𝗰𝗵𝗶𝘂𝘀𝗮 𝗶𝗻 𝗳𝗼𝗻𝗱𝗼 𝗮𝗴𝗹𝗶 𝗼𝗰𝗰𝗵𝗶 𝘁𝘂𝗼𝗶
di nuovo il popolo di instagram mi ha chiesto di anticipare la pubblicazione e again since il capitolo era pronto eccolo qui; sappiate però che il prossimo uscirà come da programma venerdì 28 perché ancora devo finirlo e non posso garantire di riuscire ad anticipare anche quello (nel caso lo finissi vediamo, ma non voglio darvi false aspettative)
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– C'è qualcosa che non va, col tuo barista, Daichi. –
Non guardo Asahi, quando mi parla, gli rispondo continuando a camminare sull'asfalto.
– Tu preoccupati del tuo, che mi pare abbastanza strano anche lui. –
– No, non in quel senso. Intendo... –
Fa una breve pausa per ragionare, forse, per trovare le parole giuste.
Il semaforo ci diventa rosso di fronte agli occhi. Mi arresto, il mio amico con me, rimaniamo fermi in attesa sul bordo del marciapiede.
– L'ho visto poco, ieri, quindi magari sto sparando una marea di stronzate. Ma quando vi siete salutati, quando siamo usciti, ti ha guardato come se fosse disperato. Come se fosse sul punto di piangere. Tu lo conosci da più tempo, tu ci hai parlato, sta bene? Sei sicuro che stia bene? –
Sospiro.
– Per rispondere alla tua domanda dovrei raccontarti gli affari suoi, ti voglio bene, Asahi, ma non credo di avere alcun diritto di farlo. –
– Ok, ho capito. –
Tace di nuovo, è fatto così, di natura pacata, riflessiva ed empatica, misura le cose che dice, le saggia sulla punta della lingua, in antitesi con un aspetto che alle volte ricorda più un gangster che un poliziotto, il mio migliore amico è una persona sotto ogni punto di vista estremamente delicata.
– Tu stai bene, invece? –
– Io? –
– Sì, tu. Stai bene? –
La luce muta il suo colore scarlatto in un brillante verde fosforescente, precedo Asahi, cammino per primo, ma non lo distanzio di molto, quei pochi centimetri che ci separano gli permettono di raggiungermi subito.
– Non lo so. Sinceramente, non saprei cosa dirti. Non sto male, questo è certo. –
– Ma non stai nemmeno bene. –
– No, non sto nemmeno bene. –
Aggrappa le dita alla manica della mia giacca di jeans, mi tira piano verso di sé, lascia andare dopo un istante.
– E lui c'entra? Quel ragazzo, intendo. –
– Col fatto che io non stia bene? –
– Sì, esatto. –
Ci penso su.
C'entra, Kōshi, con questo?
Dire di no sarebbe una menzogna.
Ma neanche dire di sì mi darebbe l'impressione di star dicendo la verità.
È più complicato.
Più...
– Credo che averlo conosciuto abbia cambiato qualcosa, non in peggio, nemmeno in meglio. Ha messo in moto qualcosa che c'era già ma stava semplicemente lì, non so se mi spiego. C'entra, ma non ne è responsabile. –
– Ti ha fatto tornare alla mente cose che non credevi avessero importanza? –
– Sì, ha scongelato dei problemi che non mi ricordavo di avere. –
– Mmh, ok. –
Svoltiamo all'angolo, ho una familiarità con questa strada che quasi mi sorprende, i miei passi si fanno più veloci, più ravvicinati, impazienza dentro di me che non so bene come interpretare, non è solo l'impazienza di vedere qualcuno che mi piace.
Kōshi mi suscita impulsi diametralmente differenti, dipanarli è difficile, trovar loro un senso ancora di più, non sentirmi in colpa di quel che provo, poi, praticamente impossibile.
Non è solo l'attrazione.
Non è come mi sento normalmente quando ho l'occasione di vedere qualcuno che mi piace.
Kōshi non è solo qualcuno che mi piace.
Kōshi è qualcuno che istintivamente sento di dover proteggere e so, mi rendo conto, che non dovrei mischiare le due componenti perché lui non ha bisogno di me che mi trafiggo per aiutarlo e me che non riesco a far finta che non mi piaccia ma provo tutte e due le cose, e non voglio fare la parte del principe azzurro, ma indubbiamente vorrei aiutarlo.
L'impazienza, è anche questo.
La malsana idea che fuori dalla mia portata lui non sia al sicuro.
La pulsione, l'ossessione quasi, di sapere dov'è e che cosa fa per poter avere la matematica certezza che non sia in pericolo.
Io non sono come mio padre.
Io non sono come il suo fidanzato.
Io non sono così, io non voglio possedere una persona, io non credo nemmeno che si possa possedere, una persona, io non alzerei mai le mani, io non rinchiuderei mai qualcuno, io non sono come loro, ma mi sento male quando non è con me, e ho paura di questo, perché mi sembra comunque l'atto di impormi.
Vorrei tanto parlarne con Asahi.
Vorrei terribilmente poter prendere una birra ghiacciata dal frigorifero e sedermi sul suo divano e dirgli tutto, vomitagli addosso ogni pensiero, ogni riflessione, ogni paura.
Non potrei farlo senza dover confessare segreti di un'altra persona, e ho deciso che degli spazi di Kōshi, se necessario, sarò il primo ad avere rispetto.
Questa cosa, però, forse è un po' troppo grande persino per me.
– Mi rendo conto che tu non possa parlarne troppo, ma casa mia è sempre aperta, vieni a piangermi addosso come quando ti ha lasciato il tuo ultimo tipo, se ti serve. – scherza poi il mio amico, cercando di alleggerire l'argomento.
– Casa tua rimarrà sempre aperta ora che quel ragazzino ti ha messo gli occhi addosso? –
– Chi, Noya? –
– Non conosco altri ragazzini. –
Mi riserva uno sguardo truce, per quanto truce possa essere se fatto da lui che dentro è più morbido di una coperta di piume.
– Ha ventun anni, Daichi, non è un ragazzino. Non farla sembrare inquietante. –
– Ventuno? Gliene avrei dati diciassette al massimo. –
– No, ne ha ventuno. Va per i ventidue. Se lo guardi da vicino si capisce che è un adulto. –
– E quanto da vicino l'hai guardato, fammi capire. –
– Se ti devo dire la verità non tanto, è talmente basso che mentre mi parlava riuscivo a vedergli solo il centro della testa. – ribatte, toccandosi la parte superiore del capo per farmi capire cosa intende.
Ridacchio al gesto, faccio spallucce.
– Comunque non ne ho idea, l'altro giorno oltre a tirarmi una porta in faccia e a parlare così in fretta che avevo paura gli sarebbe venuto un attacco d'asma non è che sia successo granché, quindi davvero, sono confuso tanto quanto te. –
– Non ti ha chiesto il numero? –
– Ad un certo punto credo volesse farlo, ma dopo aver tirato fuori il telefono si è messo a parlare di tutt'altro e... ho l'impressione che se ne sia dimenticato. –
– Perché non gliel'hai chiesto tu? –
Si morde l'interno della bocca, sfugge al contatto visivo.
– Lo sai che sono timido. –
– Ma è solo per timidezza che non gliel'hai chiesto o non è il tuo tipo? –
– Daichi, ci conosciamo da quasi dieci anni. Lo sai che è il mio tipo. –
– Sì, lo so, volevo solo sentirtelo dire. –
Gli sorrido con soddisfazione e lui continua ad evitare il mio sguardo, arrossisce ancora di più, sospira.
– Sei uno stronzo. –
– Sei tu che sei troppo facile da prendere per il culo. –
Svoltiamo di nuovo, prima che anche solo possa assestare lo sguardo sulla saracinesca del bar, la voce di Noya m'invade i timpani. Sta urlando qualcosa, è difficile distinguere cosa, ma continua a bussare contro il vetro, l'assenza di Kōshi per qualche istante mi spaventa.
Si è tirato indietro?
Ha avuto paura?
Il suo ragazzo è rimasto a casa?
Magari l'ha scoperto.
Magari ha capito cosa voleva fare.
Magari ora, magari ora è...
Esce dalla porta con cautela, la apre e se la richiude alle spalle, quando si gira i suoi capelli si spostano con lui, la luce calda del tramonto tinge il suo corpo di un colore tenute, morbido, a metà strada mi fermo, pressoché incantato, a cercare, carpire, bere ogni dettaglio.
Oh, no che non lo so io, cosa provo per te, o perché lo provo, o se è giusto o meno che io lo faccia. No che non ne ho idea, di come affrontarti, di come aiutarti, di come capirti, di come dirti cosa ci sia dentro di me.
Ma mi togli il fiato.
Mi lasci senza parole.
Mi fai fermare il cuore, e non so se voglio che riparta, o se preferisco rimanere cristallizzato, qui, a guardarti essere semplicemente come sei, perché sei perfetto, e trovo in te dettagli di una bellezza che non avrei mai creduto potesse essere reale.
Fili d'argento fra i capelli, il colore freddo e intenso degli occhi, luce che riflette sulla tua pelle chiara da sembrare trasparente, lattiginosa. Le ciglia lunghe calano lacrime di ombre sull'incavo delle guance, le labbra piegate in quell'espressione che cerca disperatamente di essere felice, probabilmente non sa nemmeno come farlo. Eleganti, i movimenti, armoniosi, vestito per vestirti, oggi, non per coprirti, con i jeans un po' larghi che ti fasciano la vita, la maglietta troppo grande infilata sotto la cintura, qualcosa di dolce, profumo, che circonda la tua figura.
Ci separano chilometri, Kōshi.
Sei qui di fronte a me ma mi sembri lontanissimo, irraggiungibile, intoccabile.
Cristalli di brina che rilucono sui fili fragili della tela di un ragno, un tempo forse avevi le ali cangianti come quelle delle farfalle, ora chiuso in quel bozzolo, di te rimane l'esoscheletro, la paura che anche se avresti dovuto vivere un giorno, non hai il diritto di fare nemmeno quello.
Ad ogni passo che cerco di fare la stretta su di te si comprime.
Ad ogni centimetro che percorro hai preso tanto l'abitudine ad essere ingabbiato che ti rifugi nella tua gabbia, è un dolore che conosci, non ne hai paura, ti sei arreso.
Ti ho teso una mano, due settimane fa, bussando alla tua porta di notte, entrando con te nel tuo inferno.
Non l'hai presa.
Sei tu che devi tenderla a me.
Vorrei che ti fidassi tanto da sapere che lo facessi, la prenderei.
Fai anche solo un gesto dalla mia parte.
Coprirò la distanza che ci separa correndo.
Chiama.
Ho la sensazione che da te, tornerò sempre.
Decidi che meriti di essere aiutato.
Solo allora, potrò effettivamente aiutarti.
Asahi mi stringe il polso, mi trascina in avanti, riprendo consapevolezza di me poco a poco, più mi avvicino a Kōshi, più mi rendo conto che merita da me più attenzione, più interesse, di questa versione annientata ed incantata che lo fissa senza parole. Riprendo il controllo dei miei pensieri, cerco di fare ordine nella testa, inspiro profondamente, torno in me.
Noya agita le mani verso la serranda aperta, ci accostiamo in un attimo, Asahi lo raggiunge, Kōshi raggiunge me, entrambi guardiamo divertiti, forse un po' imbarazzati, mani piccole che prendono mani più grandi e se le allacciano in vita, un corpo sottile tirato su, braccia che finalmente, raggiungono il metallo per spostarlo verso il basso.
– È motorizzata. La chiusura, dico. Abbiamo un telecomandino. – mi sussurra Kōshi, guardando la scena a fianco a me.
– Credo non dispiaccia a nessuno dei due. –
– No, infatti farò finta che non sia mai esistito. –
– Perfetto, credo che farò così anch'io. –
Le nostre spalle si sfiorano.
Prendo un briciolo di coraggio.
– Stai benissimo, stasera, comunque. Davvero benissimo. –
Kōshi alza un angolo della bocca, mi squadra.
– Neanche lei se la cava male, agente. –
Aggrotto le sopracciglia.
– Cos'è, un gioco di ruolo? Avrei dovuto portare il distintivo? –
Kōshi ridacchia, abbassa lo sguardo.
– Sarebbe bastata la pistola. –
Spinge la spalla contro di me, poi si sposta, fa mezzo passo in avanti, mi supera. Gira solo il volto, mento che tocca la clavicola.
– Anche la divisa, sai. Con le manette e tutto. Non credo mi dispiacerebbe tanto farmi arrestare, in quel caso. –
Ricomincia a camminare, raggiunge gli altri, mi devo deliberatamente costringere a procedere per evitare di crollare come un cretino e iniziare a pregare divinità in cui nemmeno credo.
C'è questo qualcosa di sibilante, di velenoso, di divertente, rinchiuso dentro di lui, che mi fa cedere le ginocchia. Qualcosa di frizzante, di affilato, l'accenno di un carattere perspicace, a tratti dispettoso, tanto represso da sbucare in minuscole frazioni di secondo. Lo schiaccia subito, lo castiga dentro di sé come se ne provasse vergogna, se lo disprezzasse, se avesse imparato prima o dopo di non doverlo assecondare mai, ma c'è, e io lo vedo e mi fa impazzire.
Di più, Kōshi.
Ancora.
Ti prego.
Ti imploro, Kōshi, di più, ancora, ancora di più.
Mi elettrizza.
Lo seguo in silenzio, facendo aria in un cervello che pare star per morire asfissiato, quando Noya e Asahi iniziano a camminare, li seguiamo. Ci vuole qualche secondo perché io e Kōshi ci ritroviamo di nuovo vicini, ma quando succede cerco di non guardarlo negli occhi, non sono in imbarazzo, ma non è del mio non sapermi tenere le emozioni dentro, che ha bisogno adesso.
– Allora, com'è andata la vostra giorna... – cerco di dire.
– Uno schifo! Uno schifo colossale! – urla Noya, prima che possa finire, o dirigere la domanda più chiaramente verso chi mi sta accanto.
Ridacchio fra me e me.
– Come mai? –
– È venuto un gruppo di ragazzini delle medie, maschi, brutti, tutti uguali. Mi hanno chiesto una cazzo di coca cola e quando ho detto loro che era nel cazzo di frigo all'ingresso hanno preteso che gliela andassi a prendere. Suga era in pausa pranzo quindi ho dovuto farlo perché da solo ho la spina dorsale di una stella marina ma quando gli altri hanno ordinato il caffè ero a tanto così da sputarci dentro. Poi hanno fatto casino nel locale per almeno un'ora e mezza. E non mi hanno mollato manco un piccolo yen di mancia. – sbraita, tutto attaccato, senza prendere fiato.
Kōshi gli afferra le spalle da dietro, le stringe piano.
– Dovevi venire a chiamarmi, Noya. –
– Sì, come no, così non mangi nemmeno a pranzo e mi muori di fame. Col cazzo. Secondo me dovremmo assumere almeno un'altra persona. E che magari sia tipo uno di voi due, grande e grosso, tipo spaventa-passeri, sì, uno spaventa-stronzi. Conoscete qualcuno? –
Asahi fa per rispondere.
Io mi concentro su tutt'altro.
– "Nemmeno a pranzo"? – chiedo al ragazzo che mi sta a fianco, riferendomi alla prima frase, non a tutto il resto.
– Parlava del fatto che ieri non ho cenato. Nulla di che. – tampona lui.
– Come mai non hai cenato? –
Un velo gli offusca lo sguardo.
Non so se siano lacrime, tristezza, un'ombra passeggera, un ricordo.
Manda giù, prima di rispondere.
All'accademia ti insegnano che è uno dei segnali più chiari che qualcuno sta mentendo.
– Non stavo tanto bene. –
Si infila di nuovo nella conversazione.
Io guardo il vuoto, cammino senza rendermi conto effettivamente di cosa mi circondi.
Anche la mia mamma non mangiava.
Qualche volta lui le diceva di non farlo.
Una sera lei era tornata da lavoro con un paio di orecchini nuovi alle orecchie, li aveva comprati mesi prima, lui se n'era semplicemente dimenticato.
Le aveva chiesto come mai fosse uscita così.
Le aveva chiesto cosa fosse andata a fare invece di lavorare.
Le aveva detto che lui si spaccava la schiena per permetterle di mangiare, ma che lei era un'ingrata, che non faceva un cazzo, che non meritava che lui si sforzasse per lei.
Dava da mangiare a me soffocando le lacrime, la mia mamma.
Le avevo messo la mia barretta al cioccolato della merenda sotto al cuscino, a pranzo non l'avevo mangiata, e avevo paura che lei avesse fame.
Ha dovuto lavare le lenzuola e le federe due volte, ci si era sciolta contro.
Però mi aveva detto che l'unica cosa buona che quell'uomo avesse fatto, ero proprio io.
Mi mordo l'interno della bocca.
– Stasera offro io, però voglio vedervi mangiare tutti. Dentro di me mi sento un po' una nonna apprensiva, se non mangiate crederò che stiate per morire, quindi assecondatemi o mi metto a piangere. –
– Ah, non ti preoccupare, io mangio come un porco se non devo pagare. – risponde Noya, che contrariamente a quanto appena dichiarato, mi preoccupa poco, quanto cibo potrà mai entrare in quel corpo così compatto?
È l'altro, che mi preoccupa.
L'uomo che si gira e alla prospettiva di cibo gratis s'illumina come una luminaria di Natale.
– Offri tu, Daichi? –
– Ho detto che offro io, Asahi. –
– Tutto tutto? –
– Tutto tutto. –
– Ti faccio povero, cazzo. – borbotta, e si rigira, e io già piango perché non sono in difficoltà economiche, è vero, ma non è nemmeno che possa pulirmi le lacrime con le banconote.
In ogni caso, qualsiasi problema io possa aver anche solo pensato di avere, viene completamente eroso da dita chiare che si stringono attorno al mio mignolo, è delicato, intimidito, ma c'è.
– Grazie, Daichi. –
Mi specchio nei suoi occhi.
– Non ringraziarmi, Kōshi, mi fa piacere. –
Sorride.
Continua a camminare.
Non lascia andare la mia mano.
Non ringraziarmi davvero, non farlo, te ne prego.
Se continui così, ho la sensazione che mi offrirei io stesso di essere cucinato per farmi mangiare, tanto disperato sono dal volerti vedere ripetere questa reazione ancora e ancora.
Al locale ci sediamo io e Kōshi da una parte, Asahi e Noya dall'altra. È un posto piccolo, tipico, le pareti trasudano salsa di soia e i camerieri non parlano una parola della nostra lingua, non siamo gli unici giapponesi seduti, ma per la maggior parte ci sono persone del posto. Sorrido, quando me ne accorgo, sono tutti segnali che un ristorante non è etnico solo di nome, ma proprio di fatto. Non ci portano i menù, paiono conoscere abbastanza bene le due persone che ci hanno invitati qui, quando il cameriere arriva, Noya lo liquida con un sorriso a trentadue denti, una sfilza di piatti che ci assicura "vi piaceranno, e se non vi piacciono li mangio io" e due bottiglie di sakè.
Arriva prima da bere che da mangiare.
Verso il liquido trasparente nei bicchierini per tutti, il vetro si scontra su altro vetro, beviamo tutti insieme, l'atmosfera si fa più conviviale.
Il ginocchio di Kōshi e il mio si toccano.
Asahi e Noya si mandano qualche occhiatina di sottecchi che tutto è tranne che discreta.
L'alcol scorre come l'acqua, bottiglia inclinata, mandiamo giù, nessuno è particolarmente influenzato, ma il sangue un po' si scalda, chiedono se c'è tempo per uscire prima che arrivi da mangiare, il cameriere annuisce, non sono del tutto certo che abbia poi capito la domanda, il mio migliore amico e il barista un po' strano si defilano, "Noya va a fumare", ma è vero?
Io e Kōshi rimaniamo da soli.
Non è sbronzo, nemmeno brillo, ma l'alcol tira giù qualche difesa.
Si regge il capo con una mano, mi guarda negli occhi, non si scosta, un ventiquattrenne normale, senza lividi, senza catene, m'immergo nella normalità allucinata di tutto questo, vorrei affogarci dentro, vorrei che ogni volta che fossimo insieme il mio cuore fosse tanto leggero quanto lo è ora.
Mi fissa fra le ciglia.
Il suo sorriso si apre come un gatto che si stiracchia la schiena.
Mi colpisce con la gamba, quasi ad attirare la mia attenzione, che è sempre e comunque completamente volta a lui.
– Daichi? –
– Dimmi. –
– Fa caldo qui dentro, non credi? –
– Vuoi uscire? –
– No, sto bene qui seduto. Solo... –
S'interrompe, forse si sta chiedendo se può dire quel che gli passa per la testa.
Può, con me, può sempre, quindi lo incalzo.
– Solo...? –
– Non è il caso che ti togli la giacca? Poi sudi, no? –
– In realtà io devo dire che... –
– Togli la giacca, Daichi. –
Rido fra me e me, cerco attenzione dalle sue pupille che non paiono volermi fissare direttamente.
– Sei preoccupato per la mia salute? –
– Tremendamente. –
– Sei sicuro che non sia solo per guardarmi le braccia? –
Aggrotta il naso e scuote la testa.
– Ma che dici, ti pare? Non te lo chiederei mai, per quello. –
– Se ti dicessi che sotto ho una maglia a maniche lunghe? –
– Ti chiederei di toglierti anche la maglia. Sai com'è, c'è un caldo atroce, qui dentro. –
Mi sorride, gli sorrido di rimando.
Rimango incantato per un attimo a guardare la sua espressione, a quanto pare troppo perché non ritenga necessario ripetere l'invettiva, si sporge dalla mia parte, batte piano la sua fronte contro la mia.
– Si tolga la giacca, agente, se la tolga subito o giuro che rapino questi poveri camerieri e li lascio tutti in mutande. –
– In nome della legge non posso proprio permettere che questo accada. –
– Ben detto. – mi risponde, e siccome ancora sono troppo lento e ancora non ho capito l'antifona abbastanza in fretta, mi tira via dalle spalle il tessuto spesso.
Assecondo il suo movimento, sfilo le maniche, lascio l'indumento mezzo appeso sullo schienale della sedia, torno a Kōshi che ha smesso di trovare interessante parlarmi guardandomi in faccia.
– Fletti il muscolo. – mi ordina, poi.
Le mie sopracciglia si alzano.
– Eh? –
– Fletti il muscolo. –
Non piego il braccio, solo lo giro appena per contrarlo.
Kōshi tocca con la punta di un indice la mia pelle.
Sporge il labbro inferiore annuendo.
– Lei è davvero molto allenato, agente. Sono contento di sapere che c'è lei a mantenere l'ordine, là fuori. –
– Perché sono molto allenato, sei contento? –
– Anche l'occhio vuole la sua parte, no? –
Apre una delle mani, appoggia il palmo contro la mia pelle, strizza un paio di volte.
– Dio, ma tutta quella cioccolata che ti ho fatto bene per due settimane dov'è finita? Cos'è, sei geneticamente impossibilitato a prendere peso, tu? –
– No, in realtà lo prendo piuttosto facilmente. –
– Sì, ma se è muscolo non vale! –
Ride, rido anch'io, mi lascia andare, rilasso il braccio, lui scosta la mano.
– C'è una fila fuori dalla centrale di gente che le sbava dietro, agente, dica la verità. – scherza poi, e di rimando faccio spallucce.
– Meno di quanto tu creda. –
– Beh, meno di un milione di persone è comunque tanto. –
– Non c'è un milione di persone che mi sbavano dietro, Kōshi. –
– No? –
Allunga una mano per prendere il suo bicchierino di sakè, quando si rende conto che è vuoto se ne versa un po'. Lascia che la bottiglia penda dalla mia parte ma scuoto la testa, l'alcol mi sale in fretta, prenderò comunque i mezzi per tornare a casa, ma la situazione è troppo delicata perché possa concedermi di perdere i freni inibitori. Sorride e beve, sposta lo sguardo verso i posti vuoti di Asahi e Noya.
– Dici che stasera vanno a casa insieme? –
– Mah, Asahi è un tipo romantico, non saprei. –
– Noya è un assatanato, potrebbe chiederglielo. –
– Se glielo chiede allora di sicuro, romantico sì, scemo no. –
Nasconde una risata fra le nocche di una mano.
– Qualche volta vorrei essere come lui. –
– Asahi? O Nishinoya? –
– Noya. Non che non abbia avuto anche lui la sua parte di schifo, nella vita, ma è così forte, così a suo agio. Nessuno riuscirebbe a farlo smettere di essere se stesso. –
– Perché, con te qualcuno ci è riuscito? –
Mi guarda con la coda dell'occhio.
Si versa altro sakè.
Manda giù con un gesto netto del polso.
– Nessuno può impedirmi di essere me stesso, Daichi, perché non ho idea nemmeno io di chi io sia. –
– Credo... tu sia la versione di te stesso che ti piace di più. –
– La versione di me che mi piace di più? Credi che ce ne sia una di me che mi piaccia? –
– No? –
Beve di nuovo.
Sento Noya e Asahi rientrare perché la voce del primo sommerge le ordinazioni e il vociare dei commensali.
Kōshi mi parla con un tono sommesso, mormorato, e forse parla a se stesso, non a me.
– Vorrei essere chiunque tranne che me stesso. –
Il suo collega e il mio si siedono al tavolo.
Cominciano subito a parlare d'altro.
Non reagisce, quando gli accarezzo la schiena.
Ma forse un po', si lascia andare contro di me.
Noya mangia l'inverosimile. Mi tiro un calcio immaginario da solo al pensiero che l'avevo reputato piccolino e quindi non uno che mangia tanto. Mangia come se non vedesse cibo da giorni, con quel visetto sottile tira su quantità di cibo mai viste, piango dentro me stesso al pensiero del mio povero portafogli, niente risparmi, questo mese, mi sa che me li sono giocati tutti in questo momento.
Asahi pareggia il tiro, più prevedibilmente vista la stazza, e io non sono da meno, Kōshi ha meno appetito ma se gli portano un piatto lo finisce quasi con diligenza, il cibo passa, scompare, torna, scompare di nuovo.
Al secondo piatto di pad thai Kōshi alza le mani, io mi stanco al terzo, Asahi e Noya si sfidano col quarto, il mio migliore amico fatica, il piccoletto sembra star passeggiando su un piacevole sentiero di montagna, tira su gli spaghetti con le bacchette, se li schiaffa in bocca, manda giù e sorride. Lo finiscono entrambi, uno col fiatone, l'altro battendosi la pancia come se fosse molto soddisfatto della sua impresa.
Di sakè abbiamo preso una terza e una quarta bottiglia.
Io non ne ho più bevuta una goccia.
Il ragazzo che mi sta accanto, da solo, credo abbia fatto fuori quasi due bottiglie e mezza.
Sbronzo non sembra, risponde coerentemente alle domande, sa dov'è, ma è allegro, è alticcio, qualche parola se la mastica, qualcun'altra se la dimentica, è più espansivo, ride più forte.
Quando Noya dichiara di volere dei gamberi fritti e degli involtini di carne, mi sento male per lui.
Asahi spalanca gli occhi.
Kōshi ridacchia e basta.
– Sì, sì, quello che vuoi, tanto paga Daichi coi soldi del ministero della giustizia. Però io esco un attimo. Mi dai una sigaretta? – gli dice, sporgendo un braccio chiaro dalla sua parte.
Noya annuisce, si cerca nelle tasche dei pantaloni il pacchetto.
Mi guarda.
– Tu fumi? –
Scuoto la testa.
– No. –
Dà una sigaretta a Kōshi, gli lascia l'accendino, quello fa per alzarsi ma prima mi spinge piano verso l'uscita, l'avrei seguito anche se non me l'avesse chiesto, quantomeno per sicurezza, ma sono contento che l'abbia fatto.
Lo precedo nel locale, m'infilo fra le persone che ora si sono moltiplicate, qua dentro, mi si aggrappa con le dita ad un polso, per un attimo, uno solo, ci stiamo quasi dando la mano.
Apro la porta e mi faccio di lato perché esca per primo, mi sorride come a prendermi in giro per il gesto di cortesia, passa, passo io, la richiudo alle nostre spalle.
Mi prende di nuovo il polso, poi.
Mi trascina qualche metro più avanti.
S'infila in un vicolo, schianta la schiena contro il cemento di uno dei due muri che lo formano, mi guarda come a dirmi di raggiungerlo e mettermi vicino a lui e lo faccio, col sottofondo della pietrina dell'accendino che sfrega per creare la fiamma.
Accende la sigaretta.
Prende un tiro.
Guardiamo entrambi la nuvola che tinge l'aria che gli sta di fronte.
– Ti dà fastidio che io fumi? –
– No. –
– Lui lo odia. –
– Lui chi? –
– Lo sai chi. –
M'irrigidisco.
L'alcol ormai ha fatto il suo corso, mi sento lucido, perfettamente lucido, la reazione è totalmente naturale, non tinta da nulla che possa alterare la mia percezione.
– Dice che mi puzzano i vestiti, poi, che mi fa male alla salute, che mi rende poco attraente. Ha ragione, sai, lo dice per me. –
Non dico niente.
Non sento di avere il diritto d'interromperlo.
– Fumo solo quando io e Noya andiamo a cena. Una sigaretta il mercoledì sera, questo è quello che sono ridotto a fare per guardarmi allo specchio e dirmi che ho ancora un briciolo di controllo su me stesso. È patetico, no? Quattro volte, torno a casa e mi lavo i denti quattro volte. Metto tutto subito in lavatrice. Non vado a dormire finché non ha finito, stendo i panni, metto la sveglia all'alba, li piego e li rimetto a posto prima che torni. –
Prende un tiro lungo, a pieni polmoni, tossisce appena.
– Non gli piace nemmeno che beva. Chiacchiero troppo quando bevo. Anni per imparare a tenere la boccaccia chiusa e basta una goccia di alcol perché inizi a straparlare come un ragazzino. Quello che dicevi tu, il mio... carattere, ecco, qualsiasi cosa sia. Esce dopo un paio di sorsi. Non bevo mai. –
Batte via la cenere che si schianta per terra.
– Sai cos'altro mi succede, quando bevo? Mi sento più bello, non so, mi sento più sicuro di me, mi scaldo, mi eccito. Cerco il contatto fisico, ho voglia di fare sesso, sì, quando bevo mi succede. –
Vorrei che suonasse come un flirt, so che non lo è.
– Dice che faccio la troia, quando bevo. Che mi lagno e che mi metto in mostra. A che serve? Per gli altri? Lui non ha bisogno che io sia così, e allora per chi lo sono? Per altre persone? Per altri uomini? Detesta fare sesso con me, quando ho bevuto. –
Si guarda le punte delle scarpe dall'alto.
– Ho l'impressione che gli piaccia solo quando sa che a me non piace. –
Ride fra sé e sé.
È una risata di scherno, però.
Nei suoi stessi confronti.
– Vieni qui, Daichi. –
– Dove? –
– Qui, davanti a me. –
Guidato dalla sua volontà, non dalla mia, mi spingo in piedi distaccando la schiena dal muro, faccio un passo dalla sua parte, mi giro verso di lui. Aggancia i passanti dei miei jeans con le dita, mi tira più vicino, si rinchiude fra il mio corpo e il cemento su cui preme le spalle.
Prende fiato.
– "Suga, perché canticchi sotto la doccia?", "Suga, sorridi, cos'è successo?", "Suga, come mai ha messo questa maglietta per uscire, oggi?", "Suga, c'è qualcosa in te che mi sembra un po' diverso, cos'è che fai al lavoro quando non posso vederti?", "Suga, sai che forse potresti lasciare il lavoro?", "Suga, stai qui dentro, Suga, stai dove ti posso vedere, stai solo dove ti posso vedere, non uscire da questo cazzo di posto dove io so chi sei, e tu non ne hai un'idea". –
– Suga... – tento di dire, ma m'interrompe.
Mi serra il mento con le dita, pianta gli occhi sui miei con una violenza che in quel suo modo di fare così remissivo, non avevo mai nemmeno intravisto.
– Io sono Kōshi per te. Non "Suga". Kōshi, Daichi. –
Annuisco, mormoro delle scuse.
Non lascia andare il mio viso.
Prende un altro tiro, soffia il fumo da una parte, per non buttarmelo addosso.
– Mi guardi sempre come se sapessi esattamente cosa sta succedendo, Daichi. Chi è che l'ha passato, eh? Tu? Qualcuno che conosci? – chiede poi, la voce più rigida del solito, più impositiva, più salda.
Inspiro una boccata d'aria.
– Mia madre. –
– Con te in casa? Quando eri piccolo? –
– Sì. –
– Lui chi era, tuo padre? –
Annuisco.
Fuma, scarica la cenere, mi tiene fermo là, appeso di fronte al suo viso, mi volessi liberare ci metterei meno di un secondo, ma non voglio.
– Tu sai che io non sono tua madre, vero, Daichi? –
– Lo so, lo so che non sei mia madre. –
– Lo sai per davvero? –
– Lo so. Te lo prometto. Lo so. –
Stringe le labbra, piega il capo, mi squadra in viso.
Di colpo mi sorride.
Meno predatorio, più dolce.
– In un'altra vita ti sarei morto dietro dal nostro primo incontro. In un'altra vita ci saremmo incontrati che ne so, in una libreria, e avresti preso il libro più alto per me. Ti avrei guardato come le protagoniste delle serie TV guardano il giocatore di football del liceo e avrei scritto i nostri nomi con la penna glitterata sul mio diario. Quanto sarei stato cotto di te, in un'altra vita. –
L'aria nei miei polmoni entra tremando.
– Perché in questa no? –
– Perché in questa non sono niente. Non valgo un cazzo. Dove sono è l'unico posto dove posso stare. –
– Kōshi, non è vero che... –
– Però possiamo fare finta, no? – m'interrompe.
Non capisco cosa intenda.
– In che senso? –
– Possiamo fare finta che questa sia un'altra vita, solo per cinque minuti, magari. Facciamo finta che io non sia io. Facciamo finta che non sia successo niente. Facciamo finta che sia tutto diverso. –
Prende l'ultimo tiro, la carta bianca si esaurisce contro quella arancione, spegne il mozzicone contro il muro, gli cade dalle dita per terra.
Apro la bocca per chiedere, perché ancora non capisco ma mi precede, apre le mani sulle mie spalle, stende le braccia fino a sfiorarmi la nuca, mi tira verso di sé, mi guarda dal basso. Si avvicina alla punta del mio naso, respiriamo lo stesso minuscolo universo d'aria che ci separa.
– Fai finta che io sia qualcun altro, qualsiasi persona tu voglia, tranne me. –
– Io non voglio fare finta. Io non voglio qualsiasi persona tranne te, Kōshi. –
– Allora fai finta che sia io ma normale, tranquillo, un classico ventiquattrenne a caso. –
– Non voglio fingere nemmeno questo. –
Increspa le sopracciglia, fissa lo sguardo sulle mie labbra.
– Allora stai zitto. Stai zitto e lasciami illudere per un attimo. –
– Kōshi, io... –
È lui che bacia me.
È lui che si spinge in alto sulle punte dei piedi e preme le labbra contro le mie, è lui che mi stringe il collo come se si stesse aggrappando per non cadere, lui che mi cerca, e io per un secondo sto fermo, congelato, immobile.
Poi è il mio corpo, a reagire, non la mia mente, il mio corpo che sente il bisogno di toccare, di tastare, di tenere. Scorro con le dita sul suo viso, sulla pelle liscia, morbida, sui capelli che sembrano seta, sulle spalle sottili, sulle costole. Incastro il viso col suo, apro le labbra, il vicolo è poco illuminato, sembra un angolo di mondo dimenticato da tutti, incastrato qui dove non ci vede nessuno, mi convinco di avere una libertà che in realtà non possiedo.
Kōshi sa di fumo e sakè, e di qualcosa di suo, di buono, non so bene cosa. Kōshi bacia con disperazione, come se non mi stesse baciando in un gesto d'affetto quanto in un gesto d'odio, di rancore, di rabbia. Mi bacia come se ci fosse lì dentro una vita intera che lui non ha avuto, che crede di non meritare, che non gli apparterrà mai, come se volesse sapere a tutti i costi com'è, come sarebbe potuto essere, come sarebbe potuta diventare.
Rispondo al suo bacio, ma più lo faccio, peggio sto.
È una domanda idiota, lo so, ma perché, Kōshi, perché questa rassegnazione, perché questa cedevolezza, perché, perché il mondo ti ha lasciato solo, perché sei diventato questo, perché nessuno ti ha dato una mano? Perché non ti hanno salvato, perché non ti hanno portato via perché, Kōshi, perché, perché ora rimangono di te solo i cocci, solo i frammenti, solo i pezzi, e nessuno ha mai cercato di evitare che cadessi?
Perché mi chiedi di fingere, perché non mi guardi in faccia, perché sono un'eventualità alterata di una vita che non esisterà mai, perché mi guardi come se potessi scomparire da un momento all'altro, perché? Perché mi sento così incorporeo, di fronte a te, perché mi sento in un'allucinazione, perché sono così assuefatto dal tuo modo di guardarmi che persino io temo che le mie mani possano passarmi attraverso?
Kōshi, ti prego, dimmi perché.
Ti prego, dimmi...
Mi avvolge il collo con le braccia, finisco a stringergli i fianchi contro di me, ci inseguiamo, lui si sposta, io mi sposto con lui, siamo l'uno sull'altro, mai stati così lontani.
Mi spinge verso di sé, sempre più verso di sé, mi chiede di schiacciarlo contro il muro, credo, di comprimerlo addosso al mio corpo, mi cerca, mi vuole più vicino, mi vuole attorno a sé.
Infila di nuovo le dita sui passanti dei pantaloni, di nuovo cerca il contatto, trova la frizione, mi geme direttamente sulla bocca.
La mia spina dorsale s'irrigidisce.
Il sangue si scalda.
Mi rendo conto con ribrezzo nei confronti di me stesso, che Kōshi mi sta desiderando sì, e sta buttando il suo corpo sul mio, con disperazione, ma non la disperazione di volere qualcosa subito, ma la disperazione di non volerlo proprio.
Mi bacia, ma come se mi pregasse di smettere.
Mi si offre, ma come se volesse morirmi fra le braccia.
Prendo il suo viso con le mani.
Lo stacco dal mio.
Appoggio la fronte contro la sua, il suo petto si gonfia d'aria, così il mio, sento le lacrime colarmi sul volto, scendere verso il basso, arrestarsi sui vestiti.
– No, Kōshi. No. Basta. No. Noi non possiamo... –
Ha gli occhi appannati, le pupille dilatate, aggrotta le sopracciglia.
– No? Come no? Mi sembrava che ti stessi divertendo. Dai, ancora un... –
– No, no. No. –
Il gesto accennato di chinarsi nuovamente verso di me s'interrompe a metà.
Mi rivolge iridi come lame.
Emozioni negative.
Emozioni.
– Perché no? –
– Perché sei ubriaco. E sei in uno stato mentale non lucido. Non credo che tu sappia quello che stai facendo, Kōshi, non credo che tu capisca... –
– Certo che capisco, per chi cazzo mi hai preso, per un bambino? –
– Non intendevo quello, intendevo che tu non hai bisogno di questo, tu hai bisogno di aiuto e poi, allora, forse... –
Scoppia a ridere.
È un suono acre.
Stoffa che si strappa, carta fatta a brandelli.
È qualcosa che rompe.
– Aiuto? Tu credi che io abbia bisogno del tuo aiuto? –
– Kōshi... –
– Io non me ne faccio un cazzo del tuo aiuto. –
Apre una mano sul mio petto e mi spinge indietro, non mi sposta, non è abbastanza forte da farlo, ma io faccio un passo indietro per dargli l'aria che credo stesse cercando con questo gesto.
– Io non me ne faccio un cazzo della tua pietà o della tua pena. Cos'è che vorresti fare, tu, salvarmi, Daichi? Tirarmi fuori dalla mia situazione tragica per cancellare il fatto che tu non sia riuscito a farlo con tua madre? Mettere una pezza sulla tua coscienza usando me come mezzo? –
La sua voce si alza, sempre di più.
Io mi ritrovo a non sapere cosa dire.
Sento solo le lacrime sul viso.
Ma non...
– Io non sono una principessa in difficoltà, Daichi, io non sono qualcuno da aiutare. Io so dove sono. Io so cosa sono. Io la mia cazzo di tomba me la sono scavata da solo. Io non ho bisogno, che qualcuno me ne tiri fuori, perché quello è il mio posto, io posso stare solo lì. –
– Non è vero, Kōshi, non è vero, non è... –
– E secondo chi? Secondo te? E tu che cazzo ne sai di me, Daichi? –
Quest'ultima frase la urla. Me la urla in faccia, arrabbiato, incazzato, a pezzi, me la urla come se volesse farmela entrare a forza dentro al cranio, imprimermela a fuoco nel cervello. Me la urla, di nuovo, disperato.
– Guardami, Daichi, guardami, cazzo! Non ho fatto niente, nella vita, non valgo niente, non sono niente. Non ho nemmeno finito il liceo, non sono altro che un cretino ignorante mantenuto dal proprio fidanzato e va bene, è vero, non sarà il fidanzato migliore del mondo ma almeno c'è e si prende cura di me ed è l'unica persona al mondo che si prenderebbe la briga di avere a che fare con un rifiuto come me. –
Mi si avvicina.
Chiude una mano sul tessuto della mia maglietta.
– Tu, sei tu il problema, non lui, sei tu. Tu, Daichi, tu, perché... perché... tu arrivi e mi sorridi e mi chiedi come sto e mi dici che sono bello e tu mi guardi e mi ascolti e mi tratti come se fossi qualcuno e io ci ho messo anni, Daichi, anni, anni della mia vita a trovare un punto comodo dove crepare in pace e tu arrivi e rovini tutto, tutto, hai rovinato tutto. –
La poca luce del vicolo riflette minuscoli raggi che si dipanano dal liquido chiaro delle sue lacrime.
– Tu non devi stare qui, tu devi stare di là, nell'altra vita, nella vita in cui posso essere qualcuno, in cui posso ridarti qualcosa indietro, in quella dove non sono questo, dove non mi vergogno così tanto di come sono. Torna di là. Qui non c'è spazio per te. –
Accosta il viso al mio.
– Smettila di cercare di rianimare un morto, Daichi. –
Trema.
– È morto, ormai. –
Mi lascia andare, scuote il capo.
– Non c'è più niente da fare. –
Non mi degna di uno sguardo, si asciuga la faccia con le mani, si sistema la maglietta, si gira e scompare nel vicolo, lasciandomi là.
Le ginocchia mi diventano molli, scendo col retro delle cosce sui talloni, tengo la testa china, piango a singhiozzi.
Oh, Kōshi, ti sei arrabbiato per davvero, questa volta.
Ti sei incazzato.
Hai urlato.
Mi hai insultato.
Hai...
Tu hai...
No, ti sbagli.
Non rianimo un morto.
I morti non s'incazzano, i morti stanno là fermi, prendono e basta, subiscono senza ribellarsi, accettano perché non sanno come opporsi.
I morti non urlano.
Tu sei vivo, Kōshi.
Ho il cuore a pezzi.
Ma sono così felice, che tu sia vivo.
─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───
ok this one was particularly harsh for me nel senso ho sofferto in particolar modo a scriverlo però mi piace anche quindi lemme know cosa ne pensate
ovviamente sono di corsa che devo andare all'uni però volevo postarlo prima di uscire perché postare le cose mi mette di buonumore e ho decisamente bisogno di buonumore questi giorni (sto completamente impazzendo ho iniziato ad avere allucinanti abitudini di sonno vivo la mia vita come un gufo)
niente vi chiedo un parere
vi mando un bacio
in bocca al lupo per chi come me è in sessione o sta per fare la maturità
see ya soon
juls <3
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