𝗵𝗮𝗶 𝗰𝗿𝗲𝗮𝘁𝗼 𝘂𝗻 𝘀𝗶𝗹𝗲𝗻𝘇𝗶𝗼
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Giro la chiave nel quadro, spengo il motore, apro ed esco, una gamba alla volta, sull'asfalto ancora umido di pioggia. Le suole delle mie scarpe squittiscono sulla superficie bagnata, chiudo la portiera dell'auto di pattuglia nel silenzio tombale di un quartiere vuoto, il cielo notturno è libero dalle nuvole, sopra di me.
D'istinto tocco la fondina, il peso della pistola è rassicurante contro la mia coscia, ho passato quella fase in cui portarla in giro mi provocava nervosismo, adesso senza, mi sento nudo.
Controllo la via, mi accerto di essere effettivamente nel posto giusto, conosco questa circoscrizione come le mie tasche, ma la prudenza è sempre ben accetta, in questi casi.
Inspiro.
Espiro.
Mi dirigo verso il complesso di appartamenti di fronte a me.
Questo genere di segnalazioni è sempre un salto nel vuoto, per quanto mi riguarda. Nella maggior parte dei casi il tutto si traduce in un nulla di fatto, che sia perché le persone coinvolte non vogliano parlarne o perché chi ha denunciato si è semplicemente confuso, alla fine mi capita quasi sempre di tornare in centrale per finire il mio turno senza aver combinato nulla di utile.
A prescindere, però, questo è il mio lavoro, e sono sinceramente convinto che se di cento segnalazioni anche solo una fosse vera, allora quell'una meriterebbe tutta la mia attenzione, a discapito degli altri novantanove buchi nell'acqua.
Il portinaio del complesso sgancia la porta per me quando mostro il distintivo dal vetro dell'ingresso, non mi rivolge alcuna domanda, non so se sia abituato a questa eventualità o semplicemente non voglia avere problemi, chino il capo in un gesto di saluto, mi dirigo verso le scale.
Appartamento 407, quarto piano, sulla sinistra, questo è quello che mi è stato riferito dalla radio, là è dove sono diretto.
Mando giù gli scalini con calma, a fine turno sono sempre un po' stanco, ma stamattina ho dovuto riparare il boiler dell'acqua e non sono riuscito ad andare a correre, l'esercizio fisico non mi dispiace.
Di fronte a me si apre un corridoio vuoto, tante porte tutte uguali come lapidi numerate sulla via alberata di un cimitero, le luci sono elettriche, sfarfallano, mentre cammino sulla moquette senza sentire i miei stessi passi, mi chiedo se l'atmosfera tanto allucinante non sia più simile a quella di un sogno che a quella della vita reale.
I numeri si susseguono, li seguo con lo sguardo.
Nessuno fa rumore.
Mi chiedo come sia possibile.
Forse le porte sono particolarmente spesse, forse arrestano efficacemente ogni forma di suono. C'è gente che vive, di là di queste porte, c'è, no? E vivono, ma non fanno rumore, e il loro non farlo mi sembra strano, conferisce al mio essere qui una solennità che a tratti mi inquieta, è tutto così disturbante o sono solo io che sono stanco e non riesco a capacitarmi che un intero complesso di appartamenti in fila sia tanto tombale?
Cerco di distrarmi.
Di pensare a tutt'altro.
Di chiedermi se ho spento il gas prima di uscire ore fa da casa mia, se ho qualcosa da mangiare in frigo o se devo fermarmi al supermercato, se mi sono scordato qualcosa in macchina, se ho risposto ai messaggi sul cellulare, se mi ricordo il finale del film che ho visto ieri prima di andare a letto.
Cerco rumore dentro la mia testa per compensare il silenzio che c'è fuori.
Vince il silenzio.
Arrivo di fronte all'appartamento 407 con i brividi lungo la spina dorsale.
Di nuovo inspiro, di nuovo espiro.
Tingo l'aria stantia di questo posto col primo suono che riesco a sentire da quando sono entrato.
Alzo la mano e busso.
Il rumore rimbomba dall'altra parte.
Attendo.
Ci vuole qualche istante perché effettivamente io riesca ad avere prova della presenza di qualcuno oltre me in questo posto, all'inizio non c'è risposta, ma dopo un attimo sento dei passi e dei movimenti, sento delle voci che si fanno più sostenute dalla mia parte, dita sul legno della porta, il rumore dello spioncino che si apre e si chiude, una catenella tirata, una serratura, l'aria che si sposta.
Qualcuno apre.
Mi si para di fronte il viso sconosciuto di un uomo di mezza età, ad occhio e croce fra i quaranta e i cinquant'anni, adombrato dalla porta ancora chiusa per metà, lo sguardo è truce, infastidito, mi si pianta addosso come una lama.
– E tu chi sare... –
– Daichi Sawamura, Polizia di Tokyo, sono qui per una segnalazione di violenza domestica. Può aprire, per favore? –
Riconosco l'alternarsi di reazioni diverse che convergono in un'unica e sola risposta. Prima paura, forse, poi rabbia, successivamente nervosismo, condiscendenza, alla fine, perché credo che, coinvolto o meno, l'uomo abbia capito che la via più breve per risolvere questo problema è non opporsi al corso delle cose.
Richiude appena la porta, sgancia la catenella, sospira e apre la porta completamente verso di me.
– Ha un mandato? –
– No. Serve che ne richieda uno? –
Se mi dicesse di sì, m'insospettirei, lo sa meglio di me.
Capitola scuotendo la testa.
– Certo che no, non abbiamo nulla da nascondere. –
Si fa da parte, mi permette di entrare, chiude la porta alle nostre spalle mentre scannerizzo lo scenario di fronte ai miei occhi rapidamente, l'interrogativo aleggia nell'aria, dov'è l'altra persona?
– Il mio partner è in cucina, se lo cerca. Qui subito a sinistra. –
Mi sfilo le scarpe una con l'altra.
Chino il capo.
Mi dirigo verso la loro cucina controllandolo con la coda dell'occhio.
Non fa nulla di inconsulto.
Solo stringe i denti.
Mi guarda con disprezzo.
Nulla a cui non sia abituato.
La casa è piccola, ordinata quasi maniacalmente, l'odore non ricorda quello di un'abitazione ma quello di un ambulatorio, asettico, distante, poco vissuto, ossessivamente pulito. Non c'è traccia di polvere, il pavimento risplende, qualcosa mi si attorciglia nella testa, viaggia fra le sinapsi, si assesta fra i ricordi, ripesca l'immagine di casa mia, quindici anni fa, altrettanto pulita, mia madre che trascina con lo straccio il detersivo e le lacrime.
Mi mordo l'interno della bocca, entro in cucina.
Capelli chiari, pelle nivea, le dita sono arrossate dallo sforzo e le mani screpolate dalla frequenza del gesto, suppongo, il polso si muove sul bordo del tavolo, lo straccio fra la pelle e il legno, ci metto un attimo a capire che il partner dell'uomo, è un altro uomo.
Non ci metto un attimo perché l'idea mi è distante, anche a me è capitato che il mio partner fosse un uomo ed esserne scandalizzati sarebbe oltre che fuori luogo, anche anacronistico, ci metto un attimo perché quell'immagine sepolta nei miei ricordi torna e vedo lei, non lui, per qualche secondo.
Mi si avvita il respiro nel petto.
Scaccio l'idea.
Cerco di stare tranquillo.
D'istinto cerco le lacrime.
Quando alza il viso verso di me non ne vedo.
Ad un certo punto, però, anche la mia mamma aveva imparato a non piangere più.
– Scusi, ho sentito bene? Lei è della Polizia? – mi chiede, i bordi delle labbra tirati su in un sorriso che vorrebbe disperatamente essere affabile, me ne rendo conto, ma sembra solo spento.
– Sono della Polizia, sì. Hanno chiamato i vostri vicini. Hanno detto che hanno sentito delle urla e rumore di qualcosa che si rompeva, vetro, immagino. A vedere casa vostra adesso quasi sembra che non abbiate nemmeno mai rotto un piatto. –
Ha la mia età.
– Oh, no, dev'esserci stato un malinteso. –
Cerco di guardare lui ma vedo la mamma. E non so perché io veda la mamma in un ragazzo che avrà la mia età quando ho imparato a non vederla nelle donne con cui parlo in queste stesse situazioni di solito, donne che sono come era lei, madri, mogli. Forse sono stanco, sì, o forse è che quelle stesse donne nella maggior parte dei casi davvero non hanno nulla a che vedere con questa storia, ma lui potrebbe.
Scaccio il pensiero.
Mi costringo a guardare e vedere lui.
Non c'è spazio per le speculazioni personali.
Sono in servizio da soli sei mesi, sicuramente non sono un veterano incallito, ma mi hanno addestrato abbastanza bene perché lo sappia anch'io.
L'uomo di prima entra in cucina alle mie spalle, circumnaviga il tavolo, si mette vicino al ragazzo, una mano possessivamente appoggiata in vita, contatto forzato fra le loro spalle, non vedo più la mamma, ma forse avrei preferito vedere lei che vederlo schiacciato dalla presenza di quello che potrebbe essere un compagno o forse un carceriere.
Inspiro.
Espiro.
Valuto la situazione.
Quello che mi ha aperto la porta è un uomo adulto a tutti gli effetti, a stima diretta quarantacinque anni, più basso di me di qualche centimetro, conformazione fisica da atleta ma non come la mia, da anni di arti marziali, più da qualcosa di elegante, di artistico, danza o qualcosa di simile.
L'altro è giovane, ha la mia età, anno più anno meno, più basso di me e di lui, sempre lo stesso fisico asciutto e affusolato, è più esile, più morbido, mi rendo conto, quando lo guardo senza vederlo sovrapposto ad un'immagine che mi ha inseguito per anni, che è particolarmente bello.
Il suo compagno non suscita in me lo stesso interesse, forse per la differenza d'età, forse solo perché non rispecchia alcuni miei gusti, ma lui, con lo straccio in mano e il sorriso spento, lui che non piange ma che sembra nonostante tutto starlo facendo in un modo meno chiaro, meno palese, ugualmente sofferente, lui mi fa un effetto e ne rimango... colpito.
Ha i capelli chiari, chiarissimi, non biondi, quasi d'argento, gli occhi sono grandi, castani, la pelle è del colore del latte, ha un neo sotto uno degli occhi. Vestiti larghi, tessuto che cade a vuoto su un corpo che s'intravede, si abbassa nervosamente le maniche della maglietta che ha indosso, vorrei alzare quel tessuto e vedere cosa c'è sotto, metà di me cerca i lividi, l'altra metà forse solo di vederne ancora.
I suoi occhi incontrano i miei.
Sfugge e pianta a terra lo sguardo.
È timido?
Ha paura di me?
Ha paura di lui?
Ha paura di cosa farebbe lui, se sapesse che sta guardando me?
– Come le ha detto il mio compagno, è stato un malinteso, i vicini avranno sentito male. Abbiamo litigato, sì, ma non è stato nulla di più di una normalissima lite fra fidanzati. Suga tende ad alzare un po' la voce quando s'infuria, ma non è nulla di che. –
Lo guardo.
– Secondo la chiamata al numero d'emergenza hanno sentito qualcuno gridare più volte "scusa" e "ti prego" e poi c'è stato rumore di vetro infranto. Non mi sembra una normalissima lite fra fidanzati. –
Il suo compagno mi risponde con la voce che trema.
– Avranno sentito male. –
– Sentito male? –
– Sì, sentito male. –
Il report che ho ricevuto alla radio parlava di una donna, suppongo che chi ha chiamato si sia confuso, ad alcune persone non passa per la mente che l'assortimento della vita altrui possa essere alternativo rispetto al proprio, avranno dato per scontato che di due voci che hanno sentito, quella meno bassa fosse femminile.
Quello più giovane non ha la voce che sembra quella di una donna.
Ma chiaramente parlavano di lui.
La parte lesa, qui, è lui.
Fisicamente meno imponente, ad occhio e croce meno forte, più giovane, più fragile, con gli occhi che mi rifuggono, mentre l'altro mi fissa come a sfidarmi, come a chiedermi cosa voglia fare io qui, nel posto dove comanda lui.
Sono atteggiamenti che ho già visto da vicino.
Mi ricordano casa mia.
Lui, mi ricorda mia madre.
E forse mi sarebbe addirittura meno doloroso ammettere che lo fa per qualche irrisolto complesso edipico, dire che lo trovo attraente perché ho chissà cosa in sospeso con la mia figura genitoriale, sarebbe inquietante sì, ma lo farei col cuore più leggero.
No, mi ricorda mia madre perché ha i suoi stessi modi di fare.
Quelli di una vittima.
Quelli di un prigioniero che crede di non potersi allontanare di un centimetro dalla propria gabbia.
Quelli di chi ad un certo punto ha smesso di essere una persona e ha iniziato ad essere un sopravvissuto, un possedimento, una discarica emotiva per l'uso e il consumo di qualcun altro, qualcosa che prende la forma che gli dai, che da sé non ne possiede una, che da sé, non crede di poterla nemmeno avere.
– Suga? – chiedo, con l'intento di ricevere in cambio un nome completo.
– Sugawara Kōshi. – mi risponde il fidanzato, non lui.
Stringo i denti.
– Sugawara, allora. Posso parlarle un attimo in privato? –
– Non c'è bisogno, qualsiasi cosa abbia da dire può benissimo dirla con lui qui presente. – mi risponde.
– Insisto, è per procedura. –
– È necessario? –
– Temo di sì. –
Si scosta, impasta le mani una sull'altra, lo sguardo mi sfugge ancora ed è timoroso quando lo schianta contro quello del suo compagno. C'è una conversazione che si svolge nel loro contatto visivo, o forse no, forse non è una conversazione, forse è l'atto del chiedere il permesso, di aspettare un ordine, non una conversazione, una direttiva.
– Vai. –
Annuisce.
Si gira verso di me.
Mi invita ad uscire dalla cucina, si chiude la porta alle spalle, mi conduce qualche stanza più avanti, in un salotto che è uno specchio, su un divano praticamente intonso, nel silenzio di non sapere cosa dirmi, forse, o l'abitudine di non dover aprire bocca.
Mi siedo, aspetto che lo faccia lui.
Mi sta distante.
Però, ora che siamo soli, mi guarda negli occhi.
– Le assicuro che è stato davvero un malinteso, abbiamo avuto una lite animata, lo ammetto, ma violenza domestica? Davvero? Mi sembra molto eccessivo. – dice, piegando la sua voce come se scherzasse, con la chiara intenzione di scherzare, intenzione che non riesce, perché più che scherzare, sembra che imiti qualcuno che scherza.
– Non mi sembra molto eccessivo. Mi sembra plausibile. So che ha paura, ma per il suo bene, deve dirmi la verità. –
– Ma questa è la verità, le assicuro, crede che starei da quasi dieci anni con qualcuno che è violento con me? Lo crede davvero? Non sono un cretino, so quello che faccio. –
– Quanto? –
– Eh? –
– Da quanto state insieme, ha detto? –
Spalanca gli occhi.
Per un attimo sembra un cerbiatto di fronte ai fanali di una macchina di notte.
Poi ride.
Il suono è soave, ma mi fa l'effetto di sentire un gessetto graffiare l'ardesia di una lavagna. È stonato, atroce, stridente. Ride, non sembra farlo perché ne ha voglia, sono sicuro che sia l'ultima cosa che vorrebbe fare al momento.
– Era un eufemismo, vado sempre per difetto. Sei, non dieci, sei anni. –
– Lei quanti anni ha? –
– Ventiquattro. –
– Il suo compagno? –
– Quarantadue. –
Sei, non dieci.
Certo.
Sei, non dieci. Perché se sono sei tu allora ne avresti avuti diciotto, ma se fossero stati dieci, ne avresti avuti quattordici. Sono sei o sono dieci? Sono sei per me e dieci per te? Sono sei e basta? Sono dieci? Tu vivi questa vita da quando avevi quattordici anni?
"Non sono un cretino, so quello che faccio"?
Certo che sai quello che fai.
Ora sopravvivi.
Ma allora lo sapevi, quello che facevi?
Cretino.
Perché dovrei pensare che tu sia un cretino?
Come se la tua eventuale stupidità potesse giustificare la situazione in cui sei.
Cretino o meno, non è di colpe, che stiamo parlando qui, da parte tua.
– C'è qualcosa che le impedisce di dire la verità? Qualche minaccia diretta alla sua famiglia, forse? La dipendenza economica? –
– Non ho idea di cosa lei stia parlando. Sono perfettamente in contatto con la mia famiglia e ho un lavoro con cui mi mantengo. –
– Per cosa avete litigato? –
– Si è dimenticato di mettere i piatti in lavastoviglie e ho dato di matto perché ho avuto una giornata lunga, ho solo fatto una scenata a caso come succede a tutte le coppie del mondo, le assicuro che... –
– Secondo il report era la sua voce quella che diceva "basta" e "scusa", cosa possono entrarci "basta" e "scusa" con l'aver dimenticato di caricare una lavastoviglie? –
– Glielo ripeto, hanno sentito male. –
– Lei ne è davvero sicuro? –
– Lo giuro. Su quello che vuole, lo giuro. –
Sposto le ginocchia per girarmi meglio dalla sua parte.
Salta indietro di almeno venti centimetri buoni, quando mi sposto.
Lo guardo, lui mi guarda, la sua reazione rimane sospesa nell'aria che ci separa, i suoi occhi mi pregano di smettere, so che i miei lo pregano di confessare.
– Ha paura di me, Sugawara? –
– È un poliziotto entrato in casa mia di domenica sera, è armato, certo che ho paura di lei. –
– C'è un qualche motivo per cui crede che io potrei prendermela con lei? –
– No, ma... –
– Ha paura di me perché ha paura che se quell'uomo dovesse uscire dalla cucina e vedermi starle a meno di un metro di distanza le darà la colpa di essersi avvicinato troppo? –
– Non è così... –
– Sono i movimenti bruschi, che la mettono in allerta? –
– Sì, possiamo dire questo. –
Annuisco.
– Capita anche a me, sa, me l'hanno insegnato. –
Cerco di raggiungere il fondo del suo sguardo.
– In quasi vent'anni di sport di lotta, me l'hanno insegnato. Riflessi pronti. Indispensabili per indietreggiare o schivare se qualcuno tenta di colpirti. –
Suga china lo sguardo, si trascina di nuovo le maniche sulle braccia, scuote il capo.
– Non so di cosa sta parlando. –
– Io credo che lei lo sappia bene. –
– Non è che magari ha dei preconcetti solo perché siamo una coppia gay? È venuto qui a fare questa scenetta perché crede che per forza in tutte le coppie omosessuali ci debba essere uno che viene abusato perché è un omofobo di me... –
– Sono bisessuale. Ho frequentato più ragazzi che ragazze. Non è il caso. –
Finalmente mi guarda, mi guarda e le parole gli cadono di bocca mentre s'interrompe. È colto alla sprovvista, mi chiedo per un attimo se si aspettasse di usare questa scusa per mandarmi via. Probabilmente è quella che usa sempre. Probabilmente di solito funziona. Probabilmente non sono il primo che...
– Allora lei... lei... allora... –
– Non cerchi di trovare una giustificazione, mi dica solo la verità. Se lei è in pericolo posso aiutarla. Posso aiutarla ad uscirne. –
– Io non voglio il suo aiuto. –
– Non vorrei doverglielo dare nemmeno io. –
Per un attimo rimaniamo entrambi in silenzio. È un silenzio che somiglia alle nuvole prima di un temporale, gonfie, cariche di pioggia, la luce di un lampo squarcia la pace stantia del cielo grigio, il tuono si lascia attendere, non sai se pioverà, aspetti che succeda qualcosa, non succede niente.
Vorrei distaccarmi dal mio ruolo, vorrei smettere di essere un poliziotto per un attimo e interpretare chissà quale altra parte teatrale di questa rappresentazione, vorrei essere un amico, un conoscente, qualcuno col diritto di mettergli le mani sulle ginocchia e pregarlo di parlare, qualcuno che possa ispirargli fiducia, non terrore.
Non posso.
Però lo spero.
Ed è strano sperarlo perché sono mesi, anni, che vado avanti in questo mondo ripetendomi col pugno di ferro che per fare questo lavoro devo impedirmi di provare coinvolgimento personale.
Razionale e lucido.
Al momento mi sento solo triste e confuso.
In questo stato non sono di utilità a nessuno.
– Avete finito? Vi interrompo? –
La voce che arriva dalla cucina mi tende come una corda di violino. Mi ritrovo irrigidito, di fronte a me Sugawara subisce il mio stesso effetto uguale ed amplificato, i muscoli contratti, l'espressione di vetro, si distanzia da me.
– Ancora un secondo, non ci vorrà molto. –
– Vuoi che intanto ordini la cena? –
– No, arrivo subito e la preparo io. Scusami, avrei dovuto pensarci prima. –
Rivedo la casa dove sono cresciuto. Rivedo me stesso, ad un passo dalla porta di camera mia aperta solo in uno spiraglio, le mani chiuse, gli occhi serrati, la voce di lei che chiede scusa, scusa, scusa di non aver fatto questo, scusa di non aver fatto quello, scusa di esistere anche se mi hai voluta tu, scusa di essere anche se mi hai resa così, scusa, per la tua violenza scusa, per la tua rabbia che subisco e di cui comunque ti chiedo scusa.
Vorrei scuoterti dalle spalle, Sugawara, scuoterti dalle spalle e dirti di non chiedere scusa.
Ma in che situazione ti metterei?
In che casino ti infilerei?
Uscirei da quella porta dopo la mia sviolinata pietosa e scusa dovresti chiederlo ancora, perché infilato in questo, ci sei tu, non io.
– La prego, mi dica onestamente quello che succede qui dentro. – tento, con l'ultimo briciolo di vana speranza che provo.
– Qui dentro non succede niente. Non è mai successo niente. Glielo ripeto per l'ultima volta, è stato solo un malinteso. –
Sospiro l'aria che avevo in corpo.
Chino il capo.
Lascio andare l'ultimo barlume del mio tentativo.
Mi alzo di fronte a lui, per un attimo mi guarda dal basso e mi pare terrorizzato, non so se da me, se dal carceriere comodamente rinchiuso in cucina, se dalla situazione. Infilo una mano in tasca, tiro fuori il portafogli, sfoglio uno dei biglietti da visita della Polizia dalla retina che li tiene assieme.
– Mi chiami, se succede qualsiasi cosa. La prego, mi chiami. A qualsiasi ora del giorno o della notte. –
Guarda il foglietto che gli porgo con gli occhi di prima, quelli che aveva quando sono arrivato, vuoti, spenti, che sembrano piangere anche se non una lacrima sfiora le ciglia.
– Non ce ne sarà bisogno. –
– Lo prenda lo stesso, giusto per farmi felice, Sugawara. –
Le sue dita tremano e sono attente a non sfiorare neppure le mie. Pinza la carta fra i polpastrelli, dà una rapida occhiata, abbassa drasticamente il tono della voce quando mi si rivolge.
– Suga va bene. –
Sussurro come sta facendo lui.
– Ok, Suga. –
Fa per alzarsi anche lui, indietreggio per lasciargli lo spazio di farlo, nel movimento i suoi vestiti si spostano, vedo l'ombra violacea della pelle sotto alla manica della maglietta. Sapevo cosa ci fosse. L'ho saputo il secondo che sono entrato. Ti prego, Suga, non chiedere scusa. Ti prego, Suga, ti prego dimmi cosa c'è che non va.
– Suga? – dico, e forse lo dico solo per dirlo, perché mi ha dato un soprannome che non avrò mai modo di usare e voglio consumarlo giusto un po' prima che diventi totalmente inutile.
– Mi dica. –
– Non deve andare per forza così. Non deve finire così. –
– È già finita molti anni fa. – mi risponde.
Si sistema, mi supera, fa per tornare verso la cucina.
– Passi una buona serata e ci scusi per l'inconveniente. La prossima volta cercheremo di essere più silenziosi così da non far preoccupare i vicini. –
Tiene il biglietto da visita fra le mani.
Non lo nasconde.
Se lo nascondesse sarebbe peggio, non è vero? Se lo nascondesse sarebbe un rischio. Entrerà in quella cucina col biglietto in mano, e non nasconderà nulla, e quel biglietto scomparirà il secondo che me ne andrò.
Non è la prima volta.
Non è la prima volta che mi si presenta questa situazione ma ora è enorme l'asfissia di non avere potere di cambiare le cose, mi soffoca, mi costringe. No, Suga, no, io posso, posso, posso...
C'è un grembiule appeso all'ingresso di casa. È ordinatamente sistemato su una gruccia di metallo, appena lavato, c'è un nome scritto sulla parte di fronte.
Lo guardo.
Torno a guardare Suga.
– Lavori là? –
Annuisce.
Ancora un paio di passi, siamo quasi alla cucina, siamo quasi...
Di colpo mi tocca.
Terrorizzato dal contatto fino ad un secondo fa, sfuggente come acqua fra le mani che non riescono a raccoglierla, mi stringe le dita attorno al polso, mi trascina verso di sé, avvicina le labbra al mio orecchio.
Sa di disinfettante.
Ha lo stesso odore di mia madre.
Suga sa di disinfettante.
– Faccio il turno alla mattina tutti i giorni tranne il mercoledì. – mormora, senza capo né coda, senza un senso, in un'informazione che all'apparenza è inutile, ma prende l'aspetto, detta dalla sua voce, di un'enorme confessione, di una richiesta.
Chino il capo.
– Impari il mio numero a memoria, prima che lui la costringa a buttarlo via. – rispondo.
Accenna un sorriso.
È piccolo, un'ombra, ma pare genuino ed è bello, perché non tira, non stiracchia e non stride, è naturale, spontaneo, l'espressione più piacevole che gli abbia visto fare da quando sono entrato qui dentro.
– L'ho già imparato. –
Si stacca da me.
Torna in cucina.
Io saluto ad alta voce, mi scuso per averli infastiditi a quest'ora, mi rimetto le scarpe, mi faccio aprire la porta, esco.
Rimango nel corridoio per un quarto d'ora, fermo e immobile.
Prego il contrario, ora, per un quarto d'ora prego il contrario.
Chiedi scusa.
Piangi.
Fai rumore.
Urla.
Prega.
Rompi qualcosa, fallo incazzare, digli di no, digli che mi hai parlato all'orecchio, che mi hai toccato, digli che hai imparato il mio numero, digli di tutto, tutto quello che pensi, tutto quello che vuoi.
Costringimi a sfondare la porta e a portarti via.
Dammi l'occasione di tirartene fuori.
Non succede.
Torno all'auto di pattuglia.
Mentre rientro in centrale, piango pensando a mia madre.
La mattina dopo, la fondina e il distintivo nell'armadietto della centrale e vestito in abiti civili, entro nel bar dieci minuti dopo l'apertura. Mi sono svegliato prima del previsto, di solito quando devo lavorare il pomeriggio tendo a rotolarmi un po' nelle coperte prima di uscire per andare a correre, ma oggi mi sono alzato presto, ho fatto tutto di fretta, ho preso la metro e ho fatto cinquanta minuti di viaggio per essere dove sono ora, in quello che sembra un normalissimo caffè, a quest'ora ancora completamente vuoto, con il profumatore per ambienti che sa di cacao e una familiare chioma di capelli chiari dietro alla cassa.
Non so perché sono qui.
Non ho motivo di essere qui.
È una cosa di lavoro e il lavoro deve star fuori dalla mia vita personale perché se portassi tutto a casa non riuscirei a sopravvivere ma sono qui comunque e mi sento bene ad essere qui.
Mi sono chiesto ieri se fosse perché mi ricorda la mamma.
Mi sono chiesto se fosse perché l'ho trovato attraente.
Mi sono chiesto se fosse Daichi che fa il poliziotto a volerlo cercare o Daichi che russa un po' quando dorme e quando si sbronza fa le trecce al suo migliore amico.
Non ho trovato risposte.
Sono qui lo stesso.
Non riesco a farmene una colpa e allora non me ne faccio una e procedo senza annodarmi ulteriormente nei miei pensieri verso il bancone.
– Buongiorno. – dico, al locale vuoto, all'unica persona che c'è dentro, per cortesia, forse per attirare l'attenzione.
– Buongio... oh. – ricevo di risposta, parole completate da un'espressione forse sorpresa, forse sollevata, che si disegna in tratti delicati su un viso morbido, un po' assonnato, occhi castani grandi e dolci che si rivolgono verso di me.
Ci fissiamo dai due lati della cassa.
Lui scorre con gli occhi su di me, vestito diversamente rispetto a ieri, in un orario più consono, più accettabile, senza pistola né distintivo, non qualcuno che viene a bussarti a casa di sera, solo un cliente.
Io divoro in un attimo il suo aspetto, il grembiule annodato dietro la schiena, la targhetta lucida appuntata al petto, i jeans e la maglietta bianca sotto, la pelle chiara, diafana, che sotto la luce diretta quasi sembra traslucida, di quel colore lattiginoso della carta da lucido. Ha un'espressione meno afflitta, meno rinchiusa, qui, probabilmente perché siamo in terra neutra, in un posto dove non c'è dimostrazione di chi sia io, chi sia lui.
Mi schiarisco la voce.
– Se le dà fastidio che... – provo ad accennare, in un tentativo di non valicare i suoi confini.
– Cosa posso portarti? – m'interrompe, provocando in me genuino conforto.
Gli sorrido.
Le sue guance si scaldano.
– In realtà bevo sempre la stessa cosa e mi va di cambiare, mi fai qualcosa che piace a te? –
La sua sorpresa si scioglie un po' quando mi sente rivolgerglisi usando il "tu", come ha fatto lui.
– Sei tipo da dolci? Perché io sono un tipo da dolci e bevo qualsiasi cosa piena di zucchero, panna e cioccolato. –
– Non mi definirei il tipo ma non disdegno. Fai pure quel che preferisci. –
– Perfetto. Ti siedi qui o al tavolo? –
– Se non ti do fastidio mi siedo qui. –
Indica con lo sguardo lo sgabello di fronte alla macchinetta del caffè, recepisco l'antifona e mi siedo, incrociando le braccia sul tavolo e appoggiandoci il mento sopra. Mi guarda un attimo, ho impressione che i suoi occhi guizzino verso le mie braccia, ma lascia cadere subito la cosa e mi dà le spalle.
Osservo i suoi movimenti.
È elegante, misurato, armonico, nel modo in cui si sposta. Porta indumenti di qualche taglia più grande rispetto alla sua, probabilmente per un motivo di cui al momento non voglio ricordarmi, ma s'intravede una massa muscolare netta e asciutta, al di sotto.
– Danza? – chiedo, ad alta voce.
– Pattinaggio di figura. – risponde, senza voltarsi.
Mi mordo l'interno della bocca e annuisco fra me e me.
– Karate? – lo sento dire.
– Sì. E Judo. E Ju jitsu. –
– Poi dritto a lavorare in Polizia? –
– No, prima mi sono laureato, poi ho fatto il servizio militare. –
– Da quanto sei un poliziotto? –
– Ho finito l'accademia sei mesi fa. –
– Quanti anni hai? –
– Venticinque. –
Gira il volto, solo il volto, dalla mia parte.
– Parecchie cose fatte in così poco tempo, no? –
– Sono solo stato fortunato ad averne avuto la possibilità. –
Accenna un sorriso e torna al bicchiere che ha fra le mani.
– Che risposta umile da parte tua, Sawamura. –
– Daichi, chiamami Daichi. –
I suoi movimenti non si arrestano, ma la pelle chiarissima del suo collo mi pare prendere una venatura più rosata, intimidita, quasi.
Spremo più forte il viso contro le braccia.
– Tu, invece? Cosa fai? –
– Questo. E basta. –
– Non pattini più? –
– Mi sono infortunato quando avevo diciassette anni, l'anno che avrei dovuto partecipare alla mia prima Olimpiade. Da là non sono mai più salito sul ghiaccio. –
– È stato un brutto infortunio? –
– È stato un brutto periodo. Forse una brutta vita. Scegli tu. –
Rimango per qualche istante zitto, gli occhi fissi sulla sua schiena che si sposta sotto al tessuto.
È difficile.
Separare le due creature, quella di ieri, quella di adesso, è difficile, più di quanto credessi. Ma non ho deciso di venire qui stamattina in nome di un senso di pietà che non sono certo di avere il diritto di provare, sono venuto qui per un motivo che non comprendo, sicuramente non questo.
Se reagissi allarmandomi, reagirebbe al peggio.
Devo...
Chinare un po' la testa.
Mi atterra di fronte al viso un bicchiere di caffè che profuma più di cioccolata che di effettivo caffè, Suga prende il barattolo della cannella dal bancone, ce ne spolvera un po' sopra, allunga il cartone verso di me.
– Offre la casa. –
– Sei sicuro che... –
– Offre la casa. – ripete, e quando gli sorrido per ringraziarlo fa lo stesso, rendendomi grato al cielo di aver deciso di mordermi la lingua senza rovinare l'atmosfera, non l'avrei visto così, se avessi parlato.
Chino il bordo verso di me, mando giù cautamente un primo sorso per verificare che la temperatura non sia troppo alta, quando mi rendo conto che va bene, ne assaggio di più.
Sembra cioccolata calda al caffè.
Non qualcosa che ordinerei normalmente, però è buono.
– Ti piace? –
– Molto, grazie, Suga. –
– E di che, sono qui per questo. –
Gli sorrido mentre ne bevo ancora, lui non si scosta, non se ne va, rimane di fronte a me, appoggiato al bancone con le mani, mi guarda, non sembra voler fuggire.
Prendo fiato per parlare.
Mi precede.
– Possiamo... chiacchierare facendo finta che ieri sera non sia mai successa? Per favore. Lasciamo perdere ieri e facciamo finta che ci siamo conosciuti adesso. Ti va? –
– Non avevo intenzione di parlarti di ieri in ogni caso, ma... –
– No, intendo più tipo... posso parlare con Daichi Daichi e non Daichi poliziotto? –
Ridacchio appena.
– Sono Daichi Daichi anche adesso, non sono di turno, al momento. –
– Oh, non sei di turno? Allora come mai... vivi qui vicino? –
Scuoto la testa.
– Dall'altra parte della città. –
– Quindi perché sei qui? –
– Non chiedermelo. Non saprei cosa risponderti. Però sappi che non sono di turno, quindi Daichi Daichi a rapporto. –
– Così sembri di turno. –
– Lo sembro? –
Ride appena, ma il suono non è com'era ieri sera, stridente e tirato, è spontaneo, piacevole. Gli si forma una rete di pieghette agli angoli degli occhi, sorride con tutto il viso, non solo con le labbra.
– Un po' lo sembri, ma direi che è normale. Un po' è normale. –
– Perfetto, allora, se è normale va bene. –
Allunga un braccio verso il lato, lo vedo raggiungere con le punte delle dita una tazza di ceramica, e non di cartone, che intendo sia la sua, poi portarla alle labbra e mandare giù.
Devo ignorare il bordo violaceo che s'intravede sulla sua pelle, devo ignorare che il movimento sia frenato all'ultimo da un dolore alla spalla, devo ignorare, ignorare, perché non è invadere che mi aiuterà, ma capire, e per capire i tempi li deve dettare Suga, non io.
– Il ragazzo del mio migliore amico è stato nell'esercito, ne è tornato tutto pieno di tatuaggi. Tu ne hai fatto qualcuno? – dice poi, cambiando completamente argomento, riagganciandosi a qualcosa che ho detto prima.
Piego il capo.
– Ho un drago tradizionale sul fianco, quello che si fanno nell'aeronautica. –
– Eri nell'aeronautica? –
– No, ma in congedo mi sono sbronzato con loro e hanno deciso che ero automaticamente un loro fratello o qualcosa del genere. –
– Me lo fai vedere? –
Annuisco, mando giù un sorso di caffè, mi alzo.
Tiro su un bordo della maglietta.
Suga fissa il disegno sulla mia pelle.
Poi smette di fissare il disegno e mi fissa la pelle e basta.
– Miseria, sei un tipo sportivo tu, eh? –
Si sta chiaramente riferendo al mio addome, me ne rendo conto. Lascio cadere la maglietta e mi rimetto su sullo sgabello.
– Mia madre cercava di farmi stare fuori di casa il più possibile, mi ha fatto fare talmente tanto sport quando ero piccolo che ad un certo punto non sono più riuscito a farne a meno. –
– Brava tua madre, allora. –
– Sì, brava lei. –
– Tuo padre? Tutto fiero del suo piccolo sportivo? –
– È morto. E in ogni caso, non credo mi abbia mai prestato tanto interesse da essere anche solo lontanamente fiero di me. –
– No? –
– No. Decisamente no. –
Fa un'espressione strana, a sentire questa cosa, e la sua espressione strana mi rivela che decisamente preferivo vederlo sorridere, quindi io, questa volta, cambio argomento.
– Tu? Tatuaggi? –
– Oh, mi sarebbe piaciuto, ma al mio ragazzo non piacciono. –
M'irrigidisco.
– E allora? Li deve fare lui? –
– No, ma... beh, come dire, sarebbe un problema se poi non mi trovasse attraente, non credi? Stiamo insieme, quindi... –
– Tu? Non attraente? Per un tatuaggio? A prescindere che il corpo è tuo e ne fai quel che vuoi, ma poi, sul serio? Cos'è, cieco? –
Il suo viso diventa tutto rosso nel giro di un attimo.
Si guarda le punte dei piedi ed evita il mio sguardo, le guance bollenti, l'espressione un po' imbarazzata, un po' lusingata.
Rido piano.
– Se ne avessi l'occasione, cosa ti piacerebbe tatuarti? – provo a deviare la conversazione.
– Oh, i fiocchi di neve. Mi piacciono un sacco i fiocchi di neve. Su questo braccio, sì. –
Agita il sinistro.
– Ma forse anche su quest'altro, sai, per simmetria. –
– Ti starebbero bene, credo. Se mai dovessi volerne uno, la sorella di un amico ha uno studio vicino casa mia. Ti porto. –
– Va... va bene. Grazie. Ok. –
Il suo imbarazzo pare essersi dipanato un po'.
È meno rosso.
Sorride.
– E oltre ai tatuaggi, cosa ti piace? –
– Leggere, mi piace leggere. Non leggo un buon libro da una vita, non ho mai tempo, ma quando facevo il liceo adoravo leggere. A te piace? –
– Non lo faccio molto regolarmente, ma sì, tendenzialmente sì. Ho letto molto quando ero nell'esercito, le giornate erano lunghissime e non ci facevano guardare Netflix. –
– Cosa leggevi? –
– Principalmente gialli, mi divertono. Tu? –
– Un po' di tutto, in realtà. Narrativa e romanzi, i saggi non mi fanno impazzire, ma di qualsiasi tipo. Mi piace Mishima. –
– Mishima? –
– Sì, è elegante, è un po' strano, mi piace tanto. –
Una patina di emozione gli illumina lo sguardo, lo trovo bello, mentre parla, ma una parte di me tende a ricordarmi che parla come se non ne avesse occasione mai, come se gli fosse sconosciuto lo stesso suono della sua voce.
– Che altro ti piace? –
– La moda, adoravo la moda. Comprare un sacco di cose e metterle e scambiarmele con il mio amico. Mettevo ogni giorno una cosa diversa. –
– Adoravi? Mettevi? –
– Sì, insomma, adesso sono un po' grande, però... –
– Un po' grande in che senso? Hai ventiquattro anni. Ora è il tuo momento di metterti le cose strane che ti piacciono. –
– Ma per cosa le metterei, poi? –
– Per uscire la sera? –
– Oh, ma non esco praticamente mai. Sarebbero soldi buttati. –
– Non esci mai? –
– Col tempo sono diventato un po' pigro. La sera ceniamo e poi dritti a letto, come due vecchi. –
– Tu e il tuo ragazzo? –
– Io e il mio ragazzo. –
Cenate e poi dritti a letto, ma perché vuoi o perché devi, Suga? Perché l'hai scelto o perché qualcuno l'ha scelto per te tante volte da imprimerti a fuoco nella testa che è così che dev'essere e nient'altro?
Incastrato nell'uso nostalgico dell'imperfetto, parli di una vita che sembri aver vissuto completamente, che ti è distante, impossibile. Ventiquattro anni, e mi guardi come se ti fossi fatto una ragione dell'idea che tu, di scegliere, non hai più l'opportunità.
Calma, calma e cautela, la rabbia non risolverà nulla, farà sentire meglio te, Daichi, ma sarà controproducente in ogni lato di questa faccenda.
Non provarla, però, non mi riesce altrettanto facilmente.
– Tu sei fidanzato? –
Lascio che la mandibola mi si sciolga piano. Non mi ero reso conto di aver stretto i denti, credo sia stato un gesto istintivo.
– No. Sono uscito un paio di volte con una ragazza il mese scorso ma non avevamo nulla in comune, dopo un po' abbiamo smesso e basta. –
– Non avevate nulla in comune? –
– Sì, interessi completamente diversi, caratteri quasi agli antipodi, a me riusciva difficile capire lei e a lei capire me. Ce ne siamo resi conto, ci siamo stretti la mano e ognuno per la propria strada. –
– Ma non hai provato che so, a convincerla a vedere le cose come le vedi tu? O lei a te, insomma. Cioè, non avete... –
– Cercare di convincerla? Perché mai dovrei? –
– Perché così ti sarebbe piaciuta di più e avreste potuto continuare ad uscire insieme. –
Sbatto le palpebre.
Pazienza, tatto, delicatezza.
Le relazioni abusive sono come i culti settari, ti programmano, alterano la tua percezione, ti convincono di una normalità inesistente, ti derubano del tuo stesso senso morale imponendotene uno che viene dall'esterno.
Dieci anni, no?
È da quando era un ragazzino che vive così.
Gentilezza, garbo, sensibilità per limare i bordi delle convinzioni malate che ha, gli attacchi diretti lo costringerebbero alla difesa, devo prendere le cose poco alla volta, poco alla volta.
– Lei non ha alcun dovere di cambiare per piacermi, Suga, e nemmeno io. Si può anche non stare assieme. Si può anche decidere di lasciarsi. Essere in una relazione non significa fare di tutto per l'altro, significa starci talmente bene da decidere di condividerci una parte della propria vita. –
– Ah, tu la vedi così? –
– Sì, la vedo così. –
La vedo?
Oh, no, non è che la "vedo".
È così.
È così e basta.
– Non so, io forse sono un po' più estremo, sarà che sono sempre stato un inguaribile romantico. Farei di tutto per la persona che amo. –
– Di tutto? –
– Già, di tutto. –
Annuisco, annuisce, bevo un altro po' del mio caffè per evitare di dire qualcosa di cui mi pentirei.
Amare non è fare di tutto, è fare volentieri, Suga. Amare è star bene nei tuoi limiti, non tirartene fuori per l'altro. Amare sicuramente non è parlare al passato di una vita che ti piaceva con l'espressione in viso di chi parla di una libertà persa tanto tempo fa.
Anche mia madre diceva queste cose, lo sai?
Sette anni, avevo, seduto per terra all'angolo della cucina, le stringevo le dita, lei era a fianco a me, le sanguinava un sopracciglio, cercava di non piangere.
"Perché non ce ne andiamo via, mamma?", "perché amo tuo padre, Daichi, pagare questo prezzo non mi pesa, perché io lo amo".
Sì ma lui no, mamma.
Lui non ti ama.
Lui ama se stesso incastrato a forza dentro di te. Ama il suo riflesso sul vetro della boccia dove nuoti come un pesce rosso, dipendente dalla sua pietà per mangiare, rinchiusa in pareti trasparenti da cui può guardarti da ogni angolazione.
Tu faresti tutto per la persona che ami, Suga.
Ma lei non ti ama.
Mi trema il labbro inferiore contro il cartone del bicchiere, mando giù un grumo di tristezza, m'impongo la freddezza e il controllo, menomale che ho portato gli occhiali da sole, piangerò in metro.
– La cosa più folle che ho fatto per amore credo sia stata provare a cucinare i cioccolatini per San Valentino per un mio compagno del liceo, compagno che era, spero sia ancora, etero e che non li ha mangiati perché erano davvero orrendamente brutti. – racconto poi, sviando su un tema adiacente, forse meno provante.
– Glieli avevi dati di nascosto? –
– Sì, mi ero presentato a scuola venti minuti prima del solito per lasciarglieli. –
– E sapevi già che era etero? –
– Ah-ah, non so nemmeno perché l'ho fatto, forse speravo che il cioccolato fatto da me avesse una qualche strana forma di magia gay per convertirlo, non ne ho idea. –
Si appoggia una mano di fronte alle labbra, ride piano, sentirlo ridere scioglie qualcuno dei miei nervi. Nervi che ovviamente tornano a tendersi l'istante che parla anche lui.
– Il mio ragazzo in effetti era etero, prima che si mettesse con me. Forse ce l'ho io, la strana forma di magia gay. –
– Era etero? –
– Sì, stava con una donna, mi ha detto che non era mai stato con un maschio. –
– Come vi siete conosciuti? –
– Era il mio allenatore. È stato l'unico a starmi vicino quando mi sono infortunato. –
– Ma non ti sei infortunato a diciassette anni? Ieri mi hai detto che state insieme da quando ne avevi... –
– Ci siamo messi insieme dopo. Ci siamo conosciuti... prima. –
No, Suga.
Il tuo ragazzo non è che è diventato gay o bisessuale o pansessuale o quel che cazzo sostiene di essere adesso.
Al tuo ragazzo piacevano i ragazzini.
Non era il sesso, il punto.
Il punto era l'età.
Il punto era...
Fa spallucce.
– Ci ho provato io per primo, comunque. Sono stato io a fare la prima mossa, quindi... –
– Anche io ero cotto del mio allenatore di Judo, quando avevo quindici anni. Ma lui mi vedeva solo ed esclusivamente come quello che ero, Suga, un ragazzino. –
– Ma ti ho detto che ci siamo messi insieme quando avevo dicio... –
– Ti prego, cambiamo argomento, ti prego. Voglio essere tuo amico. Cambiamo argomento. – sputo fuori allora, perché dentro di me monta la rabbia e non riesco ad essere cauto, non riesco a fermare la lingua, non riesco a impormi la condiscendenza.
Suga spalanca gli occhi.
– È una cosa che non puoi capire. – borbotta, poi.
– Preferirei morire che capirla, Suga. – mi sorge spontaneo rispondergli.
– Daichi... –
Vedo nei suoi occhi qualcosa che prima non c'era, che ho visto ieri, però. È un misto di qualcosa che ricorda la paura, ma più ancora la vergogna, l'umiliazione. Vorrei spostarmi e sbattere violentemente la testa contro il legno, chiedergli scusa, non è così che volevo farlo sentire, ma non ho potuto non dirglielo e non ho potuto...
– Va bene, cambiamo argomento. –
Scompare.
Quella cosa scompare.
Suga indietreggia di mezzo passo, ma non scappa, non si nasconde, e io tiro un sospiro di sollievo.
Piano, Daichi.
Piano.
Lungo i bordi.
Dai lati.
Con pazienza.
Piano.
Prendo l'ultimo sorso del mio caffè.
Forse il tizio che ho arrestato la settimana scorsa non aveva tutti i torti.
Certe volte l'omicidio ti sembra proprio l'unica soluzione.
─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.──
oplà
ecco a voi un bel trauma
su un piatto d'argento
da me per voi
lol
no niente non so cosa dire solo che MI MANCAVA SCRIVERE e MI MANCAVA POSTARE LE COSE e se mi dite cosa ne pensate al solito mi fate mega felice e vi mando un bacio e HO VISTO IL FILM DI HAIKYUU KURO PASSAMI SOPRA CON LA MACCHINA e niente boh devo tornare a studiare quindi scappone
ciao cuori
un bacino :D
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