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0.6 Sjötta Söng - Af myrkri og kvöl

0.6 Sesto Canto - Di Tenebra e Tormento

Oscurità che mi accoglie
con il suo caldo abbraccio.
Perdizione, irrora il mio essere.
Illusione, burla la mia mente.
Tentacoli di tenebra avvinghiati
alla cadaverica pelle, esangue.
Sinapsi corrotte, bruciate,
da quella paura dirompente.
Mi perdo, in quella trama disconnessa.
Annego, e questa volta temo 
non ci sia nessuno a salvarmi.


Neeïrmorv - 507 anni dal Sigurdagur.

-

La paura serpeggiava alla stregua di fruste schioccate, l'incredulità risuonava come le ferite sfrigolanti, assordanti. Il rumore di speranze infrante, incanti distrutti, vite spezzate colmava quel silenzio pieno di vuota tensione, tangibile agonia.

Un abbraccio mistico e oscuro si stringeva all'aria attorno alla creatura immonda, di fronte alla quale anche la più vigorosa fiammella pareva collassare; vampe infernali inghiottite dalle spire serpentine e seducenti dell'ombra. Pareva essere quasi un ribaltamento amorale del fuoco della vita. Sembrava quasi fosse la degradazione di quel che di buono v'era al mondo, l'antitesi di qualsivoglia valore umano e divino.

Un miasma di morte affluiva insieme al sangue, in una miscela velenosa e mortale che irrorava di angoscia ogni cellula di Igour. Lo sguardo dell'uomo era fisso su quell'immagine a tal punto raccapricciante che anche le dolci onde luminose dell'Aeter parvero sottrarsi al diabolico tocco di quei tentacoli. Davano l'impressione che anche la più delicata delle carezze avrebbe causato loro una sofferenza inesprimibile. Un dolore che si sarebbe avviluppato e avrebbe consumato la loro eterea forma, bruciando ogni scintilla di vita che celavano in sé.

Igour si diede mentalmente dello sciocco nel formulare quei pensieri così infantili, eppure dovette ricredersi nel momento in cui una debole e ingenua scia di magia si lasciò trarre in inganno dall'ipnosi di quei serpenti intrisi di una malvagità quasi meccanica. Dovette ravvedersi nel momento in cui quel debole bagliore di purezza si spense lentamente sotto agli occhi immobili e inflessibili di quel Male vagabondo, che non aveva casa perché qualsivoglia luogo era per lui dolce dimora.

Passarono attimi eterni, e fuorché le lente spire di quel corpo filiforme – greve della perfezione più tetra e cruda – non v'era altro a scheggiare la simmetrica staticità del momento. Gli occhi iridescenti di abominevole demonio erano rivolti al cielo terso, come per colmare il vuoto che riempiva il loro petto cavo, privi di anima, com'erano privati di uno stabile corpo.

L'incauta spaesatezza di Igour si dissolse nel momento in cui egli s'accorse che l'oggetto d'interesse della creatura era d'improvviso mutato. Sentiva quello sguardo – fino a quel momento perso nei meandri dell'oscurità, nei recessi più remoti della ragione malevola – puntarsi e focalizzarsi con struggente e dolorosa lentezza nella sua direzione. E quand'anche la paura sprigionata da quella consapevolezza mise in moto la sua mente bloccata da tanta malefica meraviglia, allora si rese conto che, a discapito di ogni sua disciplina, educazione, rigore, era rimasto immobile, esposto davanti al nemico. Dimentico del suo ruolo, dimentico di quel che lo circondava, dimentico della sua stessa esistenza, era rimasto cristallizzato in quelle membra pesanti e insostenibili. Nulla aveva compiuto per celarsi da quello sguardo che pareva smuovere gli empirei, a quegli occhi carchi solo di un desiderio vorace e impellente, occhi più scarlatti e tenebrosi del sangue. E neppure lo avevano fatto i suoi compagni; tanto erano fossilizzati da parer cinerei cadaveri, sorretti dalla sola forza della disperazione e dall'incanto della paura.

Si rese conto che non voleva, che non poteva lasciare che crollassero, che si sbriciolassero in neri granelli di carne sotto quello sguardo che celava – tra le sue mille sfumature sanguigne – ogni ancestrale brama e cupidigia, com'avesse accolto nelle iridi carmini tutti i peccati degli uomini.

Non poteva esser soggiogato da quel gioco mortale, di danze sinuose e di filamenti oscuri; non poteva esser reso schiavo, sbrindellato, strozzato dalle soventi volute che si diramavano da un nucleo di puro cristallo corvino.

Eppure v'era un che di seducente in quella figura senza forma, in quelle movenze ipnotiche, tanto che il suo sguardo rimase incatenato a quei rivoli d'oscurità. Rivoli che sempre più si avvicinavano, procedendo nella sua direzione con la delicata leggiadria d'un candido e puro fiocco di neve.

Passarono attimi ininterrotti, ogni rumore soppresso e in un battito di ciglia mutato in un sibilo cacofonico – eppure laconico – alla stregua di una cupola di vetro a blanda protezione dalla crudeltà della creatura, come se solo quello bastasse per scomparire di fronte al suo desiderio smodato.

E in quegli attimi eterni, eppur infinitesimali, un tentacolo di morte, giocondo nella sua cupa beatitudine, s'arrischiò di sfiorare in una dolce carezza il volto di Igour.

Non appena quel filamento d'ebano entrò a contatto con la sua pelle, l'uomo si sentì allo sbaraglio: i suoi sensi completamente appannati, gli occhi aperti su un mondo fatto di buio e incertezze, le mani a palpare l'immensità del vuoto.

E dolore.

Ovunque.

Dovunque.

Bruciava il respiro tirato nella gola. Stridevano le ossa le une contro le altre. Si riempiva il corpo di quel miasma di putrefazione, intossicando ogni arteria, capillare, stilla sangue. E avvertiva tutto: lo strazio di quelle cellule morenti, l'affanno di quel corpo in disfacimento. L'unica costante in quella nota di sfinimento, in quella Melodia del supplizio, in quella Sinfonia dell'orrore, erano quelle iridi che si nutrivano della sua sofferenza.

Un tonfo leggero al suolo, il suo corpo privo di qualsivoglia peso riverso a terra. Eppure non avvertita nulla: ancora la voragine lo abbracciava tenendolo stretto in quel petto di oblio, di perdizione. Un mare nero pece si muoveva ancora negli occhi, la tribolazione ridotta nel bisbiglio di ogni cellula – che lui poteva udire, eppure non rispondere.

Un formicolio sinistro pervase le membra, come se minuscoli filamenti d'ombra avessero penetrato la sua pelle, e persistessero ad attraversarla avanti e indietro, avanti e indietro. E una volta ancora.

Là dove prima l'insofferenza lo aveva abbracciato, ora v'era solo un valzer di brividi sottopelle, pizzicori acuti. Non avvertiva null'altro che quella sensazione, che pure era meglio del nulla che aveva ottenebrato ogni suo senso.

E fu quell'oceano tortuoso davanti ai suoi occhi a essere spezzato in due da bagliori di candida luce. Le sue pupille la accolsero come la più dolce delle meraviglie: le sue iridi tanto avevano assorbito le tenebre che ormai gli pareva di riscoprire per la prima volta cosa fosse la luce.

Oh, li riconosceva quei fili d'argento.

Li riconosceva, eppure non riusciva a distinguere dalla massa dei suoi pensieri il loro nome. La sua mente era in uno stato catatonico, collassato su se stesso – alla stregua di un buco nero –, e nulla pareva uscirne. Ecco un filamento, e poi un altro, e un altro ancora, uniti insieme in un'armonica treccia. A seguire un bagliore, un secondo, un terzo, fino a quando il suo mondo non si ridusse semplicemente a quel bianco etereo.

Etereo.

E in quella purezza allucinante, dalla matassa intrecciata dei pensieri soffusi, le parole iniziarono a districarsi una per volta. Aeter, ecco come si chiama, fu la prima cosa che riuscì a pensare. Sono completamente circondato da Aeter. Ancora uno spiraglio di nebbia era avvinghiata alla sua testa come un velo. Candido, ma soffocante, e fu quel pensiero che allontanò gli ultimi attimi di incertezza, fino a quando il bianco non sfumò in quei cupi colori della notte, prima che essa svanisse, soppressa dall'innocenza dell'alba.

Un mondo di brillanti colori prendeva vita là dove un raggio di luce svaniva, dissolta, annegata in un delirio di sfumature, sommersa in una cacofonia di ridondante oscurità.

La sua vista non riusciva più a sopportare quei toni che apparivano così sfavillanti, tanto che dovette socchiudere gli occhi pur di non ferirseli più del dovuto. Un sordo pulsare gli martellava la testa, l'eco infinita della tortura. Una foschia densa e compatta era scesa sui suoi pensieri quieti, inafferrabili come l'aria che faticava a respirare: non riusciva a pensare, solo un baratro sempre più profondo si spalancava nel suo inconscio. Per quanto singole parole danzassero nella sua mente la loro solitaria melodia, a nulla valsero i suoi tentativi di porre quelle note espressive in un pentagramma di logica.

Solo la percezione di ogni male pareva giungergli chiaramente, tutto il resto svaniva in un'indistinta foschia. Avvertiva il livello sregolare della fredda e morbida terra sotto alle ginocchia doloranti, su cui si poggiava tutto il peso della disperazione che avvertiva addosso. Si ritrovò con le mani premute con forza sul suolo umidiccio a causa della brina notturna che aveva coperto con un manto sottile e splendente il tutto. I muscoli delle dita dolevano, tanto forte aveva artigliato le zolle di terra che quasi si erano staccate dal loro natural giacimento. Eppure non riusciva a districare le mani da quell'intreccio di carne, erba e terriccio bagnato. Il corpo ormai non rispondeva più al suo richiamo, ogni movimento gli causava un dolore indicibile, il corpo ridotto a brandelli di organi maciullati.

Il gelo avvolgeva le sue membra, arrampicandosi su per le ossa e annidandosi al centro del suo petto. Un brivido polare lo attraversò da capo a fondo, in tremiti convulsi che lo scuotevano nel profondo. Fu in quel momento che un soffuso calore gli lambì la pelle, la forma di una mano che lo sorreggeva per le spalle, il tepore di un dolce tocco umano. Concentrandosi su quella percezione leggera, riuscì a risollevare la testa che aveva tenuto china per tutti quegli istanti. Istanti che a lui erano parsi essere eterni quanto la Morte. Con uno sforzo intollerabile, isolò dalla sua mente la sofferenza, focalizzò ogni sua forza sul quel contatto, che sentiva sempre più presente con lo scorrere del tempo. All'improvviso emerse da quel circolo vizioso, catturato da quelle spire di pura malizia; riemerse dalla quiescenza che lo aveva soffocato, e tirò un lungo sospiro, nel tentativo di introdurre nei polmoni ormai sul punto del collasso quanta più aria possibile. Sentiva come se qualcosa lo avesse trascinato giù, attraverso il mare oscuro dei pensieri, in un oceano di tormento, e lo avesse tratto a sé, nell'abisso del nulla più oscuro.

Si aggrappò alla mano stretta sulla sua spalla, come se da quella ne dipendesse la sua vita – forse era proprio così –, e si lasciò tirare su di peso. Eppure le gambe non lo sorressero, le ginocchia si piegarono sotto il suo peso morto, tanto che si afflosciò sul corpo che lo stava sorreggendo, come lo stelo di un fiore morente, oramai appassito.

Perlej, Igour ne riuscì a riconoscere finalmente il volto nonostante il velo di lacrime che gli appannava la vista, lo teneva sotto alle braccia, ma non sembrava far caso al fatto che gli si fosse accasciato addosso. No – per quel che poteva discernere –, i suoi occhi erano fissi ancora sulla creatura che, in quel momento, pareva ancora più tetra e cupa. Ma la paura di poco prima era scomparsa dal suo volto ancora giovanissimo, solo fredda e distaccata risolutezza.

«C-che è s-successo?». Fu con grande fatica che Igour riuscì a formulare quel semplice sintagma, ma svariate erano state le volte in cui le sue labbra s'erano arrestate in quel labirinto di suoni e articolazioni.

«Sei stato toccato da quel tentacolo e sei precipitato a terra. Mi sono immediatamente avvicinato per capire che cosa fosse successo, ma hai iniziato a tremare convulsamente, e a biascicare parole sconosciute, come di una lingua ormai dimenticata», rispose il giovane, senza distogliere l'attenzione dalla creatura che beatamente levitava nel cielo notturno.

«C-come mi hai soccorso subito? Quanto tempo è passato?». Igour non aveva fatto caso alle parole pronunciate dal Perlej. La sua mente si era arrestata a quel subito, che non riusciva a conciliare affatto con le sensazioni che invece lui aveva percepito: se v'era una cosa che riusciva a ricordare con minuziosa precisione era lo scorrere infinito del tempo; quella sofferenza che gli si era impressa addosso a ogni ticchettio immobile dell'orologio, come se questo fosse fermo in quel preciso istante e non potesse procedere verso il minuto successivo perché un'antica forza ancestrale l'aveva richiamato nel mezzo del suo cammino.

«Sì, Igour. È successo tutto nell'arco di pochi istanti, per questo nessuno ha avuto modo di reagire. Perché?». La sua voce rimase inflessibile, sul viso era calato ormai quella maschera di guerriero che, purtroppo, l'uomo conosceva bene. Il giovane mosse piccoli passi indietro, verso il varco che era rimasto spalancato per tutto quel tempo. Con una sicurezza che Igour non avrebbe mai immaginato, e che mal si sposava con quel lato timido e dolce che aveva mostrato poco prima, Perlej iniziò a dare veloci ordini ai suoi compagni, ancora congelati nella loro cieca paura.

Essi parvero riscuotersi da quella voce che dettava loro cosa fare senza un minimo accenno di timore. Mesta e malcelata sorpresa attraversò le loro iridi spalancate, ma che iniziavano a riempirsi di determinazione, vedendo come quel giovane così impacciato e insicuro si era trasformato in un perfetto soldato, conscio del pericolo che volteggiava su di loro con leggiadra finezza.

«Jaey, io porto Igour dentro alle mura, al sicuro. Poi andrò ad avvertire Vatikrd di questa... Manifestazione...?». Il suo tono si incurvò, nel pronunciare l'ultima, terribile parola, perché non aveva idea in quale altra maniera chiamare la creatura che incombeva su di loro con il suo manto di Morte. Ma subito la risolutezza prese daccapo il sopravvento. «Voi nel frattempo rimanete qui e cercate di fare in modo che non si allontani. Non sappiamo bene che cosa sia, è differente dalle Manifestazioni di cui siamo stati avvisati, quindi tenete gli occhi aperti su di lui; e, ripeto, non lasciatelo fuggire per nessun motivo».

«Il piccoletto ha tirato fuori gli artigli, eh?» tentò di scherzare il ragazzo che si trovava alla sua destra, ma venne immediatamente congelato nella sua ironia, il divertimento reso ormai un boccone amaro da inghiottire.

«Farley, potrai anche riternermi un perfetto imbecille per il mio carattere e forse lo sono per davvero, ma se c'è una cosa che ho imparato all' Herakademían, è che c'è un momento in cui essere se stessi, e uno in cui dobbiamo essere semplicemente soldati, indifferentemente dal resto. Dovresti saperlo anche tu».

«Sentite, non è questo il momento adatto per questo genere di disputa; ne parlerete poi a tempo debito, ora abbiamo un problema di cui preoccuparci», Jaey si frappose tra i due, cercando di mitigare quei toni così polari. «Faremo come ci hai detto, Perlej. Va' ora, raggiungi il nostro sire, terremo a bada noi, la situazione», concluse poi, gettando un'occhiata a Farley, intimandogli di non aprire bocca.

Igour osservava la scena, senza però assistervi davvero. Era ancora perso nei sui pensieri. Trovava inconcepibile aver perso in tale maniera la concezione del tempo, non riusciva a tollerare che i suoi sensi fossero stati così alterati: un profondo rammarico verso se stesso ormai viaggiava nelle sue vene, irrorando tutto il suo essere. Si sarebbe dovuto proteggere, non avrebbe dovuto farsi trarre in inganno, cedere a quella malizia. Perché suo era il dovere di proteggere quella squadra, in quanto superiore, non di Perlej. Suo l'onere di fare in modo che non accadesse nulla, non di quel giovane cresciuto con una fretta che lo aveva privato della giovinezza. Si era sentito rasserenato nell'udire quella sua voce così impacciata e tenera, perché aveva capito che non tutto era perduto, ma lo sconforto era tornato nel vedere quel repentino cambiamento che non aveva altra spiegazione se non Herakademían.

Inutile, ecco cos'era in quel momento. Solo un peso per la sua squadra, una futile rogna che sicuramente li avrebbe rallentati e ricondotti a seri pericoli

Era oramai a un passo dal baratro che lo avrebbe ricondotto a una crisi nervosa – dal momento che tutta la tensione, l'agitazione e le sgradevoli sensazioni che stava provando bruciavano, consumavano i suoi neuroni, ogni sinapsi della sua mente –, quand'ecco che rivolse lo sguardo all'artefice della sua disfatta. Mise in quell'occhiata tutto il suo rammarico, il disprezzo, l'odio che provava, ma che, di fondo, non trovavano il loro destinatario nella creatura ma solo e unicamente in se stesso. Ma quando i suoi occhi si posarono su quelli della creatura, sentì un richiamo nelle viscere, che gli stringeva la gola di un desiderio tanto temibile che Igour si sentì raggelato solo a delinearne le linee nella mente. Fu solo perché trascinato via da Perlej che riuscì a resistere a quell'appello viscerale. Strascicava i piedi a terra, mentre i suoi pensieri erano un continuo ricondursi alla creatura. Fu proprio quando riguardò alle sue spalle che vide che un'indistinta massa oscura si dirigeva nella sua direzione con velocità fulminante.

Con un urlo che spinse via Perlej dal suo fianco, ma improvvisamente si sentì mancare il suolo sotto i piedi. Con un mondo vorticoso ad animare le sue retine, cadde al suolo: quello sforzo gli aveva consumato le esigue forze che gli erano rimaste, e senza l'appoggio del giovane non aveva avuto nessun'altra opzione se non capitolare pesantemente sul suolo freddo.

Mosse gli occhi velocemente attorno, per vedere dove fosse scomparsa la creatura, ma l'unica cosa che vide furono diversi sguardi attoniti, sorpresi di quel repentino attacco, quando dapprima v'era stata solo quiete. Perlej, che a causa dell'improvvisa spinta era andato a sbattere contro un albero, si riprese abbastanza in fretta, ma nello sguardo non v'era più solo la risolutezza, ma anche una dolce sfumatura di amarezza.

«Dov'è? In che direzione è andato?». Il giovane si precipitò verso la coltre di alberi che avvolgevano in un abbraccio quella cerchia muraria, inghiottito d'improvviso dalle ombre del boschetto. A nulla valsero i numerosi, faticosi tentativi che Igour fece per fermarlo, richiamandolo più e più volte.

«Igour ci pensiamo noi. Tu resta qui, e non muoverti». Era stato Jaey a parlare, mentre con passi svelti si allontanava dall'uomo, ancora riverso a terra.

«Ma...», tentò di replicare Igour ma fu presto fermato.

«Non ti devi preoccupare, risolveremo tutto noi, tu resta fermo qui». Detto questo, scomparvero anch'essi, lasciandolo lì solo, con quel desiderio tedioso che gli divorava le viscere.

Scomparvero davanti ai suoi occhi – senza che potesse fare alcunché per fermarli –, come gli ultimi rimasugli della sua coscienza, logorata dal peso dell'inutilità.

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