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𝘀𝘁𝗿𝗲𝘁𝘁𝗶 𝗰𝗼𝗻𝘁𝗿𝗼 𝗶𝗹 𝘁𝗲𝗺𝗽𝗼


chiedo umilmente perdono per la mia assenza durata ben DUE mesi ma ho avuto convergenza di depressione stagionale di agosto (mese peggiore dell'anno), sessione di settembre e inizio magistrale quindi ecco MA ORA CI SONO, entro la fine della settimana cerco di finire l'ultimo capitolo di questa storia e poi ci organizziamo per tornare a regime con le storie nuove (e scottish sithe sisisisi) !!

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La pelle che ricopre le scapole fa attrito contro le piastrelle della doccia. Il rumore è acidulo, il frinire della ceramica contro la mia carne, sotto al getto dell'acqua, coperto dal mio respiro ansimante, lo sento a malapena.

Di fronte al mio sguardo offuscato si distinguono pochi elementi, i confini di ciò che ci circonda, il soffitto, il pavimento, capelli scuri, occhi castani, dita che stringono forte le mie cosce, i miei muscoli sono di gelatina, sto su perché mi ci trattiene, se lasciasse la presa, sarei un mucchietto di ossa ammassate le une sopra le altre.

Ci sono tinte violacee sul colore lattiginoso della mia carnagione.

Contorni di mani sui fianchi, stretta ferrea nella foga del momento, bordi di denti, baci un po' troppo intensi, prese salde su un corpo che è cartina tornasole di tutto quello che è successo, sono coperto di lividi ma non mi fa male più niente.

Daichi strattona il mio corpo verso il suo.

Finisce in fondo dentro di me.

La sua fronte cala sulla mia spalla.

Respira affannosamente lasciando libere le mie cosce, stringendomi forte contro al suo petto.

Schiacciato fra lui e il muro della doccia mi sento compresso, mi sento ristretto e nascosto, mi sento piccolo, non solo, mi sento confinato in quest'istante, compattato in questo momento, al sicuro in una manciata di centimetri quadri, sereno mai, guarito men che meno, ma riesco a respirare liberamente, l'ansia è anestetizzata da una stanchezza che provo con ardore.

Avevo immaginato cosa sarebbe successo.

Avevo sperato seduto nella doccia di casa mia, quella vecchia, quella dove sono morto.

Piangevo sotto l'acqua calda e lasciavo vagare la mente verso speranze che non sapevo nemmeno se avevo il diritto di provare, chissà come sarebbe con Daichi, chissà cosa mi farebbe, chissà se gli piacerei, chissà se mi piacerebbe.

Davo alle mie speculazioni una connotazione puramente surreale.

Navigavo un minuto e poi ero di nuovo là, Arianna che aspetta sulla spiaggia una nave che l'ha abbandonata da tempo, la mia immagine nello specchio che rimanda indietro un oggetto vuoto, cavo, leggero perché composto di niente, tu sei quel che sei e sarai quel che sei, Kōshi, tu morirai qui, tu hai scavato una tomba, ora stenditi al suo interno, raggomitolati nella terra, prendi sonno fra le radici dei fiori, la fuga non c'è, perché non c'è niente da cui fuggire, non c'è niente a cui tornare, sei stasi di un equilibrio stabile e immutato.

E invece ora ci sono davvero.

Ora sono come credevo non sarei mai potuto essere.

Ora è reale.

Il mio corpo è reale.

Il suo, lo è.

La mia mente, i miei pensieri, la mia percezione e le mie preferenze, i miei desideri, le mie voglie, i miei "sì", persino i miei "no".

Daichi mi guarda negli occhi.

Mi chiama per nome.

Mi stringe con le mani e mi dice che gli piace, vuole sapere se piace anche a me.

Daichi vuole che sia bello per tutti e due e vuole che sia bello perché lo stiamo facendo insieme e mi fissa, si specchia nelle mie iridi, s'imprime a fuoco l'immagine del mio volto perché per lui è fondamentale sapere che lo sta facendo con me, per me.

Nemmeno io ho più paura, allora.

Non ho più imbarazzo e non ho più vergogna.

Guardo anch'io negli occhi, ok? Guardo, chiedo, affondo le unghie e avanzo pretese. M'immergo in questa cosa dove ci sono, sai che ci sono, no? Sono qui, nella mia testa, ci sono, lo sai? Partecipo, ci voglio essere, non è più fuga mancata perché non sa cosa fuggo e dove, è fuga rifiutata, perché qui ci voglio stare.

Ho lasciato quell'uomo solo col mio corpo per anni.

Mi ero quasi completamente dimenticato quanto fosse piacevole poterci vivere dentro.

Il mio corpo ti piace.

A me piace il tuo.

S'intrecciano e si mescolano e si uniscono e anche se il movimento è brusco, la presa salda e i denti serrati è un corpo che prende e manda a me e di cui prendo e mando indietro e c'è reazione, c'è intensità, c'è foga che rende il dolore solo simbolo della passione.

Mi si chiudono le palpebre da sole.

S'incollano le ciglia, le spalle cedono, mi accascio piano contro muscoli che mi tengono su.

Viscerale, carnale e radicato, congenito, connaturato, spontaneo, in ventiquattro anni di vita, fare sesso per me, non è mai stato così.

È stato meccanico.

Artificiale.

Performativo.

È stato una manciata di ordini impartiti per mettere in atto una scenetta studiata, è stato un balletto per un cliente pagante, la moneta briciole d'affetto per un morto di fame, la paga il permesso di stare al mondo mentre il mondo me lo toglieva da sotto i piedi.

E poi ci sei tu.

Pelle imperlata di sudore e capelli tirati indietro con le mani per vedermi meglio, mandibola serrata, parole dette a mezza voce, mani che scavano e scavano e scavano fino all'osso perché di me non ti basta che io finga per soddisfarti, tu vuoi l'interezza naturale di ogni singola fibra.

Ci sei tu che mi mastichi per sapere di cosa so offrendomi il collo perché possa affondare i denti e assaggiarti anch'io.

Ci sei tu che mi guardi negli occhi e mi sorridi, tu che mi stringi forte come se fossi il riparo da ogni male nel mondo, tu che mi passi le dita sul viso e mi dici che mi ami, e non perché io cada nella tua ragnatela da aracnide che guarda le libellule morirgli di fame di fronte agli occhi prima di nutrirsene, tu lo dici perché lo pensi e vuoi che lo pensi anch'io.

Ho letto l'altro giorno su internet che le vittime di violenza domestica tendono a ricercare una relazione subito dopo aver scampato la minaccia del loro carnefice, per riempire un vuoto incolmabile che bene o male quella persona aveva scavato e reso della propria misura.

Ci ho pensato su.

Io voglio Daichi perché sono fuggito?

Ho riso di me stesso.

Non lo voglio perché sono fuggito, è l'inverso.

Sono fuggito perché lo volevo.

Sono fuggito per lui.

È lui che ha aperto il vaso di Pandora.

È lui che ha insistito perché capissi.

È lui che ha messo in me il tarlo della speranza.

Non lo voglio per paura di rimanere da solo o per paura di non sapere come andare avanti.

Lo voglio perché quest'altra vita l'ho voluta e sono morto, per averla, e di quest'altra vita lui è stato il primo mattone.

In un'altra vita sarei stato libero, sì, e sarei stato felice, e avrei messo i pantaloni corti, i tacchi, l'eye-liner, il profumo, in un'altra vita sarei stato con Tooru e con Noya senza preoccuparmi di niente, avrei lavorato per mettere i soldi in un conto mio personale, nessuno mi avrebbe messo le mani addosso, nessuno mi avrebbe mai potuto colpire.

Ma prima di tutto questo, in un'altra vita sarei stato con Daichi.

E allora ora sto con Daichi.

E tutto il resto lo metto su da qui.

Stampa piano le labbra contro l'interno del mio collo.

Sorride sulla mia pelle.

Il suo petto si gonfia e si sgonfia contro il mio.

– Finiamo di farci la doccia e andiamo a dormire o vuoi un altro round? –

Devo evocare una forza atavica, per ridacchiare e rispondergli.

– Ce la faresti? –

– Probabilmente sì. Certo, sono cinque ore che andiamo avanti e domani sarei da buttare, ma mi fido del mio corpo, secondo me ce la faccio. Tu? –

– Io crepo se lo facciamo di nuovo. Mi sa che mi ritiro per primo. –

– Bandiera bianca, Kōshi? –

– Bandiera bianca. –

Ride piano e mi bacia di nuovo il collo, poi la mandibola, la guancia, lo zigomo.

– Allora andiamo a dormire, ok? –

– Mi lavi tu? –

– Certo. –

– E mi asciughi i capelli? –

– Tutto quello che vuoi. –

Appoggia le labbra sulle mie, è lieve, breve, appena un accenno.

Sollevo le palpebre con enorme fatica.

I suoi occhi castani sanno di tutta l'aria che mi riempie i polmoni, del sangue che mi scorre nelle vene, della terra su cui metto i piedi ogni giorno, del Sole che mi sta sopra la testa.

Sa delle cose che se non fossero come sono non renderebbero possibile la mia esistenza.

Sa di fondamenta, Daichi.

Forse posso metterci sopra qualcosa, adesso.

– Domani mattina chiamiamo Tooru. –

Alza piano le sopracciglia.

– Tooru? Il tuo amico di quando eri adolescente? –

– Lui. Ora andiamo a dormire e domani mattina lo chiamiamo, ok? –

Piccole pieghe ai bordi del suo sorriso, crepe sul vetro che rendono la sua espressione calda e piacevole come rotolarsi nelle coperte d'inverno.

– Va bene, ok, va bene. Domani mattina. Sono un po' in ansia, è sempre il panico quando devi conoscere gli amici del tuo ragazzo. –

– Il "tuo ragazzo"? –

– No? –

Saggio le parole sulla punta della lingua.

"Sono Kōshi e sono il suo ragazzo", "Daichi è il mio ragazzo", "questo è il mio ragazzo", "sono il suo ragazzo", "è il mio ragazzo, fa il poliziotto", "è il mio ragazzo, ha venticinque anni", "è il mio ragazzo, ci piace fare colazione insieme e andare a fare la spesa con i buoni ritagliati dal giornale", "è il mio ragazzo, mangia per sei", "è il mio ragazzo, mi ama tanto, lo amo tanto anch'io".

– Sì. Sì, sì. Il "tuo ragazzo". –

Sorride di nuovo.

Mi bacia un'altra volta.

Indugia sulle mie labbra, io sulle sue.

Respiriamo con i visi l'uno sull'altro.

Poi sospira.

– Ora ci laviamo, ok? –

– Annuisco. –

E lentamente, mi aiuta a scendere coi piedi sulla ceramica della doccia.

Svegliarmi e tirarmi su, la mattina dopo, è un uragano di sensazioni poco familiari che trattengo addosso come se fossero l'esperienza più bella che mi sia mai capitata. Mi fa male la schiena, mi tirano i muscoli delle cosce e quelli delle braccia, certi pezzi di me bruciano, certi altri prudono, altri ancora sono un po' gonfi, un po' rossi, un po' sensibili. Mi ballano le ginocchia quando appoggio su di loro il mio peso per camminare, le caviglie sono affaticate, la colonna vertebrale si fa sentire quando mi sposto senza cautela, è una sequela di dolori e lividi, quella che mi porto addosso, dolori e lividi che mi appartengono in una dimensione di ricordi che io stesso ho voluto, che io stesso vorrei ancora e vorrò quando se ne presenterà l'occasione.

Daichi dorme con i capelli arruffati e la guancia schiacciata sul cuscino, borbotta e mugugna quando mi sente muovermi ma, probabilmente più affaticato di me dalla notte scorsa, oltre ad un timido tentativo di tenermi appiccicato a sé non protesta, si gira pancia sotto e torna a dormire.

Gli accarezzo il viso, prima di alzarmi.

È terribilmente bello.

Questa vista mi motiva ad andare avanti più di quanto non sia mai riuscito a fare da solo.

Riesco a fare il caffè senza troppi problemi, lo bevo a piccoli sorsi con la spalla appoggiata sul muro della cucina, ho addosso la sua maglia del pigiama, niente sotto, segni scuri s'inerpicano sull'interno delle mie cosce, li guardo e arrossisco.

Lui di me dice "bello" e dice "bravo" e dice "ti amo" e dice "il suo ragazzo".

Se l'avessi conosciuto prima mi sarei risparmiato tanto dolore.

Non so se senza quel dolore sarei stato io, però.

Nell'altra vita chissà chi saremmo stati, Daichi.

In questa siamo noi, e credo che vada bene anche così.

Lascio la mia tazza sul lavabo, ne prendo una pulita, la riempio, reggendomi sulla parete per non sovraccaricare le mie articolazioni un po' doloranti torno piano verso la camera da letto, vado verso la sua parte del materasso, mi siedo fra il suo corpo e il bordo, appoggio la ceramica sul comodino.

– Daichi? –

Non reagisce.

Il suo respiro rimane profondo e regolare.

Infilo una mano fra le ciocche scure dei suoi capelli.

– Daichi? Sei vivo, Daichi? –

Piano piano si sposta. Schiaccia il viso contro il materasso, mugugna più forte, gravita col corpo dalla mia parte, come se una forza invisibile lo attraesse contro di me.

Appoggio una mano su una delle sue spalle.

Mi chino, strofino la punta del naso sulla sua nuca.

– Daichi, svegliati, su. –

Cede al contatto, si spinge impercettibilmente contro il mio viso.

– Che? – borbotta, con la voce che gratta un po' il fondo delle lettere, più bassa, al mattino, più dolce.

– Svegliati, Daichi. –

– Perché? –

Rido piano sulla sua pelle, il suo corpo si gira su un fianco, riesco a baciargli una guancia, uno zigomo, a vedere ciglia scure che si aprono appena su iridi castane che si assestano subito su di me.

– Perché è mattina e ti ho fatto il caffè. –

– Mmh... non lo so... –

– È tardi, su, torna in questo pianeta, Daichi. –

– Che ore sono? –

– Saranno almeno le undici. –

Non ho idea di che ore siano, in realtà, il mio orologio biologico manda qualche ipotesi ma non ho sicurezze, in ogni caso, mi preoccuperò di quale momento del giorno sia una volta che avrò convinto questo ammasso di muscoli insonnoliti ad alzarsi.

– Le undici? –

– Almeno. –

Sbatte le palpebre un paio di volte, all'inizio sembra contrariato, la luce che filtra dalla finestra lo infastidisce, poi mette a fuoco ciò che lo circonda, mette a fuoco me e, col viso ancora intorpidito dal sonno, si esibisce in uno di quei sorrisi che sul suo volto non ti aspetteresti mai di vedere.

Sicuro, solido e deciso, Daichi, ma mi sorride con la dolcezza di qualcuno che sa perfettamente com'è essere fragili. Felicità, morbidezza, emozioni che lo espongono, che scoprono nervi e debolezze, Daichi mi guarda come se stessi nello spazio fra le sue costole, come se fossi rinchiuso nella sua cassa toracica, incastrato fra i ventricoli del cuore, pare non nasconda, so che non lo fa, perché a me, di nascondere, non c'è proprio bisogno.

– Sposiamoci. – mugugna.

Reagisco ridendo.

– Eh? Di già? –

– Sì, di già. Sposiamoci. Facciamo tre figli. Andiamo a vivere in una fattoria con le galline. –

– Con le galline? –

– E i cavalli. –

– E chi se ne occupa poi? –

– Tu. –

– Io? –

Annuisce, si copre il viso per sbadigliare, aggrappa le dita al mio polso l'attimo dopo.

– Tu fai il contadino e io faccio la principessa. –

– E i figli? –

– Gli compriamo una capra così hanno da fare. –

Sento i bordi delle mie labbra tirarsi su inavvertitamente.

– Daichi, tirati su e bevi il caffè, non sai nemmeno tu cosa stai dicendo. –

– Mmh, no, no, lo so, invece. Sposiamoci e compriamo una capra. –

– E come la chiamiamo la capra? –

– Darth Vader. –

– La capra? –

– La capra. –

Mi piego per ridere, mi piego con le mani che si appoggiano alle sue braccia, la fronte che batte su una delle sue spalle. Daichi non capisce, continua a mugugnare, però mi stringe lo stesso, mi bacia una tempia, si sistema comodo col mio corpo addosso.

– Il caffè, Daichi. –

– E la capra? –

– Dopo il caffè. –

– Ok, allora. –

Mi bacia di nuovo la tempia, poi fra i capelli arruffati, ridacchia anche lui con me, si tira su con la schiena dritta trascinandomi con sé.

Prova a mugugnare altro ma viene zittito, allunga il braccio, prende la tazza.

La conversazione muore mentre lui beve il caffè.

Io rimango fermo mezzo steso sul suo petto, lui impiega il tempo necessario per svegliarsi, la capra rispunta della mia immaginazione, temo anche nella sua, ma l'argomento cade, si ristabiliscono saldi i ricordi di ieri, ne parleremo in un altro momento, ora c'è qualcosa che pesa fra di noi, un argomento lasciato a metà, un'idea che mi sono ripromesso di mettere in atto.

– Allora... – inizio, passati interi minuti di confortevole silenzio.

– Chiamiamo il tuo amico? – completa, riempiendo lo spazio lasciato dalle mie parole.

Rimango un attimo fermo, rigido.

– Lo chiamiamo. – confermo, poi.

– Ora? –

– Ora. Prima che mi spaventi e mi dimentichi che voglio farlo. –

– Hai il suo numero? –

– Lo so a memoria. Quello vecchio. Spero che non l'abbia cambiato. –

Daichi finisce il suo caffè con un ultimo sorso, sento il rumore della ceramica contro il legno, si allunga per cercare il cellulare, lo stacca dal caricabatterie.

– Chiami tu o vuoi che faccia io? –

– No, no, è una cosa che devo fare da solo. –

Sento il suo corpo spostarsi, muoversi, muscoli che si flettono nel sistemarsi sul materasso, mi prende dai lati della cassa toracica e mi adagia sopra di sé, le mie scapole contro il suo petto, le cosce aperte attorno alla mia vita.

Mi accarezza i capelli indietro.

Mi bacia la fronte.

Mi passa il cellulare acceso sulla schermata col tastierino.

Le mie mani tremano, le dita paiono vibrare di un'ansia che cerco di dimenticare con la fretta, diversi pensieri aderiscono alle pareti della mia testa ma ripeto ossessivamente nel mio cervello solo le azioni che devo compiere, non le considerazioni che potrei produrre su di esse.

Devo scrivere il numero e devo premere la cornetta, non pensarci su, ci ho pensato su fino allo spasimo senza fare nulla per anni, ora quella parte di me non può avere il sopravvento, o finirà com'è sempre finita.

Devo solo...

Solo...

Premo i tasti uno dopo l'altro.

Sono così agitato che mi cade quasi il cellulare dalle mani.

Faccio partire la chiamata.

Appoggio lo speaker all'orecchio.

Daichi mi avvolge le spalle e mi stringe forte che quasi non respiro, protesterei se non fosse esattamente quello di cui ho bisogno.

Squilla.

Il fatto che squilli è un buon segno.

Il numero è ancora attivo.

Magari davvero non l'ha cambiato.

Magari davvero...

Come guardare l'acqua defluire goccia a goccia attendo ogni secondo contemporaneamente eterno e istantaneo, troppo in fretta, dovevo pensarci di più, troppo lento, voglio sapere ora.

Il cuore protesta la reclusione nella mia cassa toracica.

Le mani di Daichi mi strizzano immobile.

Trattengo il respiro.

Ora o mai.

Mai?

No, ora.

– Pronto? Chi è? Se è di nuovo la pubblicità dell'acqua calda sappiate che ce l'ho l'acqua calda perché vivo in una casa e non in una capanna ed è prestissimo e se mi avete svegliato per l'acqua calda io vi faccio un culo così perché... –

– Tooru. –

La sua voce è diversa ma è esattamente la stessa.

Il tono è più pieno, più basso, ma il modo in cui dice le parole, il modo in cui le piega e le unisce e le vocali, l'accento, la tonalità, il lessico, l'inflessione.

Lo vedo mentre parla.

Lo sento.

L'odore della sua pelle, il colore dei suoi occhi, la forma del suo viso, il contatto delle sue mani.

È qui.

Non è qui.

Lo voglio qui.

Qui c'è sempre stato.

Dall'altro capo del cellulare lui tace.

Sta zitto, non risponde, temo un attimo che la chiamata sia caduta, che non mi riconosca, che si sia dimenticato di me, non lo biasimerei, fosse successo, lui è cardine della mia esistenza a prescindere dal fatto che io lo sia nella sua.

Però...

Mi piacerebbe che...

– Kōshi? –

Mi crolla una lacrima sul viso.

– Oh Cristo, Kōshi, sei tu? Ti prego dimmi che sei tu. Dimmi che sei tu, Dio, dimmi che sei tu, ti prego, ti prego, ti... –

– Sono io. Sono io, Tooru. –

– Dove sei? –

– Sono... –

Sposta la voce dalla cornetta, lo sento parlare in sottofondo, urlare verso quel che ha attorno, suppongo.

– Hajime, vai a prendere la macchina! Cazzo, dove ho messo le muta... no, Hajime, vestiti, ti spiego dopo, fidati! –

Torna a rivolgersi a me.

– Dove sei, Kōshi? Dove? Arrivo. Vengo subito. Dio, Dio giuro che inizierò a credere in qualcosa, in qualsiasi cosa, Dio grazie per... –

– A casa del mio ragazzo, sono a casa del mio ragazzo, Tooru. –

– E il tuo ragazzo è.... –

Non l'ha mai saputo, di lui, che conoscevamo entrambi, che aveva vent'anni di più, che toccava sotto i vestiti nel privato dell'ufficio.

Ma quando inizia la domanda, io so che anche se non l'ha mai saputo, sotto sotto, l'ha anche sempre sospettato.

– No. Il mio ragazzo si chiama Daichi e fa il poliziotto. Vivo qui, per ora. Se vuoi venire... –

– "Voglio"? No, io devo, Kōshi. Io... devo. Devo. Capisci, vero? –

– Sì. Sì, lo capisco. –

Urla di nuovo qualcosa all'altra persona che è con lui, "Hajime" io so chi è, non l'ho mai conosciuto, ma l'ho visto su internet, ha gli occhi verdi, un po' a Daichi, sotto certi punti di vista, gli assomiglia.

– Mi dici l'indirizzo, Kōshi? –

Glielo dico.

– Oh, ok, è... ci vorrà un po', siamo un po' fuori Tokyo, al momento, ma... sì, un'ora al massimo, un'ora e ci sono, Dio grazie, grazie, domani parto per la Cina, grazie che è oggi, Dio... –

– Tooru, io ti aspetto. Ti aspetto qui, ok? –

– Ok, ok, ok, io.... –

– Io ti amo ancora, Tooru. Tu un po' mi ami ancora? –

– Mai amato nessuno quanto te. Mai, Kōshi. Mai. Io non so cosa... non so... arrivo, ok? Arrivo. –

– Ti aspetto. –

– Sei tutto quello che ho. –

– Sei tutto quello che ho sempre avuto. –

La chiamata si chiude.

Il telefono cade sul lenzuolo.

Daichi mi stringe forte.

Questo dolore io non posso sopportarlo, non voglio averlo, non voglio vederlo, non voglio riconoscerlo, quindi mi lascio stringere, singhiozzo con le mani sul viso, prego, prego e spero che arrivi in fretta perché io...

Io...

No, no, Tooru, no.

Il resto si supera, Tooru, ma questo no.

Questo non l'ho mai superato.

Questo l'ho sempre coperto.

E ora...

Ora...

Adesso.

Vieni qui adesso.

Infila le mani nello squarcio aperto sulla mia cassa toracica e strappa via quel che c'è dentro, prima che lo senta, prima che lo veda, prima che debba smettere di ignorarlo.

Toglimi questa cosa di dosso.

Buttala via.

Sei l'unica ferita che non si rimargina, l'unica verità che non ho mai dimenticato, l'unica cosa che non ho mai distrutto, l'unica cosa che non ho mai negato, l'unica emozione che mi sono sempre tenuto per me.

Fa male.

Torna qui.

Fa male da morire.

Torna da me.

La tua assenza è una voragine entro cui mi sono fatto spazio.

Se vedo la voragine, sento il vuoto, Tooru, e quel vuoto per me è un dolore che mi fa desiderare di morire.

Vieni qui.

Stai con me.

Sei la prima persona che io abbia mai amato per davvero.

Sei la prima persona con cui io mi sia mai amato per davvero.

Sei la parte di me che non ho mai smesso di amare anche quando lui mi ha costretto a convincermi di non essere niente.

Sei l'unica bugia a cui non sono mai riuscito a credere.

Ritorna da me.

Ora che la vedo, la tua assenza è insostenibile.

Premo il viso contro il petto di Daichi.

Lui mi accarezza i capelli e mi bacia piano, batte delicatamente le dita sulla mia schiena, mi invita a piangere, a piangere finché ne avrò bisogno.

Appoggia una guancia sulla mia testa, mi strizza, mi tiene fra le braccia.

– È finita, Kōshi, ora è finita. Puoi tornare da lui. Ora stai meglio, ora puoi tornare da lui. – mormora, le labbra che sfiorano le mie guance, la voce che avvolge i miei singhiozzi.

– È che... che... e se... se... –

– Hai il diritto di rivederlo, Kōshi. Hai il diritto di amarlo. Lui lo sa che tu stavi male. Lo sa che non è colpa tua. –

– Ma... ma io... –

– Non è stata colpa tua. Nulla è mai stata colpa tua. Lo sa. Lo sappiamo tutti. Ora puoi. –

– Io... –

– In questa vita puoi amare quanto ti pare, Kōshi. –

Prende il mio viso fra le mani.

Spazza via le lacrime coi polpastrelli.

Di nuovo, mi sorride come se potesse davvero soffrire ogni grammo del mio dolore.

– Quanto ti pare. –

Chiudo gli occhi.

Piango fino a perdere il fiato.

Non so quanto ci metto, a riprendermi. Piano piano le lacrime si diradano, il viso si asciuga, Daichi si alza e ci laviamo i denti uno di fianco all'altro sul lavabo, ci vestiamo, ci sistemiamo, rifacciamo il caffè, sicuramente serve un'altra botta di vita a entrambi i nostri cervelli. Mi imbocca il suo yogurt un cucchiaino alla volta anche se dico di non aver fame, annuisce, mi dice "ok", poi il metallo è puntato verso le mie labbra e la sua voce dice "bravo" quando mando giù, è più contento se mangio, mi arruffa i capelli tutto soddisfatto.

Mi chiede di Tooru.

"Come vi siete conosciuti", "quanto siete stati amici", "chi è", "ora cosa fa", "com'è fatto", "cosa vi piaceva fare assieme", "cos'è successo", "com'è andata".

Rispondo piano, una parola alla volta.

Al campo di allenamento per bambini quando avevamo cinque anni, siamo stati amici fino ai diciassette, è un campione olimpico, ora pattina, è alto, bello, con le gambe lunghe, ci piaceva guardare i film, chiacchierare e vivere le nostre vite fianco a fianco, lui l'ha mandato ad un campo di allenamento subito dopo il mio infortunio, io ho rifiutato di vederlo prima che partisse, ci siamo separati perché lui ha messo un muro invalicabile, fra noi due, ha cercato di convincermi che lui non mi amasse, è solo riuscito a convincermi che Tooru non avesse davvero bisogno di me.

Quando mi trema la voce Daichi mi guarda in faccia e mi sorride un po' come si fa coi bambini, scuote la testa, mi asciuga gli occhi, mi bacia le guance.

Quando chino lo sguardo mi tira su il mento, appoggia le labbra sulle mie, mi ricorda come sono le cose ora, come va la vita adesso, mi dice che quella che sta succedendo è una cosa bella, una cosa meravigliosa, sto per rivedere un amico, un amico che mi vuole bene.

Non so se io pianga per il dolore che prima d'ora non mi ero mai concesso di provare, se pianga per l'ansia di non sapere come reagirà davvero di fronte a me, se pianga per il gusto di piangere, perché ormai ho aperto e non riesco più a tenere dentro.

Tiro su le lacrime.

Finiamo di fare colazione.

Sto seduto sul divano a torturarmi le cuticole coi denti, voglio che il tempo passi, voglio che si fermi, passa subito, non passa mai.

Il telefono di Daichi rimane faccia in su sul tavolino del salotto.

Non arriva nulla, non un messaggio, non una telefonata.

È silenzio stampa.

Attimo prima della tempesta.

Tempesta?

Non lo so.

Non...

Non sono mai riuscito a vederlo gareggiare dall'inizio alla fine. Non mi sono mai messo davanti alla TV con l'idea di guardarle tutte, quelle tre ore delle Olimpiadi Invernali dove Tooru pattina con la sua divisa argentata e i glitter sui capelli.

Piccoli spezzoni.

Piccoli attimi.

Un minuto tagliato e incollato su YouTube.

Lui diceva che guardarlo mi avrebbe inacidito, perché mi sarei ricordato di cosa ho perso, perché sarei marcito nell'invidia dell'idea che il mio migliore amico ora è un atleta di fama internazionale e io sono qui a ventiquattro anni che faccio il barista e non ho nemmeno finito la scuola, ma non c'è mai stata acredine, non invidia, è la nostalgia, che mi ha sempre impedito di guardarlo.

Tooru non mi ha rubato niente.

Lui sì.

Tooru ha realizzato un sogno.

Era anche il mio sogno? Lo era. Ma era anche il suo.

Mai provato niente di diverso dall'orgoglio, nei suoi confronti, sfrontato e palese, tanto solido da provocarmi quasi vergogna, di cosa sei orgoglioso, Kōshi, l'ha fatto lui, tu non hai fatto niente.

Però è Tooru.

Il mio Tooru.

Guardate com'è bravo il mio Tooru.

È il mio migliore amico, quello lì.

È...

Il campanello suona squarciando il silenzio.

M'irrigidisco.

Cerco lo sguardo di Daichi come se potesse offrirmi un punto saldo nel bel mezzo di un uragano.

I suoi occhi castani incontrano i miei.

Mi sorride.

Annuisce.

Si alza.

Rimango con le ginocchia che tremano fisso sul divano, lui si avvicina e nonostante dentro di me tutto tenti di parlare, di dire, di comunicare, sto in silenzio, congelato, immobile.

Daichi si avvicina alla porta.

D'istinto dà un'occhiata allo spioncino, si gira verso di me con le sopracciglia aggrottate, dice qualcosa che somiglia a "ma guarda tu, io questo lo conosco", ma lo sento senza ascoltarlo, non rispondo.

Mi tiro in piedi artigliandomi allo schienale del divano.

Ho le gambe di cristallo, minacciano la rottura, mi devo tenere su o rovinerò a terra.

Daichi apre la porta.

Intravedo la pelle abbronzata e gli occhi verdi, inchiostro sulla pelle, non guarda me, guarda il mio ragazzo, se fossi cosciente, noterei che la sua espressione è affabile, serena e un po' sorpresa, noterei che interagiscono come se si conoscessero.

Non vedo nulla.

Vedo i ricci.

Vedo le gambe lunghe calzate in paio di jeans.

Vedo un maglione troppo largo, una giacca buttata sulle spalle della misura sbagliata, vedo la sciarpa, i guanti, gli occhi bordati di rosso, le sopracciglia aggrottate, l'ansia, il panico, la smania.

È altissimo, adesso.

Era alto anche prima, ora però svetta proprio.

Ha il portamento più maturo, più elegante, ma i piccoli gesti, le piccole inflessioni, rimangono quelli della persona che ha condiviso con me gran parte della sua vita.

Porta sempre lo stesso profumo.

È...

Non parla.

Non parlo nemmeno io.

Hajime si sposta dall'ingresso, Tooru lo supera, si aggrappa allo stipite della porta e guarda dentro, ruba un'occhiata a Daichi, agitato, spaventato porta la linea del suo sguardo all'interno della casa, il castano caldo delle sue iridi si mescola con quello freddo delle mie.

Oh.

È questo allora, che si prova, quando si dice che si "torna a casa".

Non si toglie nemmeno le scarpe.

Supera l'ingresso praticamente correndo.

Le sue braccia sono attorno alle mie spalle prima che io possa rendermene conto.

Premo il viso contro il suo petto.

Stringo forte la sua vita.

Se al mondo fossimo metà, Tooru, tu saresti la mia.

Non piange nessuno dei due.

Credo che nessuno dei due neppure respiri.

Fermi, immobili e statici, incastrati assieme, c'era mancanza e c'era solitudine nell'essere due cose separate, ora che sei qui, ora che sei con me, non sento nulla, nulla di sbagliato.

Tempo fermo, senza di te, ora scorre ancora, sette anni, Tooru, sette anni durati un minuto ora che sono fra le tue braccia.

Non sai quante cose voglio dirti.

Non sai quante cose voglio raccontarti.

Non sai le scuse che voglio dedicarti, le parole, perdonami, ho pensato che non avresti amato lo schifo che mi hanno fatto diventare, ho pensato che non ti saresti meritato quella parte di me, ho sottovalutato il tuo amore, ora lo so, ora m'incolpo, avessi avuto coscienza di te, non sarebbe successo nulla.

Io...

Io...

Appoggia la fronte contro la mia.

– Avrei dovuto cercarti di più, avrei dovuto cercarti finché non ti avessi trovato. – mormora.

– Avrei dovuto lasciarmi cercare. –

– Avrei dovuto ucciderlo quando ho iniziato a capire. –

– Avrei dovuto dirti tutto quando è capitato. –

Mi bacia una guancia, mi tiene il viso con le mani che mi sfiorano come fossi fatto di porcellana.

– Quanto tempo fa sei riuscito a liberartene? –

– Un mese. –

– E prima...? –

– Siamo stati assieme. –

– Assieme nel senso che... –

– In quel senso. –

Fierezza e dolore nei suoi occhi, mi guarda soffrendo, mi guarda con rabbia.

– L'hai lasciato tu? –

Mentire non mi passa nemmeno per l'anticamera del cervello.

– Ha cercato di uccidermi. Sono scappato. –

Gli cadono le parole dalle labbra, stringe i denti.

Mi guarda.

Mi abbraccia di nuovo e più forte, fino a togliermi il fiato.

– Dovevo ucciderlo quel giorno. Lo sapevo, che non sei stato tu, lo sapevo che non eri tu a non volermi là, lo sapevo, io lo dovevo uccidere, Kōshi, lo dovevo ammazzare. –

Prende fiato con un rumore umido, un po' spugnoso, le lacrime devono essergli tornate su, un po' iniziano a fare capolino anche a me.

– Dovevo ucciderlo, dovevo ucciderlo e farlo a pezzi e nascondere bene il cadavere perché di tutte le persone, di tutte... –

– Non c'è più, Tooru. Ora non c'è più. L'ho mandato via. Sono riuscito a... –

– Ho sperato fino alle lacrime che non fosse come pensavo, ho sperato, ma... –

– Scusami, per non avertelo detto, per non essermi fatto aiutare. –

– Scusami, per non aver capito, per non aver trovato il modo di aiutarti. –

Mi bacia la fronte.

Mi serra fino a farmi male, fino ad eliminare ogni goccia di spazio fra noi.

– Grazie, di avermi chiamato. – sussurra.

– Grazie, di essere tornato da me. – rispondo.

Mi rinchiudo nel suo corpo.

Non ho mai concesso a me stesso di sapere quanto mi mancavi.

Se l'emozione che provo ora è sollievo di quel dolore, però, so che forse ho fatto bene, a coprire quella ferita, perché a quest'euforia, dovrebbe corrispondere il dolore di essere squarciato dall'interno.

Mi sono costruito una pace, Tooru, in quest'ultimo mese.

Ora che ci sei tu, mi rendo conto che da costruire non c'era nulla.

Dovevo solo ricordarmi dove l'avevo messa.

L'avevo messa in te.

Mi lascio andare.

Anche lui.

È singhiozzi nella stanza.

Il resto non c'è.

Grazie, di ricordarmi anche tu, che amare non è piegarsi per l'altro, non è sacrificarsi per soddisfare, ma è incontrarsi a metà, anche quando si sbaglia entrambi.

Amare Daichi non mi è nuovo.

Amare, non mi è nuovo.

Me l'hai insegnato tu.

Grazie, di ricordarmi che cosa si prova.

Mani fra i capelli, sulla pelle, sul corpo, ripercorriamo ogni centimetro disponibile nel tentativo di ricordarci dove siamo rimasti gli stessi, dove siamo diversi, lui è più rigido, più affilato, non rimane molto della morbidezza di quando eravamo adolescenti, però le ossa rimandano le stesse pieghe, le stesse ombre, ho percorso coi polpastrelli le tue guance, i tuoi zigomi tante volte da ricordarli a memoria.

Alto e affusolato, muscoli netti sul corpo magro, i polsi sono più sottili, le mani più grandi, le dita lunghe, l'anello sull'anula...

Mi stacco.

Guardo la sua mano sinistra.

Mi specchio su una pietra che riluce contro la sua pelle.

– Tooru, ma tu ti... –

– Quest'estate, in America. Proprio un paio di giorni fa stavo dicendo ad Hajime che avrei fatto un ultimo tentativo a cercarti perché ti volevo come testimone di nozze. –

– Davvero? –

Il suo viso sorride, gli occhi brillano.

– Sì, davvero. –

Mando giù un grumo di lacrime.

– Ho visto che stavate assieme su internet, ho letto un'intervista, ma... state insieme da tanto? –

– Tre anni. Sembra un po' poco, lo so, ma certe cose le sai e basta, no? –

Mi riservo un'occhiatina al mio poliziotto.

– Sì, sono d'accordo. –

Tooru mi bacia la fronte, mi stringe di nuovo, poi sospira, lascia cadere le braccia, indietreggia appena. Pare ricordarsi in un istante di dov'è, com'è, e si scusa allontanandosi verso l'ingresso per togliersi le scarpe.

Torna qualche centimetro più basso, mi avvolge le dita attorno al polso, mi tocca come se non volesse dimenticarsi che sono reale, gli sono grato per lo stesso motivo.

– L'ho trascinato qui perché non ero nelle condizioni di guidare, però sono contento che vi conosciate. Kōshi, lui è Hajime, il mio fidanzato. Hajime, lui è Kōshi, l'unico vero amore della mia vita. –

Porto lo sguardo intimidito su un bel paio di occhi verdi.

È bello.

Alto, quanto Daichi o giù di lì, spalle larghe, fisico massiccio, le braccia nude mi convincono del fatto che la giacca troppo larga che Tooru ha ancora addosso sia la sua, l'espressione seria ma serena mi rallegra.

Mi schiarisco la voce.

Tiro Tooru per un braccio, mi rivolgo alla stanza, al ragazzo con cui stamattina mi sono svegliato.

– Lui è... –

Hajime m'interrompe prima che possa finire.

– Daichi Sawamura, tenente colonnello della prima divisione di Nerima, lo stronzo che in congedo mi ha convinto che tatuarsi un drago gigante sulla pancia fosse una cosa intelligente e che mi ha riso in faccia quando dopo mi è venuta la febbre. –

Spalanco gli occhi.

Daichi lo guarda.

– A me la febbre non è venuta, ti meritavi che ti ridessi in faccia. –

– Non è colpa mia se i tuoi anticorpi sono fatti di titanio. –

– Non è colpa mia se tu sei scarso. –

Ridacchiano assieme, uno colpisce piano l'altro sulla spalla, io rimango confuso.

Tooru interviene al posto mio.

– Ma voi due vi conoscete? –

– Eravamo insieme al servizio militare. – risponde Daichi.

– Ma davvero? –

– Già, è una bella coincidenza, devo dire. –

Il mio ragazzo si gira verso quello del mio migliore amico.

– Chi l'avrebbe mai detto che ci saremmo rivisti così, eh? –

– Ah, non dirlo a me. Un'ora fa ero in mutande a letto e ora sono qui con un compagno d'armi a farmi dire dal mio futuro marito che ama un altro uomo più di me. Dio, ho bisogno di un drink. –

– Non è nemmeno l'una, Iwaizumi. –

– Un caffè corretto? –

Tooru scuote la testa, agita una mano in aria, mi stringe le spalle.

– Lascia perdere, Kōshi, fa solo la drama queen, lo sa da quando ci siamo conosciuti che non ha mai potuto competere. –

Rido piano.

– Anche Daichi lo sa. Gliel'ho detto. –

Il poliziotto annuisce.

– Mi sono messo l'anima in pace. –

Alza le mani, ridacchia, sospira.

– In ogni caso, volete fermarvi a pranzo? Non abbiamo niente in casa al momento ma c'è un coreano take-away qua sotto che è più buono di qualsiasi cosa potrei cucinarvi. –

Hajime annuisce.

– Sì, sì, ho fame. Pagami il pranzo, Sawamura. –

– Tu te lo paghi da solo. –

– No, pagamelo tu. –

Daichi mi guarda, fingendo esasperazione.

– Secondo te perché tutti i miei amici sono convinti che io sia una banca? –

Sospira di nuovo, io gli sorrido.

– Io vorrei gli gnocchi di riso con le verdure. E i ravioli vegetariani piccanti. Tooru, tu cosa... –

– Hajime, fai tu. E vedi di pagare per tutti e quattro. – liquida la questione, togliendosi la giacca e mollandola sullo schienale del divano.

– Sì, sì, come no. Scendo con te, ti aiuto a portare la roba. – aggiunge poi rivolto a Daichi, col tono di voce abbastanza alto da poterlo raggiungere in camera dove, credo, è andato a recuperare i calzini.

– Come vuoi! – risponde quello, e prima di poter continuare la conversazione vengo tirato in basso sul divano, fianco a fianco con Tooru che mi si spiaccica addosso, cercando le mie mani, i miei polsi per tenerli fra le dita.

– Da quanto state insieme? – chiede, quasi sussurrando.

Mi ci vuole un attimo per riconnettermi a lui, per rifocalizzarmi sulla sua voce e rispondere.

– Poco. Ci siamo detti per la prima volta che stiamo insieme ieri notte. –

– E vivete già insieme? –

– Sono venuto qui dopo... quello che è successo con... lui. Daichi fa il poliziotto e quando ci siamo conosciuti era... è un po' complicato. Dovrei ricominciare da capo. –

– Ricomincia da capo, allora, voglio sapere tutto. –

– Sicuro? –

– Sicurissimo. –

Annuisco, il mio corpo si ammorbidisce, le nostre mani intrecciate si appoggiano sulle mie cosce, il calore del contatto mi si espande contro.

– Lui era... cattivo. Lo sai che era cattivo. Ma era peggio con me quando eravamo da soli. Quando si arrabbiava... qualche volta era anche... violento. Sai cosa intendo. –

Fa "sì" con la testa, ma non parla.

– Qualche volta la vicina chiamava la polizia. Io dicevo che andava tutto bene, usavo il fatto che fossimo due uomini per rigirare un po' la frittata e finiva lì. Poi una sera è arrivato Daichi ed è cambiato qualcosa. Ha iniziato a venire nel posto dove lavoro. Lavoro in un bar, te l'ho detto? In ogni caso, ecco... – m'interrompo per prendere fiato, per cercare di sistemare le informazioni nella mia testa.

Tooru mi stringe le mani.

– Ha iniziato a venire tutti i giorni, poi una sera siamo usciti anche col mio collega e ci siamo baciati e da lì ho un po' iniziato a capire che mi piaceva... tanto, ecco. Sono andato a casa sua e tra una cosa e un'altra ho salvato una sua foto nel telefono, lui ha trovato la foto e ha provato a... hai capito. Dopo l'ospedale sono venuto qui. Nell'ultimo mese le cose si sono messe a posto. Ora stiamo insieme. –

– Dio, Kōshi. Dev'essere stato l'inferno. –

– Sì, ma ora... –

– Anche se va meglio, dev'essere davvero stato l'inferno. –

Le parole mi muoiono sulla lingua, chino lo sguardo, annuisco piano.

Tooru appoggia i polpastrelli sul mio viso.

– L'hai denunciato? –

– Ancora no. Sto affrontando la cosa con la mia psichiatra. Appena mi sentirò in grado di rivederlo in tribunale sarà la prima cosa che farò. –

– Lo devi fare, lo sai, Kōshi, vero? Quanti anni ti ha tenuto in quel modo, cinque, sei? –

– Dieci, Tooru. –

– Die... eh? –

Spalanca lo sguardo sul mio.

L'informazione si sedimenta nel suo cervello.

Si apre, si ramifica, raggiunge le sinapsi, i pensieri.

– Quindi quando ti diceva di... rimanere più tardi, per... oh, Kōshi, oh, no, ti prego, dimmi di no, dimmi che... –

Non dico nulla, non lo interrompo.

– Quando tu... quando... –

C'è un dolore in lui che provo anch'io, un dolore che non avrei voluto dargli.

Non voglio mentirgli.

Gli sto facendo male.

Non voglio mentirgli mai più.

– Io ero... Kōshi, un paio di volte sono stato invidioso che lui dicesse che tu eri... il suo preferito, e invece tu... lui... –

Tiene la bocca aperta ma le parole rimangono incastrate nel vorticare di pensieri che non si aspettava.

Copro le sue mani con le mie.

– È finita. Non ne potevi niente tu e non ne potevo niente io. Se fossi riuscito a farmi aiutare, Tooru, ora sarebbe tutto diverso, ma ora è finita. –

– Tu lo devi denunciare. Lo devi denunciare ora. Tu lo devi denunciare perché se no io giuro che mi alzo e vado fino in capo al mondo a cercare quel figlio di puttana, Kōshi, in capo al cazzo di mondo e lo sventro come un pesce, Kōshi io ti giuro che... –

– È finita. Tooru, è finita. –

Rimane fermo, inebetito.

Prende fiato.

– Ho il tuo telefono. Quando ti sei fatto male, quel giorno mi avevi chiesto di tenerti il cellulare nel borsone, ti ricordi? Non me l'hai mai più richiesto indietro. Ce l'ho ancora. Là dentro ci sono le cose per denunciarlo, vero? Ci sono? –

Aggrotto le sopracciglia.

Il mio...

Oh, merda.

Il mio telefono, è vero, il mio...

Di quando avevo...

– Non... so, forse c'è qualcosa, forse c'è qualche messaggio, forse... –

M'irrigidisco.

Non provo gioia, nel dirlo.

Provo vergogna.

Non vorrei doverlo dire mai.

Non vorrei doverlo ricordare mai.

Vorrei nasconderlo.

Vorrei...

– C'è un video, Tooru. Mi sa che c'è un video. –

– Un video di che? –

– Di me e lui che... –

– Quanti anni avevi? –

– Sedici. Credo sedici. –

Deglutisce la saliva.

Qualcosa nella sua espressione comunica tutto il disgusto che prova.

So bene che non è per me.

– In Cina ci vado la settimana prossima, alla fine. Domani io, te e il poliziotto andiamo a denunciarlo. Non voglio dirti che la tua dottoressa ha torto, Kōshi, ma... –

– Ok. –

– Ok? –

– Sì, ok. –

C'è un video.

Questo è tutto quello a cui riesco a pensare.

C'è un video.

Il video.

Quel video.

Rivedo la sua faccia sopra la mia mentre mi tiene le mani al collo e ho paura come tutte le mattine, come ogni volta che mi guardo allo specchio, come ogni istante in cui la sua voce mi parla dentro alla testa. Non lo ascolto ma lo sento, certe volte non ci faccio caso, ma lui c'è sempre, è sempre lì.

Però c'è il video.

La paura sfuma, se penso al video.

È inequivocabile.

È inammissibile qualsiasi contestazione.

C'è un video.

Avevo sedici anni.

Lui mi ha...

– Ok, andiamo. Quando torna Daichi glielo dico. Dopo pranzo. –

– Stai scherza... –

– No, non sto scherzando. C'è il video. Se c'è il video c'è il video. Non devo convincere le persone che mi ha fatto... quello, se c'è il video. La dottoressa dice che non sono pronto a farmi sezionare da un avvocato difensore che vorrà vendermi come uno che s'inventa le cose, ma se c'è il video, allora vuol dire che non mi sono inventato niente. –

– Tu non ti sei inventato niente, Kōshi, a prescindere da quello che potrebbe dire un avvocato dife... –

– Ma c'è il video. Ora è sicuro. –

Mi guarda con tenerezza.

Io riesco a pensare solo al video.

Che schifo, che schifo, non voglio che ci sia, non voglio che lo vedano, non voglio che esista, che schifo, mi fa.

Però c'è.

È lì.

Fa schifo.

Mi fa schifo.

Vedrete quanto fa schifo.

Vedranno quanto...

– Kōshi, vieni qui. –

Tooru mi abbraccia.

Sto tremando di nuovo.

Sto di nuovo crollando in lacrime.

Non me n'ero accorto.

Non mi ero...

– Sono felice che tu sia al sicuro, Kōshi. – mi dice, spazzandomi via i capelli dal viso.

Lo guardo.

Piango.

Rido mentre singhiozzo.

– È grazie a te. Sono al sicuro perché c'è Daichi e ora sarò al sicuro perché sei tornato anche tu. Starò così al sicuro, Tooru, quando lui sarà in prigione. Al sicuro sempre. Potrò andare a lavoro da solo, ci credi? –

– Ci credo, ci credo. Tu ci credi? –

– Forse. –

Lo stringo forte al mio petto.

– Forse ci credo. –

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───

ciao cuori ve l'avevo detto che sarebbe arrivato tooru e menomale che c'è tooru perché noi amiamo tooru e niente ditemi che ne pensate se vi è piaciuto

io scappissimo che ho lezione

un mega bacio

spero di riuscire a finire la storia entro sabato prossimo !!

juls <3

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