Lo so. –

Espira l'aria tremando appena, ci guardiamo negli occhi, cerco di sorridergli nel modo più dolce che posso.

– Ti metto in vivavoce. Ma non dire cose sporche, ok? –

– Io non dico mai cose sporche. –

– Vostro onore, obiezione. –

I bordi delle sue labbra che tremano minacciano pericolosamente di alzarsi.

– Dico che ti aspetto a casa e che mi manchi. Va bene? –

– No, non va bene per niente, poi sarei costretto a lasciare tutti lì come dei coglioni e correre qui. –

– Dico che ti sto cucinando la torta coi mirtilli? –

– Mi vuoi cucinare una torta coi mirtilli? –

Annuisce.

Mi chino e gli bacio una guancia.

– Di' quel che ti pare. Ma ricordati che sono un povero cretino con un cuore molto debole, quindi abbi pietà di me, ti prego. –

Lo bacio di nuovo su uno zigomo chiaro, il suo sorriso sorge come l'alba in un panorama di fitta vegetazione, s'intravede fra le piante, è lì, un po' nascosto, ma c'è.

– Ieri io e la dottoressa abbiamo parlato di alcune cose che vorrei fare. Mi aiuteresti a farle, queste cose, Daichi? – dice poi, polpastrelli che s'infilano fra i miei capelli.

Annuisco.

– Quali cose? –

Sfila una mano e conta sulle dita.

– Fare un tatuaggio. Parlare con un avvocato. Aprire un conto bancario mio. Andare a pattinare. Andare con Noya in quel locale di cui mi parla sempre dove c'è la musica e da bere. Ricontattare un amico che non vedo da una vita. Fare sesso. –

Ascolto le sue parole con calma.

– In che ordine, queste cose? –

– Ancora non lo so. –

– Quando decidi dimmi, proverò a darti una mano come riesco. –

Mi passa le dita sulle guance.

– Sceglierò una cosa per il tuo prossimo giorno libero. –

– Ok, io sono qui, quando vuoi. –

Mi studia per un attimo.

– Stamattina sei così carino che vorrei mangiarti. – borbotta poi, mostrandomi i denti e facendomi ridere.

– Sei tu quello carino, che dici. –

– Già, vero, io sono quello carino, tu sei il sexy poliziotto in divisa. –

– Al momento credo di essere l'assonnato poliziotto in pantaloncini. –

– Le due cose coincidono. –

Batte un paio di volte le mani sul mio viso, poi lo strizza, mi bacia il ponte del naso e appoggia i palmi sul letto per tirarsi un po' su.

Mi allontano per fargli spazio, lui si siede con la schiena appoggiata alla testiera del letto, mi stendo di fianco accanto a lui, lo osservo prendere la tazza dal comodino, bere un paio di sorsi.

– Tu, invece, piani per la giornata? –

– Finire The Office, farmi la doccia cantando a squarciagola Katy Perry, fare la torta coi mirtilli e un paio di lavatrici e cercare di non avere un attacco di panico nel bel mezzo della giornata. –

– Mi sembra un ottimo programma. Ora rimani un po' a letto? –

– Mi tiro su e mangio qualcosa, stamattina mi sento lo stomaco vuoto. –

Annuisco, lui beve un altro po' di tè, allungo una mano per tirargli via una goccia dal bordo delle labbra.

– La dottoressa mi ha anche parlato di un gruppo di supporto per vittime di violenza domestica. Non sono sicuro di volerci andare, non so se me la sento di parlarne ad alta voce con altre persone, ma mi sono ripromesso di dare un'occhiata al loro sito online. –

– Sono tanto fiero di te, Kōshi. –

– Per così poco? –

– No, per così tanto. –

Mi riserva uno sguardo breve che rivela un po' di soddisfazione, un po' di serenità, annego in quei suoi occhi castani che non mancano mai di farmi sentire a casa.

Beve di nuovo.

Con la mano libera cerca la mia.

Sbatte le palpebre, le ciglia chiare contornano il suo sguardo, muove i polpastrelli sulle mie nocche.

– Sto iniziando a crederci, Daichi. –

– A cosa? –

– Che staremo meglio. E che staremo insieme. –

Manda giù con la glottide che sale e scende.

– Che questi minuti di pace che riusciamo ad avere la mattina diventeranno sempre più lunghi. –

Tiro le sue dita verso di me, strofino il dorso della sua mano sulla mia guancia.

– Piano piano. – mormoro.

– Piano piano. – ripete.

Finisce il tè, rimette la tazza sul comodino, si stende di nuovo al mio fianco. Aggancia un ginocchio oltre l'osso della mia anca, poi mi spinge con la schiena sul letto, tiene le cosce ai lati del mio busto, mi guarda dall'alto, non è la mia testa, è il mio corpo, che si congela nel tentativo di capire cosa fare.

Kōshi però non dimostra preoccupazione, non si ferma, appoggia le mani sul mio addome, piega la testa, mi guarda.

– Ricordati di scrivermi quando vedi il tuo collega. Così ti chiamo. –

Faccio "sì" con la testa.

– E metti il vivavoce. – continua, ridacchiando.

Di nuovo, annuisco senza parlare.

Le mani di Kōshi si aggrappano sull'orlo della mia maglietta, non la tira su, ma passa le dita all'interno, sulla striscia di pelle che separa l'elastico del pantaloni dall'ombelico.

– Non voglio essere possessivo, o geloso, o tutte le cose brutte che nelle relazioni non si deve essere, però un po' mi piace che tu sia così solo con me. È un male? –

L'aria nei polmoni non mi basta per rispondere, prendo fiato.

– Niente è di per sé un male o un bene, dipende sempre dalla situazione. La gelosia è una cosa naturale. Se riesci a comunicarla e a capire quando è opportuno manifestarla e quando no, io non credo che sia un problema. –

– Tu sei geloso? –

– Sì, Kōshi, sono geloso. –

Gli luccica lo sguardo.

– Di me? –

– Di te. –

– Quando sei stato geloso? –

Mi si aprono nella mente immagini di Kōshi e di lui, loro in cucina la sera che ci siamo conosciuti, loro che parlano, loro al telefono. Ci penso su un istante, ma accantono lo scenario, non è gelosia, quella non lo è mai stata, il problema non era che Kōshi non stesse con me, il problema era che stesse con lui, non l'ho mai odiato perché lui l'aveva e io no, la situazione era troppo grande per questo.

Però...

– Il cliente del giovedì. Quello che entrava sempre quando io stavo per andarmene. Il tipo vestito bene. –

– Quello col completo? –

– Lui. –

Ridacchia.

– Ma ha la fede al dito, Daichi, è sposato, non gli piaceranno nemmeno, i ragazzi. –

– Non ho detto che abbia senso, o che il problema non fosse solo ed esclusivamente mio, però si sedeva sempre al mio posto, ti sorrideva sempre tutto il tempo, non lo so, un po' mi dava fastidio. –

Kōshi sorride.

Non è il suo solito sorriso.

È quello un po' più affilato.

– Allora la prossima volta che verrà e mi chiederà come sto gli dirò che sono molto contento perché ora convivo col minaccioso agente di polizia che lo guarda male quando entra. –

– Solo se ti andasse di farlo. –

– Mi andrebbe. –

Apre la mano sulla mia pancia, tasta, tocca con più intenzione.

Devo distogliere lo sguardo e piantarlo sul soffitto.

– Tutto bene, Daichi? – mi sento chiedere, il tono che non è ingenuo e interessato, ma sottile e allusivo.

– Kōshi, io... –

– C'è qualcosa che non va? –

Si sposta col bacino su di me, come ad aggiustare il modo in cui è seduto, devo mordermi l'interno della bocca fino quasi a farmi male, per evitare di reagire troppo platealmente.

Cerco l'aria come se stessi soffocando.

– Kōshi, sono fatto di carne anch'io. –

– Lo so. Lo sento. –

– Io non credo che... –

– Daichi, guardami. –

Un centimetro alla volta, un po' alla volta riporto il mio sguardo sul suo. Devo respirare a pieni polmoni, appellarmi ad ogni briciola di autocontrollo che possiedo, sono una persona razionale, di solito, ma Kōshi la mia razionalità l'ha sempre fatta a pezzi col solo essere se stesso.

– Ancora no, sono d'accordo con te. Ma ci vorrà meno di quanto tu credi, a farmi volere questa cosa. E quando succederà, io ho bisogno che tu mi dia il tuo consenso pensando solo a quello che desideri tu, non a quello che credi desidero io, ok? –

– Koshi, ma... –

– Ne ho parlato con la dottoressa. Tanto. Spesso. Per cercare di capire perché sia un'idea che mi viene così spesso e perché io abbia l'istinto di volerlo fare nonostante tutto. –

Deglutisco la saliva.

– Sai cosa mi ha risposto? –

– Cosa? –

– Che a lei non sembra così strano che un ventiquattrenne a stretto contatto con un coetaneo che gli piace abbia voglia di fare sesso. Che dopo tutta questa merda che è successa, una scopata decente me la meriterei proprio. –

Stringo le labbra e rido piano alle sue parole, alla sua espressione.

– Poi le ho fatto vedere una tua foto e mi ha detto "Kōshi, tesoro, il fatto che tu voglia fare sesso è decisamente, decisamente più che normale." –

– Piaccio alla tua psichiatra? –

– Con quella faccia piaci a tutti, non fare il modesto. –

Mi pizzica la pancia, aggrotta le sopracciglia mentre mi sgrida.

Poi rilassa il viso, e respira con calma.

– Questo ovviamente non vuol dire che tu mi debba dire di sì, o che tu debba essere d'accordo o che tu debba volerlo perché lo voglio io. Solo che la scelta è tua per te stesso, non per me. –

– Ho capito. Ci penserò. –

– Tutto il tempo che ti serve. –

Preme piano l'indice sulla punta del mio naso.

Mi guarda, mi sorride, si china, preme il petto contro il mio e sistema la testa di traverso sul mio sterno, lo stringo con le braccia, mugugna di soddisfazione.

– Sì, me la merito proprio una scopata decente. – borbotta poi, facendoci ridere entrambi.

Gli bacio il centro della testa.

Respiriamo attaccati l'uno all'altro.

– Certo, non so se io potrò esserlo per te, ma... –

– Kōshi, non dirlo neanche. Non la finire, questa stronzata. –

– Stronzata? –

– Stronzata. Un'enorme, epocale stronzata. –

Si sposta per potermi guardare negli occhi.

– Potresti tirarmi un ceffone e dirmi di andare al diavolo e per me sarebbe comunque meglio di tutto il sesso che ho fatto nella vita. Dovrei vergognarmi a dirlo? Forse. Lo faccio? Assolutamente no. –

Ridacchia.

– Ti piaccio così tanto? –

– Kōshi, io ti muoio dietro. –

– Ma dico, anche... fisicamente? Sessualmente? –

Inspiro ed espiro con calma.

– Oh, Dio, sì. Tanto. Quasi troppo. –

– Davvero? Lo dai così poco a vedere che credevo che con tutto quello che è successo non ti piacesse più l'idea di... –

– Di fare una scopata decente, come la chiami tu? –

Annuisce, un po' ha le guance arrossate, ma è divertito.

Rispondo pacatamente.

– No, ed è un problema che sto cercando di affrontare, il fatto che nonostante tutto non mi sia passata la voglia. Mi ci sento in colpa. Ho paura di questa cosa. Però è la verità. È faticoso, per me, non saltarti addosso ogni volta che ti vedo. Te l'ho detto, sei la cosa più bella che abbia mai visto in venticinque anni di vita, io sono solo un uomo fatto di carne, alla fine della fiera. –

– Quindi resisti? Fatichi a controllarti? –

– Sì, Kōshi. –

Strizza la mia maglietta con le mani, mugugna a labbra chiuse.

– Questa cosa è molto, molto attraente. Non so perché ma lo è. –

– Di' la verità, ti piace avere questo potere su di me. –

– Forse. –

– Piace anche a me. –

– Mi fa sentire bello. Mi fa sentire importante. –

– Sei bello e sei importante. –

– Dio, Daichi, sono solo un uomo fatto di carne anch'io. Piano, tigre. –

Lo stringo forte e mi stringe forte di rimando, si sente il rumore delle nostre voci che ridono, fiati che si rincorrono, capisco quel che diceva prima, nonostante tutto, capisco.

Staremo bene e staremo insieme, hai ragione.

E ci sarà il sedicesimo giorno, il diciassettesimo, il diciottesimo e il diciannovesimo, ci saranno settimane, mesi, anni, spero.

Ma staremo bene.

Staremo insieme.

Anche se fa male.

Anche se non so cosa aspettarmi.

Anche se guarire ci ferirà ancora e ancora.

– Sai, Kōshi? Non so se saremo mai due persone normali, io e te. Se smetteremo di stare così, di essere così, di pensare così. Però ho l'impressione che ad un certo punto saremo felici, anche se non saremo normali. –

– Lo penso anch'io. –

– E se poi torneremo tristi allora ricominceremo a provare di essere felici. –

– Sì, esatto. Un po' alla volta. Piano. –

– Già, piano. –

Raggiunge le mie labbra.

Mi bacia appena.

Mi specchio nei suoi occhi.

– Quell'altra vita di cui parlavi, quella in cui siamo normali, sarebbe piaciuta anche a me, sai? Cancellare tutto, vivere tutto da capo. Ma a me va bene anche questa. In questa ci sei tu. Mi piace lo stesso, perché ci sei tu. –

Mi sorride con serenità, ed è una serenità che calma anche me.

– Questa fa schifo, Daichi, e ha fatto schifo per tanto tempo. Ma quando sei qui con me non mi dispiace più. Non mi detesto, non mi sento di voler essere tutt'altro. È stato brutto, lo so. Ma questo non vuol dire più che non potrà essere bello. –

Appoggia la fronte contro la mia.

Chiudo gli occhi.

– E se va tutto male torniamo qui. –

Inspira.

– Sì, è vero. –

Espira con calma.

– Se va tutto male, noi torniamo qui. –

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───

OK perdonate il ritardo ma sto finendo gli esami sisisisisi anyway so spero che vi sia piaciuto !! we needed un capitolo un po' più calmo perché il cuore non mi reggeva più e niente spero che sia stato carino per voi leggerlo com'è stato per me scriverlo

dovrebbero mancare quattro capitoli ?? dovevano essere tre ma sicuro sono minimo quattro, però ora che ho un pochino di vacanza cerco magari di raddoppiare le pubblicazioni (non garantisco ma ci provo), quindi si vedrà sisisisi

niente

scappo

ditemi cosa ne pensate

un bacio

mel <3

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