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𝗱𝗶𝗺𝗺𝗶 𝗰𝗵𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝗺𝗼𝗿𝗶𝗿𝗲𝗺𝗼 𝗺𝗮𝗶

!!! smut alert !!! (perché in questa storia si piange MA si calano anche le braghe) (mind the fact che sono NOVEMILA parole quindi godetevi queste quaranta pagine in word sisi)

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Lo guardo mentre saliamo le scale.

La sua schiena si espande e comprime col suo respiro affannoso, le cosce si piegano, la mano destra si aggrappa al corrimano, esala piccoli respiri veloci, la sua pelle scintilla di sudore, la spina dorsale s'intravede sotto la carnagione lattiginosa, ciocche d'argento che si muovono coi suoi movimenti.

Le mie mani sui suoi fianchi.

Le sue cosce attorno alla mia vita.

Ginocchia aperte sul lenzuolo, testa gettata indietro, la glottide che si alza e si abbassa, labbra sulla sua gola, sulle sue spalle, sulla forma longilinea del suo collo.

Mani fra i capelli.

Occhi lucidi.

Respiri che tremano, voce che forma parole senza senso, angoli della bocca che scintillano di saliva, ciglia che sfarfallano sullo sguardo perso, petto che si alza e abbassa forsennatamente.

Le sue dita su di me.

Unghie sulla carne, denti sulla pelle, presa che stringe le braccia, le spalle, pelle contro la pelle, guardare da vicino il suo viso.

Esondazione nella mia testa.

Guardo Kōshi da dietro che sale le scale e gli argini si riducono a briciole di legno che galleggiano nell'acqua, la mia testa si allaga, sommergendo anche il rimasuglio del mio senso di colpa.

L'arco della sua schiena, la forma morbida delle sue cosce, i nei che gli scompaiono sotto ai vestiti, scoperti, sotto la luce, dentro i miei occhi.

Mani che si aggrappano alle lenzuola, pupille che rotolano indietro, la mia testa fra le sue gambe, le mie mani fra le sue gambe, me, fra le sue gambe.

Lui che dice il mio nome, lui che lo ansima, che lo geme.

Distese di pelle bianca tinte dal segno delle mie mani.

Il suo corpo che trema.

Lui sopra di me.

Chiudo gli occhi e cerco di respirare, ma l'aria nutre i pensieri, e i pensieri richiamano la fantasia.

Giorni, settimane e mesi a chiudere dietro una porta blindata ogni reazione, ogni immaginazione, ogni idea, non posso guardarlo così, non devo, devo proteggerlo, devo curarlo, devo essere delicato. Non mi posso concedere di lasciarmi andare perché è già stato alla mercé di chi crede di poter fare quel che vuole, io devo dimostrargli che il mondo è diverso, che in questa vita per cui ha lottato può avere tutto quel che desidera.

Non riesco.

Non ce la faccio.

Non pensarci è impossibile.

Ci penso.

Mi ballano le ginocchia.

Kōshi arriva al pianerottolo, s'infila una mano nella tasca sul retro dei pantaloni, litiga con la serratura per qualche secondo, apre. Passo dietro di lui, mi chiude la porta alle spalle, con un gesto rapido accendo la luce dell'ingresso, ci sfiliamo le scarpe in un attimo, ci guardiamo negli occhi.

Il tuo "no" lo ascolterei senza ombra di dubbio, timori o meno, non sono ancora uno schifo come lui, come mio padre, sono ancora un essere umano, possiedo ancora la mia razionalità senziente da persona in grado di vivere in una società equa.

Non riuscirei a smettere di pensarci.

Con malinconia, mi trovo ad ammetterlo.

Non riuscirei.

Soccomberei.

Tenevo la mia attrazione impiccata con una spessa corda al collo, nella mia testa.

L'hai tagliata di netto, quella corda.

Non so più cosa farci.

Mi tremano le mani all'idea di toccarti.

Non resisto più.

Non posso più far finta di non volerti per mantenere con me stesso una qualche sorta di facciata.

Dici che te lo meriti, e lo penso.

Dici che lo vuoi, e ci credo.

Dici che è arrivato il momento, e mi vorrei fidare, ci provo disperatamente, davvero. Però poi guardo me stesso e non so perché vedo un mostro con le fauci spalancate che attende di affondare le zanne sulla carne fresca e ingenua di una preda che beve, vorrei fidarmi, non riesco a vedermi attendibile, sono terrorizzato, ti voglio, ma sono terrorizzato.

La scelta è tua per te e mia per me.

Cerco con tutta la forza che posso di mantenere quest'idea salda nella mia mente.

Tua per te, mia per me.

Non posso rubarti le scelte, l'hanno fatto troppe persone, troppe volte, io ho promesso di aiutarti, cercherò di farlo.

Però ho paura.

Paura che mi attanaglia lo stomaco.

Che mi blocca il respiro.

Che non restringe il sangue che mi scorre nelle vene, però, né dà un freno alla mia immaginazione.

La paura annega, in quelle acque torbide.

Ho paura di volerti, paura da morire, ma poi penso alle tue mani, alle tue gambe, al tuo corpo, alla tua voce, penso a te, te che gridi e che gemi e che mi chiami e che ti avvicini e mi chiedi e mi preghi e ho paura, sì, ma quella paura non so dove sia, me ne dimentico.

Folle, mi fai sentire folle, come se non riuscissi ad elaborare pensieri coerenti, come se avessi la testa riposta in un posto sicuro che non so come raggiungere. Metti gli occhi castani nei miei, ti avvicini a me con quel tuo profumo dolce e le labbra che luccicano e io sono un idiota, sono un cretino, penso solo a te, a quanto ti voglio, a quanto ti desidero.

Tirato e teso dagli arti, cerco di tenermi insieme, mi sento a pezzi. Parti di me chiedono e pregano per una cosa, altre impongono una freddezza misurata che ho mantenuto per anni, saldi principi e bisogni disperati, nei tuoi occhi, Kōshi, hai tanto controllo su di me che non so più chi sono.

Rimango immobile per un tempo indefinito, secondi come ore, minuti come giorni.

Lui reciproca il mio sguardo.

Parla con se stesso, qualche volta. Non me l'ha mai detto, ma glielo leggo in viso. Si ferma e reagisce con qualche istante di ritardo, il linguaggio del suo corpo muta repentinamente, pare indeciso prima, schietto l'attimo dopo, c'è una conversazione che gli si svolge dentro, credo di sapere chi sia il suo interlocutore.

I suoi occhi si rabbuiano per un attimo.

Poi tornano a scintillare.

La piega tesa delle sue labbra si scioglie in un sorriso.

Prende fiato riempiendo il petto d'aria.

Mi si avvicina.

– Daichi? Tutto bene? –

Mi mordo l'interno della bocca.

– Non lo so. –

– Hai cambiato idea? –

– No. Non ho cambiato idea. E non so come reagire a questa cosa. –

– Se sei indeciso possiamo anche lasciar stare, ci saranno tante occasioni, non voglio che tu lo faccia se non ne hai voglia, ok? –

– Non voglio lasciar stare. E ho voglia. Solo che ho tanta paura, Kōshi. –

Allunga le braccia verso di me, mi prende le mani con calma in un tentativo di vedere come rispondo al contatto. Non mi scosto, non lo allontano, lascio che allacci le dita fra le mie e che mi tiri verso di sé.

Indietreggia piano verso la porta chiusa della camera da letto.

Col cuore che martella disperatamente l'interno della mia cassa toracica lo seguo.

Le piastrelle dell'ingresso diventano parquet un po' scolorito, la luce si diffonde alle mie spalle quando gira la maniglia per farci entrare, arriva col retro delle ginocchia al materasso, lascia le mie mani, si siede, si spinge indietro per accendere l'abat-jour sul comodino.

Lo guardo in piedi in camera mia con le ginocchia che tremano.

Sto fermo dilaniato dall'istinto di saltargli addosso e quello di chinarmi e chiedergli scusa piangendo.

Lui si rimette dritto.

Allunga una mano verso la mia maglietta.

La tira verso il basso.

– Mettiti giù, Daichi. –

Piego la testa.

Tira di nuovo il tessuto.

– Giù, Daichi. –

Non elaboro completamente la richiesta ma cerco di obbedire, mi chino su un ginocchio, sull'altro, Kōshi sistema le mani sulle mie spalle, mi attira a sé, circonda il mio corpo con le gambe, infila le dita fra i miei capelli, mi gira la testa perché i miei occhi e i suoi siano gli uni sugli altri.

– Sei tanto agitato? – mi chiede, polpastrelli sulle guance, sui tratti del mio volto.

Annuisco.

– Hai paura di farmi male? –

Dal basso i suoi occhi assumono un aspetto diverso, più controllato, più adulto. Mi guarda fra le ciglia color della neve con un'intenzione diversa, più affettuosa, più forte, regge su una stabilità che io al momento non ho, che lui ha per me.

Annuisco di nuovo.

– Hai paura che io stia di nuovo uno schifo dopo? –

Annuisco la terza volta.

Mi sorride, passa le nocche delicatamente su uno dei miei zigomi.

– Allora ti spiego cos'è che vorrei che tu facessi o non facessi per evitare che io abbia qualche problema, ok? E poi lo fai tu. –

Rimango fermo qualche istante.

Chino lo sguardo.

Mormoro un "ok" quasi impercettibile.

– Te l'ho già detto la prima volta che sono stato qui, ma te lo ridico, così siamo sicuri. Voglio che mi guardi negli occhi. Voglio che dici il mio nome. Voglio poterti toccare e voglio poterti baciare. Va bene se mi mordi, ma non troppo forte e non dove si vede tanto. Va bene se mi tiri i capelli ma senza farmi troppo male. Non voglio che mi giri di spalle. Non voglio che mi schiacci la faccia contro il letto o che mi copri il viso. Non voglio essere colpito da nessuna parte. Dopo devi rimanere con me a letto almeno mezz'ora e non voglio che tu te ne vada, non dico che devi adorarmi ma non trattarmi male, se devi vergognarti di quello che hai fatto dopo averlo fatto, non farlo proprio. –

Ognuna delle sue parole è una stilettata fra le costole. Apre bocca e articola parole, spiega in modo chiaro, esaustivo le sue necessità, ma il percorso mentale è fin troppo semplice, fin troppo breve. "Non colpirmi", "non vergognarti", "non coprirmi il viso", "non andartene", "non trattarmi male", sono richieste e ammissioni di violenza subita, mentre lo dici, so cos'hai passato.

Fa male.

Inaspettatamente, però, mette anche saldi paletti attorno a te.

– La mattina e la sera faccio ancora quasi sempre un po' di stretching quindi dovrei anche essere abbastanza flessibile, certo non come quando pattinavo, ma non male. Però se mi devi piegare in modi strani vacci piano, è possibile che ce la faccia ma non voglio che ti rimanga una gamba in mano. – aggiunge poi, sorridendo, forse per allentare un po' la tensione.

I bordi delle mie labbra si sollevano, appoggio la guancia contro la sua mano aperta, strofino piano il mio viso su di lui.

L'aria nel mio petto entra ed esce.

Non smette di far male, continua a pugnalarmi, quello che hai vissuto.

Ma della tua figura sfocata ora vedo i bordi.

Vedo quel che sei stato e quello che sei, quel che hai subito e quello che vuoi, dove devo sfiorare e dove posso stringere le dita.

Continua a fare paura.

Ma mette armonia alle due parti di me che si sincronizzano con le due parti di te.

– A me non piacciono le mani al collo o essere ristretto fisicamente. Va bene se mi graffi, se ti aggrappi, ma non cercare di bloccarmi i movimenti, mi mette a disagio, e non stringermi la gola, mi prende il panico. Puoi colpirmi, non è un problema, ma ti avverto che nella maggior parte dei casi ti farai più male tu di me, quindi fai attenzione. Ho bisogno che ci sia molta comunicazione e ho bisogno che sia costante, mi devi dire come stai, se qualcosa ti piace, se qualcosa non ti piace, se senti che stiamo raggiungendo un limite o se devo continuare a fare quello che stavamo facendo. Se senti di non poter più riuscire a dirmi quello di cui hai bisogno me lo devi dire subito, possiamo prenderci una pausa e riprendere, o andare a farci una doccia e dormire, ma se non mi parli, io non vado avanti. –

Sbatte le palpebre mentre assorbe il suono della mia voce.

Ascolta ogni parola con calma, annuisce, ci ragiona su un secondo.

– Ok. Ok, va bene. –

– Ci serve una safeword, Kōshi. –

– Una safeword? Hai intenzione di fare cose stra... –

– No, no, niente cose strane. Magari più avanti, magari ci pensiamo poi, ora no. Ci serve lo stesso, però. Abbiamo entrambi bisogno di... essere il più possibile sicuri che ci sia consenso in ogni parte, ecco. –

Sorride, fa "sì" con la testa.

– Possiamo usare i colori, se ti va, è la cosa più facile che mi viene in mente. "Giallo" se stiamo sfiorando un limite e "rosso" se vuoi smettere immediatamente. – continuo.

– Ok, ho capito. –

– Per quanto riguarda le precauzioni io ho fatto il test un mese fa, io e Asahi andiamo tutti i mesi per non dimenticarcelo, ma se tu... –

M'interrompe arruffandomi i capelli.

– Mi hanno fatto un check-up completo all'ospedale. Non ho nulla. –

– Oh, ok. Me n'ero dimenticato. –

Ci guardiamo di nuovo negli occhi, usa entrambe le mani per tenermi il viso, si china piano.

– Stai un po' meglio? –

– Sì, sto... meglio. Grazie. –

– Sei più a tuo agio? –

– Lo sono, sì. –

Spingo il collo in alto e lui abbassa il capo, le nostre labbra si sfiorano, sorride contro il mio viso.

– Ci lasciamo un po' andare? –

Reciproco il gesto, i bordi delle mie labbra si sollevano coi suoi.

– Ok, ok. Va bene. Va... –

Sommerge la bocca con la mia.

Mi mozza il fiato.

Ogni limitazione dentro di me si sbriciola, si polverizza e riprende forma, rigidamente contenuto ai bordi, libero nel centro.

Qui dentro è solo Kōshi.

Non la vittima, non il ragazzino quattordicenne stretto fra le grinfie del mostro, non quel collo chiaro striato di viola, Kōshi e basta, quello che beve il tè la mattina coi capelli che vanno da tutte le parti, guarda le sit-com mangiando le patatine sul divano e mi mette il cacao zuccherato nel caffè.

Qui dentro sono solo Daichi.

Non il poliziotto, non il figlio di una famiglia disfunzionale, non il bambino che si mette le mani sulle orecchie e prega di scomparire per non dover mai più sentire la sua mamma che piange, Daichi e basta, che si toglie la maglietta per sentirsi dire che è bello, che si fa la maschera all'argilla perché fa bene alla pelle, che crede che lo yogurt proteico sia meglio di quello normale ma poi ci infila dentro due cucchiai di miele e le gocce di cioccolato.

Noi, dentro i nostri bordi, e nulla di più.

Fuori ci penseremo un altro momento, a cosa c'è.

Ora va bene se stiamo al sicuro.

Questo è bello, è intimo, è qualcosa che fai per divertirti, per stare bene, per condividere e per prenderti cura dell'altro.

Non è un'arma.

Potrebbe esserlo nelle mani di qualcun altro, ma non lo è nelle mie e non lo è nelle sue.

Abbiamo tutto il diritto di stare bene.

Abbiamo tutto il diritto di...

Mi tiro su verso il letto, Kōshi mi avvolge il collo con le braccia, cerco appoggio sul materasso ma mi trascina verso di sé, atterro con un gomito al lato del suo viso, una mano immersa fra i suoi capelli, le sue labbra che ancora vagano sulle mie.

Per qualche istante sento solo il rumore del mio cuore che batte, il sangue che scorre sommerge la percezione che ho dell'esterno, mesi di occhiate soppresse e desideri ingabbiati tornano in superficie, il mio corpo brucia, mi pizzicano le punte delle dita.

Si stacca per prendere fiato, apro gli occhi per specchiarmi nei suoi, ho il fiato corto, il corpo premuto contro il suo.

Mi perdo a guardarlo.

Non fisso il suo volto per cercare i segni del suo disagio, non cerco lacrime o ferite di cui prendermi cura, non studio per sapere cosa pensa, cosa gli passa per la testa, guardo per guardare, per apprezzare e per volere.

Ha gli occhi lucidi, le ciglia folte, chiare, che circondano lo sguardo diretto verso di me, le labbra sono umide, semi-aperte, la carnagione lattiginosa si tinge di un colore rosato sulle guance, giù, verso il collo. Apre le cosce e le stringe attorno alla mia vita, sento i polpacci che mi premono contro di sé, c'è frizione fra di noi, io m'incido il labbro inferiore coi denti, Kōshi lascia cadere indietro la testa, esala un ansimo che sembra un gemito.

Inarca la schiena contro di me, si muove facendo aderire il suo corpo al mio, il verso successivo è un gemito vero e proprio, ascolto il suono col sangue che ribolle nelle vene.

Meraviglioso, Kōshi.

Di più.

Voglio vedere di più.

Fammi vedere di più.

Stampo le labbra sulle sue, mi sistemo sul materasso e affondo le ginocchia ai lati dei suoi fianchi, afferro il suo corpo dalla vita, cercando di non essere troppo aggressivo ma privo del mio controllo di ferro lo faccio salire sul materasso, stringo le dita sull'orlo della sua maglietta.

– Posso? –

– Ti prego. –

Si solleva per aiutarmi, sfilo il tessuto dal suo corpo, lo lancio alle mie spalle.

Getto le mani sulla sua cintura prima di perdermi a guardarlo, non so se riuscirei a mantenere la concentrazione e voglio guardarlo tutto, tutto intero, mi brucia il sangue nelle vene, all'idea di poter vedere ogni angolo del suo corpo.

Mi mordo l'interno della bocca mentre incastro le dita sul bottone dei pantaloni, prima di slacciarlo cerco i suoi occhi, annuisce, non mi fermo. Tento di non rompere la zip, la tiro giù sperando di non averla scucita, Kōshi solleva il bacino, mi dà una mano a sfilargli di dosso i pantaloni, anche quelli finiscono senza cerimonie sul pavimento.

Mi sistemo bene sulle ginocchia che affondano sul materasso.

Guardo come se le mie ciglia fossero zanne, mangio, più che osservare, divoro fino a riempirmi lo stomaco, sono mesi che nascondo sotto al dolore i crampi della fame, ma adesso non riesco a sentire altro, non riesco a volere altro.

– Sei bellissimo. – dico, l'esatto secondo che lo penso.

Kōshi arrossisce.

Non stacco gli occhi da lui.

La forma del suo corpo è longilinea ed asciutta, la pelle è liscia, morbida, chiara come porcellana tinta da piccoli nei che costellano la sua carne, la pancia è piatta, le costole s'intravedono nel movimento affannoso del suo respiro, la vita si stringe, i fianchi si ammorbidiscono, le cosce sono sottili ma morbide anche solo a guardarle, il rossore del suo imbarazzo tinge la tela bianca del suo corpo di un colore che ricorda quello del quarzo.

Guardo i bordi, le parti, gli angoli e i dettagli, mi nutro di ogni movimento, ogni centimetro, non c'è particolare di lui che non voglia vedere, che non mi piaccia quando lo vedo.

– Sei bellissimo, Kōshi. Sei la cosa più bella che io abbia mai visto. –

– Ti piaccio? –

– Mi togli il fiato. –

China lo sguardo, le sue ginocchia si sollevano, si chiudono e si piegano di lato, non si sposta ma pare rinchiudersi appena, sotto il mio sguardo è intimidito, però non sembra a disagio.

Incastra le dita sull'orlo delle mutande.

Infila i polpastrelli a contatto con la pelle.

Si morde l'interno della bocca, il suo viso è scuro, sembra scottare, lascia che il tessuto scivoli via dai suoi fianchi, attraverso le ginocchia, l'elastico oltrepassa le caviglie, non seguo il movimento del suo polso quando getta l'indumento a terra, rimango fisso sulle pieghe della sua pelle, le curve del suo corpo, è carne che sembra crema, la sua, liscia, soda, dolce.

Nasconde lo sguardo al mio, mentre cerco d'imprimermi nella memoria l'aspetto del suo corpo nudo.

Arrossisce e tiene gli occhi bassi, si offre alle mie pupille nascondendomi le sue.

Prende fiato un paio di volte, prima di parlare.

Ha la voce sottile, ariosa, quando articola le parole, però c'è decisione nel suo tono, non sta vacillando.

– Io ti eccito, Daichi? –

Reciproca l'occhiata che gli lancio.

Regge il contatto visivo.

Annuisco.

– Sì, Kōshi. Sì. –

– Davvero? –

Annuisco di nuovo.

– Sì. –

Alza un braccio, appoggia la mano aperta su una delle mie cosce.

– Posso... sentire? –

Le sue dita scivolano sul tessuto dei miei pantaloni, risalgono dal ginocchio fino al fianco, si fermano prima di inerpicarsi verso la cintura.

Deglutisco la saliva.

– Sì. – ripeto, ancora una volta.

Stringo le dita attorno al suo polso, guido piano la sua mano più in alto, contro il mio corpo, il contatto è deciso, quando finalmente si appoggia sopra di me, non c'è traccia di timidezza.

Serro la mandibola.

La frizione è straziante.

Kōshi perde indecisione ogni attimo che passa, se all'inizio sfiorava ora tocca facendo pressione col polso, mi guarda negli occhi con le ciglia spalancate, si lecca le labbra con intenzione.

– Per me, Daichi? –

– Per te. –

Sorride.

– Miseria, sei proprio cotto, tu, eh? –

– Cottissimo. –

Preme un po', non reprimo il verso che mi risuona in gola.

– Non ce la fai più, vero? –

– No, Kōshi, non ce la faccio più. –

– Vuoi toglierti i vestiti e saltarmi addosso? –

– Sì. –

– Vuoi mettermi le mani addosso, Daichi? –

– Sì, Kōshi, sì, sì. –

Sale piano con la mano, i polpastrelli si muovono spingendo il tessuto verso la mia pelle, la mia voce esce da sola, non posso farci nulla, mi tiene al guinzaglio, quest'uomo, per quanto sembri insicuro, so che lo sa.

– Vuoi farmi urlare così forte da far lamentare tutti i vicini? –

Annuisco ansimando.

– Vuoi scoparmi, Daichi? –

– Sì, Kōshi, sì. –

– Vuoi farmi venire dicendo il tuo nome? –

La frizione del suo polso su di me è tale che mi scappano le parole di bocca, mi ritrovo con le labbra separate a cercare l'aria nei polmoni svuotati, l'impazienza mi stritola come una catena, quella catena, ce l'ha lui fra le dita.

– Come si dice? – chiede, poi, il viso ancora arrossato ma gli occhi dritti sui miei, in quel taglio affilato e minaccioso che assumono quando è tanto a suo agio da permettersi di volere qualsiasi cosa gli passi per la mente.

Il suono che esce dalla mia gola è quello di un lamento straziato.

Mi torturi, Kōshi, mi torturi e fai di me un burattino che obbedisce ad ogni tua singola parola, la disperazione che provo nel volerti è lancinante e meravigliosa.

– Per favore. Per favore, per favore, ti prego, Kōshi, Dio, ti prego, Kōshi, Kōshi, cazzo, Kōshi, ti... –

Allontana la mano da me.

L'appoggia di nuovo sulla mia coscia.

Tamburella le unghie sul tessuto dei pantaloni.

– Togliti la maglietta. –

Me la strappo di dosso come se la sua esistenza comportasse un'offesa imperdonabile nei miei e nei suoi confronti.

– Avvicinati. –

Salgo sul materasso verso di lui sistemando le ginocchia più in su, accanto alla curva stretta della sua vita.

Con movimenti lenti, misurati, aggancia la mia cintura con i polpastrelli, la sgancia, la sfila dagli occhielli e la butta per terra, dolorosamente lenti i secondi che si prende per slacciare il bottone e tirare giù la zip, mi guarda, sorride, mi ordina di togliermi i pantaloni.

Mi alzo per sfilarmeli in quello che sembra un nanosecondo.

Mi guarda mezzo steso e ride fra sé e sé.

– Sembra che il tuo grande cuore non sia la tua unica dote, Daichi. – scherza, quando finalmente riesco a togliermi tutti i vestiti e a liberare un po' della pressione che mi sentivo sul corpo.

Rimetto un ginocchio sul materasso.

– Credi che io abbia un grande cuore? –

– Oh, sì, un grande cuore. Anche dei grandi bicipiti. E dei grandi addominali. A quanto pare anche un grande... – indica la parte del mio corpo a cui si riferisce con lo sguardo, a vederlo così disinibito mi viene da ridere, si accoda a me, è divertente, mi fa sentire come se tutto questo fosse molto più leggero di quanto non sia.

Torna con gli occhi sui miei.

Allunga una mano per appoggiarmela sul petto, si aggrappa alla spalla, mi tira verso di sé.

– Da vestito sei bello ma da nudo sei proprio un'opera d'arte, Daichi. – scherza, le unghie che si muovono piano sul retro del mio collo, le ginocchia aperte per permettermi di stendermi contro di lui.

– Mi vuoi solo per il mio corpo. – rispondo, prima di premere le labbra sulla sua guancia.

– Puoi biasimarmi? È un gran bel corpo. –

Sposta una delle mani oltre il mio braccio, sento le dita muoversi sulla mia schiena, tastano e toccano, scendono verso l'addome, si artigliano ad una gamba.

– Anche le tue cosce mi piacciono un sacco, Daichi. –

– Mmh, sì? –

– Sì, voglio sedermici sopra. –

– Vuoi stare su? –

Bacio una delle sue tempie, lo zigomo, l'angolo delle labbra.

– Per favore. –

Sorrido alla sua richiesta e mi sposto per accontentarla, lo stringo dalla vita, lo tiro su, mi siedo sul materasso e lo aiuto a sistemare le gambe sopra le mie, il contrasto è netto, il suo corpo è più affusolato del mio, ha ragione, quando dice che il diametro di una delle sue cosce è quello di una delle mie braccia.

Kōshi si sistema meglio, pelle bianca contro il tono più abbronzato della mia carnagione, usa una mano per togliersi i capelli dal viso, così mezzo seduto sopra di me con le ginocchia divaricate, il corpo teso, il viso arrossato ad un centimetro dal mio, credo di non avere abbastanza sangue al cervello neppure per pensare.

Stringo la sua vita con le mani.

Lo trascino sopra di me.

Cerco le sue labbra con le mie.

Piega la testa e mi stringe con le braccia, le mie dita scendono verso la parte bassa della sua schiena, la sua lingua e la mia s'intrecciano e il suo respiro si mescola col mio, mi batte forte il cuore nel petto, lascio scivolare i palmi aperti e stringo, Dio, i miei venticinque anni mi sembrano quindici, mi sale su un mezzo gemito a toccargli il culo senza vestiti di mezzo.

Kōshi si stacca, mi vede con l'interno della guancia fra i denti che sorrido come un cretino, mi bacia la punta del naso, si diverte quando mi parla e mi prende in giro.

– Le piace quel che tocca, agente? –

– Uccidimi ora e morirò contento. –

Solleva i bordi delle labbra e schiaffa una mano aperta sul mio addome.

– Credo di conoscere la sensazione. –

Sfiora le labbra con le mie, indietreggia un attimo dopo e il mio viso lo insegue, ride piano, vedermi così reattivo nei suoi confronti credo gli piaccia, non saprei come altro essere in ogni caso.

Si china su di me piano piano, l'ombra del suo viso che lambisce appena la mia.

– Prendi il lubrificante, Daichi. – mi ordina, ma ho talmente poca aria al cervello che rimango inebetito a guardargli la bocca, a toccarlo, a godermi la sensazione estatica di essere qui con lui che non lo sento.

Sollevare il mio sguardo verso i suoi occhi è una fatica quasi insostenibile.

– Cosa? –

– Ho detto che devi prendere il lubrificante. –

– Sì, un secondo e... –

– Ora o ti vieto di toccarmi il culo per i prossimi... dieci giorni. –

Quindici anni, sì, quindici esatti.

Mi butto verso il comodino come se là dentro ci fosse la soluzione a tutti i mali del mondo. Mi piego e apro il cassetto, Kōshi viene un po' sballottato dai miei movimenti ma si aggrappa al materasso per rimanere fermo sopra le mie cosce, mi guarda buttare fuori cose a caso e gettarle sul pavimento nella mia ricerca ridendo.

Trovo il flacone a metà in un angolo imboscato fra una manciata di fogli che non ho idea di cosa siano e un paio di oggetti che non credo sia il momento di mostrare al ragazzo che è qui con me, lo stringo fra le mani e lo butto sul lenzuolo, torno su di fretta, mi sento un cane mandato a raccogliere un bastoncino, quando gli rivolgo un sorriso soddisfatto e mi rendo conto che vorrei che mi dicesse "bravo".

Non me lo dice, ma il sorriso che fa è all'incirca la stessa cosa.

– Sei un cretino. – borbotta ridendo.

– Nossignore, sono solo molto affidabile e molto obbediente. –

– Sì, sei proprio un cretino. –

Mi pizzica un braccio ma quando mi sporgo per baciarlo ricambia, si sistema su sopra di me, la sua pancia e la mia si avvicinano, il contatto fa tremare entrambi.

Ci guardiamo un istante.

Lui annuisce.

Io annuisco.

Torniamo dov'eravamo prima.

Stringo forte le mani sulla sua vita mentre lui sporge un braccio per prendere il lubrificante, fa per aprirlo ma lo fermo appoggiando le labbra sul suo zigomo, il lato del capo sulla sua spalla subito dopo, il suo collo è il punto dove il suo odore è più forte, mi ci vuole un certa dose di forza di volontà per non mescolare le parole fra loro.

– Vuoi fare tu? – chiedo, cercando di non rivelare alcuna emozione nei confronti delle sue scelte, per non condizionarlo.

Mi accarezza la testa fra i capelli.

– Perché, non è così che si fa? –

– Oddio, qualche volta sì, qualche volta no, dipende dalle tue preferenze. Se preferisci fare da solo non c'è... –

– Lo faresti per me? Davvero? Cioè tu... –

Una stilettata mi infilza fra le costole, è un dolore netto e secco quello che provo a sentirlo reagire così, ma lo lascio defluire. Mi concentro nel percepirlo per qualche secondo, lo prendo esattamente come arriva, ma poi lo spingo fuori dallo spazio mentale in cui siamo, non è il momento, non è il posto, noi siamo qui per stare bene assieme, non posso lasciare che quel che io penso sia rispetto del suo dolore diventi un'ossessione dove comunque lui non ha libertà di scelta.

– Siamo qui insieme, Kōshi, a fare questo insieme. Se avessi problemi a toccare il tuo corpo o a farti stare bene non mi sarei messo in questa situazione. Se il motivo per cui ti piace qualcosa è che sono io a farla, per me è solo meglio, capisci? –

Prende un fiato rapido, veloce.

– Ma non sono io che devo essere preparato perché poi tu possa... –

– Tu non devi proprio un cazzo, Kōshi. Non è che "devi" perché io poi non abbia problemi dopo. Questo non lo facciamo per me. Lo facciamo perché così tu non ti fai male e puoi goderti il tutto senza dover sopportare nulla. Siamo in due, qui. Dobbiamo starci bene in due. –

Ferma le dita fra le mie ciocche scure, spinge il mio viso verso di sé, mi bacia piano le labbra.

– In due, ok, capito. –

– Perfetto. –

Appoggia il lubrificante sulla mia mano aperta.

– È un po' che non... hai capito cosa intendo. – mi avverte.

– Ok, sto attento. –

– Grazie. –

– Non ringraziarmi. –

Mi bacia di nuovo, poi si solleva sulle cosce, aderisce col petto al mio, china il capo su una delle mie spalle, inarca la schiena. Io sfilo le braccia dall'incastro dei nostri corpi, gli bacio una tempia, ascolto il suo respiro farsi sempre più tranquillo accanto a me.

– Se qualcosa non va me lo dici subito, ok? Ti ricordi la safeword? –

– Sì, me la ricordo. –

– Bene. –

Spremo un po' del liquido gelatinoso sulle mie dita, lo scaldo fra i polpastrelli, mollo il flacone sul lenzuolo, mi avvicino al suo corpo.

– Pronto? –

Annuisce.

Trattiene il respiro.

Il suo corpo è... rigido, all'inizio. Accoglie la mia mano con un po' di resistenza, la timidezza irrigidisce i muscoli, quindi vado con calma, pazientemente, stampo le labbra sul suo viso accanto al mio, lascio che il palmo della mano entri a contatto con la sua pelle un centimetro alla volta. Kōshi non mostra segni di fastidio, ricomincia a lasciar fluire l'aria nei suoi polmoni con calma, lentamente si rilassa, quando gli chiedo se vada tutto bene, muove il capo su e giù contro l'interno del mio collo.

Mi muovo con delicatezza.

Fuori e dentro da lui, aprendo appena le dita per testare la tensione, sento la rigidità sciogliersi un secondo alla volta, cerco di interpretare il suo corpo, incastro il volto di lato per tenere le labbra sulla sua guancia.

– Com'è? Fa male? –

– No, non fa male. È un po' strano che lo faccia qualcun altro, ma... –

– Ti dà fastidio? –

– No, mi piace. Se lo fai tu mi piace. –

Sorrido contro di lui, lo bacio piano.

– Posso andare un po' più veloce? Te la senti? –

– Ok, sì, va bene. –

– Mmh, bravo ragazzo. –

Arrossisce fino alla nuca ma non fa tanto in tempo a rispondere.

Sistemo la mano, infilo le dita fino in fondo, piego i polpastrelli appena appena, c'è qualche istante d'incertezza, poi l'anatomia non mi tradisce e gli occhi di Kōshi si spalancano.

Apre le labbra per dire qualcosa, ma esce solo un mugugno simile ad un gemito.

Le pupille gli si dilatano.

Il ritmo diventa più serrato.

Dentro, fuori, fino a quel punto che ho impressione di se stesso non conoscesse poi così bene, non chiude la bocca, non distoglie lo sguardo, il suo respiro affanna e io lo fisso in ogni grado della sua soddisfazione.

– Oh, merda, Daichi! –

Gli sorrido.

Bacio un angolo delle sue labbra.

Muovo le dita con più decisione dentro di lui.

– Daichi, cazzo, Daichi, cosa... –

– Ti piace, Kōshi? –

– Sì, Daichi, sì, ma... –

Ansima contro il mio collo.

I suoi fianchi tremano, poi si muovono verso di me, io avvicino la mano a lui, lui si spinge contro di me, chiama il mio nome appoggiato alla mia spalla, le sue unghie mi si conficcano nelle braccia.

Lo guardo con le ginocchia deboli che segue il mio ritmo, lo ascolto chiamare il mio nome.

Il sangue nelle mie vene è di fuoco.

Kōshi geme ancora, geme più forte, il suono è stretto, a tratti lamentoso, nasconde una soddisfazione chiara e palese, è la sua voce, la sua, e questa cosa impedisce al mio cuore di battere regolarmente.

Le sue cosce si tendono.

Il suo corpo arrossisce.

Cerca le labbra con le mie.

Lo bacio e mi geme addosso.

Tiro fuori la mano, riprendo il lubrificante, ne spremo un altro po', le dita diventano tre.

All'inizio Kōshi ansima un verso più alto di quelli di prima, poi dalla sua gola esce un mugugno sottile, più lungo, le sue spalle s'irrigidiscono, poi si sciolgono contro di me.

Mi godo il momento, il suo viso, il suo corpo, l'intimità, la sensazione di sentirmi completamente scoperto di fronte a lui, completamente vulnerabile, la libertà di poter toccare il suo corpo perché lui vuole che lo faccia, la vicinanza che questo lega fra noi.

Poi lui si sposta.

La sua mano lascia il mio braccio.

Mi accarezza il viso.

S'infila fra noi.

L'altra mano la segue.

Stringe le dita contemporaneamente su di sé e su di me.

A lui si lucidano gli occhi, diventano vitrei, umidi, i miei muscoli invece reagiscono irrigidendosi, mi mordo l'interno della bocca, dalla mia gola esce un verso basso, gutturale.

– Va bene? – mi chiede.

– Ti prego. – gli rispondo.

Muove le mani.

Io continuo a lasciare che le mie dita ammorbidiscano il suo corpo.

Per qualche istante non esiste nient'altro che quello che stiamo facendo, i pensieri vengono spazzati via dalla sensazione di piacere e di impazienza, cammino faticando sulla stretta convinzione di volermi prendere cura di lui, sono così eccitato che ogni suo movimento, ogni suo contatto è un attentato alla mia concentrazione.

Inizio a chiamarlo anch'io.

Io piego le mie dita e lui dice "Daichi" ma lui muove le mani e io dico "Kōshi" e miseria non mi ero reso conto di avere così bisogno di essere toccato ma Dio quanto ne ho bisogno e ho bisogno della sua pelle chiara sulla mia e della sua voce che dice il mio nome e dell'aria che inspira, quella che espira, degli ansimi, dell'affanno, del corpo che trema e s'inarca ed è così bello e voglio nascondermi dentro di lui, entrare così a fondo da non avere più paura di perderlo, da non ricordarmi più cosa significa stare senza, da smettere con il terrore viscerale di non poter comandare al mondo di farlo stare al sicuro.

Kōshi si morde forte il labbro inferiore, da una parte china il bacino sulla mia mano, dall'altra segue i suoi movimenti, movimenti che diventano più rapidi, più irregolari.

Io mi ritrovo a respirare con la fronte contro la sua, i fianchi che pregano di muoversi verso l'alto, verso le sue dita.

La mia mano arriva fino in fondo.

Tocco il punto che gli fa spalancare gli occhi.

Il contatto fra me e lui assieme si stringe.

Kōshi si morde il labbro inferiore.

I suoi occhi fissi sui miei perdono controllo e salgono appena.

La sua voce compone un surrogato del mio nome.

Il suo corpo si tende.

Le sopracciglia s'inarcano.

Il fiato s'interrompe.

Lo fisso.

Non resisto.

Stringo i denti.

Lo seguo.

Il suo orgasmo, forse il mio, mi bagna la pancia, il mio corpo rimane solido ma le articolazioni si sciolgono, Kōshi si accascia contro di me, la sua fronte mi atterra sulla spalla, la schiena fra le mani, esco dal suo corpo, lui apre le dita, petto contro petto riprendiamo fiato per un momento che non saprei definire, se qualche secondo, qualche minuto, qualche ora.

Il rumore del mio cuore che batte si fa sempre meno assordante, inizio a sentire il mio respiro, il suo, la goccia della sua voce che gli tinge il fiato in un affannarsi sfinito, soddisfatto, il mio corpo riprende vita, così il suo, risale lentamente il mio petto con le mani, le unghie trovano appoggio nella mia pelle.

– Non abbiamo finito, vero? – è la prima cosa che mi chiede, quando riesce a comporre delle parole articolate.

– Vuoi finirla qui? –

– No, Dio, no. –

– Allora non abbiamo finito. – ribatto, palmi sulla sua schiena nuda, qualcosa dentro di me reagisce al suo corpo in un modo quasi infantile, quasi capriccioso, è come se dovessi toccarlo tutto il più presto possibile, come se mi potesse scappar via fra le dita.

– Quindi anche se tu sei... ecco, anche se tu... non finiamo qui? –

– Kōshi, sono un venticinquenne in salute nudo con la sua cotta, se tu credi che venire una volta mi basti ti stai illudendo. –

– Non ti basta? –

– Oh, no che non mi basta. Non mi basterà per un bel po'. Il mio talento più grande è sempre stato la resistenza. –

Ride una risata sfiatata, il suo corpo trema mentre cerca di muoverlo, dopo qualche tentativo riesce a spostarsi senza cedere, si tira su da me per mettersi dritto, per guardarmi negli occhi.

Mi chino, lo bacio e gli sorrido.

– E comunque a quest'ora dovresti sapere che sono un gentiluomo, Kōshi, e che non ti lascerei mai andare a dormire insoddisfatto. – scherzo, meritandomi di nuovo il rumore della sua risata.

– Oh sì, proprio un gentiluomo. –

Mi strizza le guance con una mano, sposta il mio viso a destra e a sinistra di fronte al suo, seguendomi con lo sguardo.

– Perché qui il fatto è tu che sei un gentiluomo e non tu che vuoi continuare a tenermi le mani addosso per tutta la sera, ci crediamo tutti. –

– Due al prezzo di uno...? – tento.

– Scemo. –

– Sì, probabilmente sì. Colpa tua, comunque. Prima di te ero molto più brillante. –

– Cos'è cambiato, eh? –

– Meno sangue al cervello per ragionare. –

Si avvicina per baciarmi.

– Scemo, scemo, scemo. – borbotta, ma lo fa ridendo, non per offendermi, per prendermi in giro.

Lascia andare il mio viso.

Lo bacio più profondamente.

Stretti assieme con la pelle nuda e sudata mi sembra di non essergli mai stato così vicino.

Questo mi fa ribollire il sangue nelle vene, mi eccita, la sua carne contro la mia, il suo corpo nelle mie mani, la sua voce nelle mie orecchie, nella mia bocca, piegata a dire il mio nome, però non è solo questo, è anche altro, è anche quella sensazione di intimità estrema che cancella l'idea della solitudine, è anche la confidenza senza limiti di offrirsi all'altro, io e Kōshi ci siamo scambiati le nostre ferite più volte, non mi ero mai reso conto così chiaramente di quanto volessi scambiare anche la parte positiva, quella divertente.

Gli sono grato per aver preso questa cosa di petto con me, per aver non insistito ma perseverato nel farmi capire quanto ci fosse necessario.

Mi stavo fossilizzando nel nostro status di persone che stanno male, credo.

Mi stavo dimenticando che stare male in un momento non preclude star bene in un altro.

Stavo adattandomi nella mia nicchia di dolore al punto che percepivo faticoso lasciare quella condizione, faticoso ricordarmi che sono una persona prima di una vittima, che in quanto persona, posso provare tante cose diverse.

Grazie, Kōshi.

Grazie.

Ti sono...

La sua mano scende sul mio addome, le unghie corte tracciano solchi che fanno il solletico, è lento ma deciso, mi stringe le dita attorno in un attimo, mi stacco per mugugnare qualcosa che non sono sicuro sia una parola articolata.

– Ottimo tempo di ripresa, agente, la allenano per questo? –

Provo a rispondere ma sposta il polso in su e in giù, mi muore la voce in gola.

– Notevole, sì, davvero notevole. –

Ride piano e guarda fra i nostri corpi, mi sento esposto sotto il suo sguardo, ma non m'imbarazzo. Più della sicurezza nei confronti del mio aspetto, ad un certo punto mi si è consolidata nella testa l'idea che gli piaccio, e fargli vedere qualcosa che gli piace mi soddisfa, mi rende fiero di me stesso.

– Ti va se sto sotto, Daichi? –

Ferma la mano.

Nascondo un lamento fra le labbra.

Prendo fiato a pieni polmoni.

– Gambe molli? –

– Un po'. Ho deciso che tutti questi muscoli non ti servono a niente se non fai almeno un po' di fatica per me. –

Lascia andare il mio corpo e indietreggia con le gambe, tira in avanti le ginocchia, stira i polpacci di fronte a sé, mi batte una mano sulla coscia un paio di volte.

– Vieni qui, su. –

Si lascia cadere indietro con le spalle fra le lenzuola.

Lo seguo.

Avvolge la mia vita con le gambe, il collo con le braccia, mi guarda dal basso con quegli occhi grandi e castani che sono stati per me un guinzaglio emotivo dal primo secondo che mi ci sono visto dentro, ogni intenzione che passa là dentro, ogni stato d'animo, immediatamente si ripercuote su quel che provo io.

Trattengo il fiato.

Lo guardo.

Bacio la punta del suo naso e mi lascio stringere fermo qualche istante.

Vorrei poter rimanere così per sempre, col suo corpo chiaro e nudo schiacciato sotto al mio, aggrappato al mio, nascosto sotto al mio. La parte più irrazionale della mia ansia si calma, ora, a vederti al sicuro fra le mie braccia, e non odio questo lato di me e non ne provo paura perché so da come mi guardi che non è volontà di rinchiuderti, la mia, non è possessività e non è rabbia, è solo l'emozione di saperti con me e di saperti sereno, mi sento così perché stai bene, perché sono io che ti faccio star bene, perché siamo insieme e stiamo bene.

Sbatte le ciglia verso di me.

Mi sorride.

Annuisce.

Mi sposto sulle cosce per aprire le sue sul materasso, riprendo il lubrificante, ne spremo un po' su di me e su di lui e di nuovo, cerco il suo sguardo.

– Tutto ok, Kōshi? –

– Alla grande. –

– Me lo dici se c'è qualcosa che non va? –

– Subito, Daichi, promesso. –

Bacio l'interno di una delle sue ginocchia.

Mi allineo col suo corpo.

Entro piano dentro di lui.

Ci vuole concentrazione e una dose quasi esagerata di autocontrollo per evitare di perdermi nella sensazione e inseguirla senza pensare ad altro, devo conficcarmi i denti nell'interno della guancia e serrare la mandibola, osservare il suo viso, respirare piano, qualcosa dentro di me vuole spalancargli le cosce, svuotare il cervello e lasciarmi andare, ma so di dover essere cauto all'inizio, e lo sono.

Kōshi apre piano le labbra, geme con un filo di voce, strizza il mio avambraccio con le unghie e inarca appena la schiena, secondi interi e interminabili, quando arrivo in fondo, ha gli occhi lucidi.

Sposta la mano come se mi volesse di nuovo sistemato sopra di sé.

Lo faccio.

Torno giù.

Gli bacio una tempia.

– Male? –

– No, ma dammi un secondo. –

– Tutti quelli che vuoi. –

Gonfia piano i polmoni, il suo corpo stringe il mio e dà anche a me la necessità di prendere fiato con calma, la sua caviglia si strofina piano contro la mia schiena, si tiene una mano aperta sulla pancia.

– Daichi. – dice.

– Dimmi. – rispondo.

Scuote la testa.

– Daichi. – ripete.

Le mie labbra si sollevano in un sorriso.

– Sì, sono io, cosa c'è. –

– Daichi. –

Il suo bacino si muove contro il mio, appena appena, cerca una posizione più comoda, forse più frizione contro di me. Patisco, a star fermo, ma lo faccio con piacere, non mi sposterò di un centimetro finché non mi chiederà di farlo.

– Sono tanto felice che sia tu, Daichi. –

– Anch'io sono felice che sia tu, Kōshi. –

Le sue pupille tremano sul mio viso, come se stesse cercando di guardarlo tutto, ogni piega e ogni spigolo.

– Ti piaccio, Daichi? –

– Mi fai impazzire. –

– E fare sesso con me ti piace? –

– È meglio di qualsiasi altra cosa io abbia fatto nella mia vita. –

– E ti piace perché sono qui con te? Perché ci sono io? –

– Sì, perché ci sei tu, perché siamo insieme. –

Mi tira a sé spingendomi da una spalla, ricambio il suo bacio col cuore in gola.

– Puoi muoverti, Daichi, se ti va. –

Annuisco contro il suo viso.

– Ok, ok, faccio piano, sì, faccio... –

– No, non piano. Ho detto che puoi muoverti. Non piano. –

– Non piano? –

Avvolge il mio collo con le braccia che tremano, di nuovo sposta la gamba sulla mia schiena, come se volesse accarezzarmi.

– Lasciati andare, Daichi. Siamo qui, siamo insieme, puoi farlo. Mi va. Mi fido. –

– Sei sicuro? –

Appoggio la fronte contro la sua.

– Sì. –

Prendo fiato.

Bacio le sue labbra.

Perdo qualsiasi tipo di controllo avessi sui miei istinti.

Una mano aperta accanto al suo viso, le ginocchia sul materasso, le sue gambe aperte, stringo uno dei suoi fianchi, serro la mandibola, tengo gli occhi incollati ai suoi, se i primi due movimenti sono più per vedere come reagisce, quando mi guarda e fa "sì" con la testa, perdo il filo dei miei pensieri.

Si fida.

Io mi fido.

Si fida che io faccia quel che vuole anche lui.

Mi fido che esprima quel che vuole con sincerità.

Il suo corpo è stretto, i muscoli dolcemente contratti su di me, la sua schiena s'inarca, la sua pelle suda, dentro e fuori e la testiera del letto sbatte sul muro, la sua voce si fa più alta, rimbomba nella stanza assieme alla mia che ansima. Stringe le lenzuola con le dita di una mano, con l'altra si aggrappa al mio polso, siamo corpi che s'incastrano più che due persone che stanno insieme, al momento, ho la sensazione che nessuno dei due abbia un minimo appiglio razionale o coerente.

Cosce chiare aperte per me, le ginocchia si flettono verso l'interno, dove i nostri corpi entrano in contatto, la sua carne arrossisce, come il viso. Gli tremano le labbra, geme e dice il mio nome, stringo più forte le dita, sistemo il suo bacino contro il mio, so dove gli piace, è lì che gli do quel che vuole.

Lacrime sul suo viso.

Sforzo, non dolore, sovraccarico emotivo e corporeo, lucide e trasparenti sulle guance, non distoglie lo sguardo, non lo distolgo io.

Allunga la mano verso di me.

Lo tiro su dalle spalle.

È sopra di me, ma non fa leva su nessun muscolo, stretto fra le mie braccia lo muovo io, lui sembra avere il corpo di gelatina.

Tiene la fronte sulla mia.

Labbra aperte, aria che entra e che esce in fretta dal suo corpo, morivo dalla voglia di averti così e non riesco più a negarlo a me stesso.

Mi graffia le spalle, il retro del collo.

Si aggrappa forte.

Singhiozza.

Gli sorrido.

– Va tutto bene, Kōshi. –

Singhiozza di nuovo, poi geme piano sul mio viso, le labbra morbide sulla mia guancia, non mi bacia, è che non riesce a tenere su il collo.

– Sono io, Kōshi, va tutto bene. Ssh, non piangere, va tutto bene. –

Indietreggio fino ad arrivare con la schiena sul materasso, il suo corpo si accascia sul mio, stringo la sua schiena con le braccia, faccio leva coi talloni sul letto, così è più a fondo ancora, l'aria gli viene spremuta via dai polmoni.

– Sono io, Kōshi, sono io. Sono io. –

– Daichi... –

– Sì, sono io, Daichi, sono io. –

– Daichi, Daichi, Daichi... –

Le articolazioni delle sue anche sembrano liquefarsi, cosce morbide spalancate sopra di me, la sua schiena disegna un arco nell'aria, vederlo è imprimermi nella mente un'immagine che rimarrà impressa a fuoco nella mia memoria.

– Sei così bravo per me, Kōshi. –

– Oh Dio, Daichi! –

– Sei la cosa più bella che io abbia mai visto. –

Sento i muscoli delle mie gambe tendersi, i vicini sentiranno il letto che cigola, ma anche il rumore della mia pelle che sbatte contro la sua.

Dovrei vergognarmi, al momento non riesce a fregarmene nulla.

– Mi piaci da morire, Kōshi, mi piaci così tanto. –

Mugugna il mio nome.

– Voglio continuare a fare questo con te per il resto della mia vita. –

La sua gola si apre e si chiude, si stringe in un verso, occhi vitrei sui miei, le sue lacrime gocciolano su di me.

– Lo senti quanto mi piaci, Kōshi? –

Cerca di mettermi a fuoco.

Non riesce.

– Lo senti, Kōshi? –

Affonda le unghie su di me.

Cerca il viso col mio.

Non credo riesca a coordinare molto i movimenti.

Lo aiuto io a baciarmi sistemandomi sotto di lui, le sue labbra sono morbide ma è come se reagire gli costasse troppa fatica, è un'offerta, più che un'azione.

Riesce a dire un "sì" fra i gemiti.

Lo bacio di nuovo.

– Allora sentilo ancora un po'. –

Apro le mani sui suoi fianchi, con tutta la soddisfazione che riesco a provare gli tocco il culo perché posso e perché mi va e perché lui vuole e perché Dio, è un gran bel culo, incastro la faccia nell'angolo della sua spalla e apro la bocca contro la sua pelle.

Chiama il mio nome.

Sento i suoi muscoli stringersi.

M'irrigidisco.

Affondo i denti nella giuntura fra la scapola e il collo.

Il calore mi si avvita nella pancia.

Sento il sapore del suo sudore, del suo corpo.

La sua voce si stringe.

Il suo corpo si tende.

Il mio lo imita.

L'attimo dopo siamo di là.

L'attimo dopo è uscire dalla mia testa completamente e dimenticarmi di essere senziente, è esistere solo ed unicamente qui ed ora con lui e dentro di lui, il battito del mio cuore si fa serrato, i pensieri svaniscono, siamo noi due e nient'altro.

Dura un momento che s'incastra nella mia testa.

Pochi istanti, ma definitivi.

Scolpito dentro, artigli che scrivono sulla superficie liscia delle ossa, è esistenziale, è rivoluzionario, è l'attimo esatto in cui smetto di credere, immaginare e supporre e inizio a sapere con certezza.

Prendo aria e torno dentro di me.

È un respiro che mi ridà coscienza.

Sbatto le palpebre con occhi fissi sul soffitto.

Kōshi è ancora sopra di me e siamo ancora fusi assieme, più di me lui trema, gambe che vibrano e mani che cercano spasmodicamente appiglio, il suo orgasmo si appiccica fra di noi e le sue lacrime mi formano rivoli sul petto, le sue labbra tremano, le ciglia sfarfallano nella luce.

Ricominciando a sentirmi la vita nelle vene tiro su una mano per accarezzargli i capelli.

Lui sposta faticosamente le pupille sulle mie.

Gli sorrido.

Non riesce a fare altrettanto.

I suoi occhi lo fanno al suo posto.

– Non crede... cazzo, non credevo che fosse... che fosse così, merda, miseria. – balbetta, imprecando fra una parola e l'altra quasi offeso con la sua voce che non esce.

Rido piano.

– Invece è così. Cioè, io lo faccio così. –

– Anche io ora... io... lo faccio... anche io ora lo faccio così. –

– Con me? –

– E un altro... oh, cazzo, non so più parlare, un altro dove lo trovo? –

Scuoto il capo.

– Ti prego, non cercarlo. –

– No, no, no, no, Daichi, no. – ripete, cantilenando le parole.

Mi sporgo col collo per baciargli la fronte.

Non si muove di tanto, lui, giusto si sposta per avvicinare il viso al mio.

– Lo voglio rifare. – dice, ora con più sicurezza.

– Adesso? –

– Quindici minuti e sono come nuovo. –

– Sicuro? –

– È la cosa più bella del mondo, voglio farlo fino a crepare. –

Assume controllo sul suo viso che piega in un'espressione canzonatoria, divertita, sfinita.

– Se vuoi possiamo farlo domani mattina. –

– No, ora. Quindici minuti. –

– Ma... –

– "Ma" un cazzo. Guarda che sei ancora lì, ti sento che che hai ancora voglia. –

Strizza i muscoli interni strappandomi un mezzo mugugno che conferma la sua teoria.

Capitolo sospirando.

– Ok, se ne sei sicuro... –

– Sicurissimo. In gamba, agente, qui c'è da impegnarsi ancora un po'. –

Ridacchio.

– Mi sono sempre definito un gran lavoratore, dopotutto. – scherzo.

– Vedremo. – borbotta, poi tira su appena il collo, cerca il mio viso e stampa le labbra sulle mie.

Si stende di nuovo sul mio petto, riprendo a muovere le dita sulla sua schiena, il suo respiro si regolarizza, iniziamo a raffreddarci un po'.

Kōshi mi accarezza una spalla.

Passa col polpastrello su un punto che mi brucia un po', tasta e credo trovi il segno di un graffio, perché quando parla è tutto soddisfatto.

– Ora voglio vedere cosa dicono i pretendenti in spogliatoio che ti guardano mentre ti cambi. –

– Nessuno mi guarda mentre ti cambio. –

– Ti guardano tutti. Chi non lo fa è cieco. –

– O etero. –

– Nah, anche gli etero ti guardano. –

Il mio petto vibra contro il suo in una risata.

Guardo i suoi capelli, il profilo del suo viso, la linea del suo naso, l'infoltirsi delle sue ciglia ancora umide, la pelle rossa.

– Kōshi? –

– Ah-ah? –

– Mi sono innamorato di te. – dico, senza ragionarci perché non riesco a ragionare, senza temere perché non posso temere, senza aspettarmi nulla, solo perché lo voglio dire.

Sposta il mento per guardarmi in faccia.

Sorride.

– Lo so, Daichi. – risponde, ed è meglio di qualsiasi altra cosa avrebbe potuto dirmi perché io lo amo e lui lo sa, lui lo sente, lui lo percepisce e allora è vero che non sono un santo ma non è vero che sono come mio padre perché Kōshi lo sa, Kōshi lo capisce, io sono capace di amare e sono capace di amare bene, e per me è bello, è importante.

Mi bacia il petto su cui è appoggiato.

– Anche io. – dice dopo un attimo.

Tace e prende fiato, il suo sorriso non vacilla, i suoi occhi però si addolciscono.

– E sai cosa? –

– Cosa? –

– È questa vita. Non è l'altra, è questa. Questa qui. Sono felice che lo sia. –

Alzo il collo per premere la bocca sulla sua fronte.

Respiro fino in fondo.

– È questa vita, sì. –

Lo guardo negli occhi.

– Ne sono felice anch'io. –

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───

mi sono detta dai julia lets scrivere una scena di sesso dopo una vita solo che mi è partita l'ossessione al dettaglio e ho iniziato a scrivere tutto tuttissimo e niente boh ciao ho scritto un lenzuolo non un capitolo

NIENTE

SPERO CHE VI SIA PIACIUTO !!!

ho ritardato l'uscita di questo capitolo per assorbire un po' del ritardo che avrò per il prossimo perché vado via fino al 12 compreso al mare quindi sicuro prima del 14 non torno a postare nulla quindi ecco amici abbiate pietà ma è estate anche per me sisi (e sono stata inaspettatamente costante con questa storia !! brava me !!)

niente

lemme know something

un bacino

juls :D

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