8. Nuove Collaborazioni.
Jared
«Tom?», borbotta l'agente Kane sorridendo, mentre solleva un sopracciglio.
D'istinto, indietreggio di un passo, trattenendo il respiro per la sorpresa. Non mi sarei mai aspettato di trovarmi davanti proprio lei, tra tutte le persone che avrebbero potuto disturbarmi oggi. Il motivo della sua visita, poi, mi è completamente oscuro: non abbiamo più avuto modo di incontrarci e parlare, dopo l'incontro di presentazione nell'ufficio di Clint. Ed è stato proprio durante quell'incontro che sono iniziati i miei problemi nella testa, seguiti da notti insonni, sogni burrascosi e ricordi lacerati da buchi neri.
Devi ricordare.
Scuoto la testa e scaccio via quest'ultimo pensiero velato, per poi tornare a guardare Madison, ancora attenta a ogni mio movimento o cambiamento d'espressione. «Mi dispiace, credevo che fosse di nuovo quel ragazzino molesto», mi giustifico, ancora bloccato tra gli stipiti della porta.
«Ti riferisci a Tom Rickett, la giovane promessa della Caserma?» L'agente Kane arriccia le labbra e fissa pensierosa il soffitto del corridoio, come se si stesse sforzando di fare mente locale su ogni Guerriero che popola la nostra Caserma.
Annuisco, senza aggiungere altro. Come avevo già fatto notare a Tom, dialogare non è più un elemento fondamentale per la mia sopravvivenza.
«Ho avuto modo di parlarci qualche giorno fa, all'uscita dalla biblioteca», prosegue lei, sempre con un sorriso interessante stampato sul volto. «Lo trovo davvero un ragazzo adorabile.» Continua a fissarmi come se si aspettasse una risposta da parte mia, che però è destinata a non arrivare.
Sbatto le ciglia e la osservo con uno sguardo impassibile, con la speranza che questo basti a farle capire che non sono dell'umore per intavolare una conversazione amichevole con lei, ma quando la vedo ancora bloccata sul posto, ritta di fronte a me, capisco che forse è venuta qui per qualche preciso motivo. Motivo che non sono interessato a scoprire, ma che forse sarò costretto a conoscere necessariamente, se avrò voglia di mandarla via nel più breve arco di tempo.
Sospiro stanco e tamburello le dita sulla porta, la mia mano a pochi centimetri dal suo volto. «C'è qualche ragione particolare che ti porta qui, Madison?», le chiedo alle fine, sperando che noti la sottile nota di sarcasmo con cui ho farcito la frase.
Ma lei sembra fregarsene, e continua ad accennare un sorriso di impostata educazione. «In realtà, sì», replica, vagamente più tesa. La vedo toccarsi le mani in modo quasi impercettibile e questo mi fa subito capire che si sente quasi in soggezione, di fronte a me. Come se la mettessi a disagio. «Volevo sapere se avevi ricevuto il mio messaggio. Sai, non ho avuto risposta, quindi volevo assicurarmi che...»
«L'ho ricevuto il tuo messaggio, Madison», la interrompo sul nascere, «e non ti ho risposto perché non ho bisogno di alcun aiuto, né da parte tua, né da parte di nessun altro qui dentro. Me la cavo benissimo da solo.»
L'agente Kane accusa il colpo con poca sicurezza e mi fissa accigliata, non aspettandosi una mia risposta così brusca e disinteressata; si schiarisce la voce e distoglie per un attimo lo sguardo dai miei occhi, sempre più stanchi e più cupi.
Perché mi temi, agente Kane?
Dopo qualche attimo, però, torna di nuovo all'attacco, stavolta con più forza di spirito e sicurezza. «Jared, c'è un motivo per cui sono passata qui, stamattina», esordisce di nuovo, il tono di voce grave e più alto, «e non è per farmi mancare di rispetto da un arrogante come te.»
Per la prima volta da diverse settimane, mi lascio sfuggire un sorriso divertito. Non pensavo che ci avrei messo così poco a far perdere la pazienza persino a un agente di Danville. «Hai ragione, perdonami», mi scuso, senza pensarlo veramente. «Dimmi per quale motivo sei passata.»
Madison torna seria e distende il solco accigliato in mezzo alla fronte. Sospira e incrocia le braccia al petto. «Ho bisogno di parlare con te, Jared. Di quello che è successo la scorsa volta nell'ufficio di David Clint», sputa fuori alla fine, gli occhi adesso illuminati da un luccichio tipico di un'investigatrice Celeste. «Me ne sono accorta subito che c'era qualcosa che non andava, ma ho evitato di metterti a disagio di fronte a lui. So che avete avuto delle discrepanze di pensiero e io non sono venuta qui per rovinare altri rapporti, ma per cercare di ricostruirne altri.»
Sbarro gli occhi, cercando di modulare la mia sorpresa, e in un attimo mi sento come se fossi stato denudato da tutti gli strati di sicurezza e indifferenza che finora mi ero cucito addosso. «Non so a cosa ti stia riferendo», nego, d'impatto.
Lei sorride e scuote la testa. «Non mentirmi. So riconoscere le bugie.»
Stringo le dita attorno alla porta, mentre provo a coprire il mio nervosismo sempre più increscente. «Senti, Madison, so che sei arrivata a Henver per svolgere un lavoro e so anche che per qualche assurdo motivo pensi che sappia dove si trovi Abby, ma quello che stai cercando di fare va oltre alle tue competenze, capisci? Non puoi entrare nella mia testa. Non ti è permesso.»
«Se concerne il mio obiettivo, tutto mi è permesso. Adesso, per favore, puoi farmi entrare? Io credo che abbiamo entrambi bisogno di sederci e parlare con più tranquillità. Le cose che ci diremo rimarranno solo tra noi, te lo prometto.»
«Non c'è nulla di cui parlare», le ripeto, improvvisando un tono esasperato.
Ma lei fa un passo avanti e molto coraggiosamente mi punta un dito sul petto con fare accusatorio. «Pensi davvero che non mi sia accorta della tua espressione mentre cercavi di stabilire un contatto con Abby Lorelaine? Credi che non abbia notato come hai sussultato, come se qualcosa ti avesse turbato nel profondo? Sul serio, Jared: davvero mi credi così ingenua?»
Sbatto le palpebre, come a voler realizzare meglio la scena che si sta svolgendo davanti ai miei occhi. «Io...»
«Che cosa hai visto?», mi ripete, scandendo le parole, lo sguardo inchiodato nel mio e la bocca a formare una linea piatta, dura. Adesso Madison ricalca alla perfezione il ruolo che le compete.
Sospiro e la spingo fuori dalla mia stanza con fare deciso, prima di seguirla; con la mano mi richiudo la porta alle mie spalle e le indico il corridoio. «Andiamo.»
«Dove?» L'agente Kane prova a innescare un nuovo dibattito, che però viene stroncato sul nascere quando le poggio una mano sulla schiena e la guido fino alle scale.
«Tu hai bisogno di risposte, io di un caffè», le spiego, senza nemmeno guardarla. «La caffetteria è un terreno neutrale per entrambi.»
Quando entriamo nella sala comune, l'odore di ciambelle glassate mi arriva subito al naso; la stanza è ancora piuttosto affollata per la colazione, e gruppi di Guerrieri popolano le zone della caffetteria disperdendo nell'aria allegria e un suono di chiacchiere soffuse.
Con Madison al mio fianco, raggiungo il bancone del bar e accenno un sorriso a Bertha, l'unica umana della Caserma.
«Jared, ma che piacere vederti... Di nuovo in compagnia, eh?», mi saluta di rimando lei, ridacchiando sotto i baffi dell'agente Kane, che però rimane impassibile. «Mi ricordo ancora dell'altra ragazza... Sì, occhi di brace, lingua sciolta e capelli come il bronzo.»
Una stretta attorno al cuore mi costringe a distogliere per un attimo lo sguardo da Bertha, che, come ogni volta, tenta di minare al mio sottile equilibrio psicologico, sfiorando ferite non ancora del tutto rimarginate.
La donna anziana mi fissa con gli occhi vitrei e un sorriso carico di tristezza, come se non riuscisse a capire appieno il mio stato d'animo; poi, lentamente, allunga le dita paffute verso il mio polso e mi tocca, spinta da chissà quale motivazione logica. «Oh...», sospira, portandosi l'altra mano sul petto. «Lei non c'è più, vero?»
Faccio un passo indietro bruscamente, interrompendo il contatto fisico con Bertha. Nonostante sia una semplice umana, mi ha sempre stupito per le sue spiccate doti di intuizione e chiaroveggenza. «Non... Non sono qui per questo, Bertha», taglio corto, in imbarazzo. «Vorrei solo un caffè.»
Ma la donna non pare intenzionata a tornare con i piedi per terra e fa un passo in avanti verso di me, sporgendosi sul bancone. Stavolta mi sfiora il dito e annuisce a se stessa, sorridendo. «Ritroverai quello che ti manca, ragazzo mio», sussurra, «ma non sarà più come lo ricordavi...»
«Cosa sta blaterando?» Madison alza il tono di voce e interrompe la connessione del tutto anomala tra me e Bertha, riportandomi almeno in parte alla realtà.
«Non farci caso. A volte, lei è più stanca del solito», rispondo, gli occhi ancora fissi in quelli dell'anziana signora, intenti a carpire la spiegazione delle sue parole.
Ma non sarà più come lo ricordavi.
«Hai detto qualcosa, caro?» Bertha torna in sé e si ritrae dal bancone, tornando a indossare le vesti da cameriera.
«Un caffè...», rispondo distrattamente, ancora preso a riflettere sulla sua frase misteriosa.
«Secondo me, soffre di demenza senile. Si è del tutto dimentica di quello che stava dicendo», aggiunge Madison, scuotendo la testa.
Bertha prepara il caffè canticchiando una canzoncina a bassa voce, poi mi porge la tazzina. «Lei è a posto», aggiunge piano, lanciando un'occhiata sbrigativa a Madison, «però non sarà abbastanza.»
Sospiro, scosso, e agguanto rapidamente il caffè. «Andiamo, Madison», le ordino, accennandole con il mento a un tavolino abbastanza lontano dalle mire chiaroveggenti di Bertha. «Oggi non ci sta davvero con la testa.»
Non appena ci mettiamo seduti, butto giù il caffè con due lunghe sorsate, poi mi massaggio le tempie a occhi chiusi, cercando di non meditare troppo sulle parole profetiche della vecchia cameriera.
«Ti senti bene?», mi domanda l'agente Kane. Sta seduta di fronte a me con le braccia conserte poggiate sul tavolo, e mi fissa con un'espressione illeggibile. Non ho idea se abbia compreso appieno quello che è appena successo davanti al bar, ma in ogni caso spero che non mi faccia domande alle quali non so rispondere.
«L'emicrania mi tormenta, ultimamente.» Sollevo di nuovo le palpebre e torno a guardarla, stretta nel suo completo scuro. «Ma torniamo a noi, agente... Dimmi perché vuoi che ti riveli cosa ho sentito nella mia testa.»
«Pensavo che fosse compito mio farti le domande.»
Mi sporgo sulla sedia e la scruto con una sottile ironia. «Pensavo che non fossimo a un interrogatorio.»
In un attimo, le guance di Madison assumono un colorito rosato e subito distoglie lo sguardo da me, schiarendosi la voce. «Ho bisogno di saperlo, Jared, perché ho intenzione di usare la tua risposta come pista da seguire per trovare Abby Lorelaine.»
«Oh, allora temo proprio che ti troverai di fronte a un vicolo cieco.» Scuoto la testa e sorrido amareggiato. «È da quando mi è successo che ci penso: io non ho sentito niente di utile, ma solo... rumori.»
«Che genere di rumori?»
Sollevo lo sguardo e inchiodo per un momento i suoi occhi blu. «Grida.»
«Grida...», ripete lei, confusa e assorta. «E hai idea a chi appartenessero?»
«No, è stata solo una sensazione durata un attimo, durante il quale mi sono sentito turbato.»
«Da cosa era dovuto il tuo turbamento?» Madison mi fissa in tralice, mentre poggia una mano sotto al mento, a sorreggersi la testa.
«Dal fatto che erano mesi che non sentivo più niente, agente.»
Lei si schiarisce la voce, dopo aver lasciato scorrere più o meno un minuto di silenzio assorto. «Jared, ho bisogno della tua collaborazione, in questo lavoro», esordisce poi, sospirando. «Trovare una ragazza dispersa in una città grande come Henver sarebbe letteralmente impossibile solo con i miei mezzi da investigatrice, ma farlo con la tua collaborazione semplificherebbe di non poco il lavoro.»
«Cosa intendi dire?»
«Voglio usare la Iunctura che ti unisce all'Ibrido come radar per scovarla. Tu sarai il mio mezzo.»
La mia risata spezza la sua frase in modo netto e cristallino, e non è divertita - no -, ma derisoria. «Sei davvero fuori strada», ribatto, scotendo la testa. «La Iunctura tra me e Abby non esiste più... Se n'è andata, dissolta, scemata!»
«Ti sbagli.»
«Se mi sbagliassi, lo saprei.»
«Jared, ascoltami.» Madison richiama la mia attenzione con serietà. «Non sono del tutto sicura di quello che sto dicendo, ma quello che voglio fare con te è un tentativo, okay? Potresti avere ragione tu, come potrei avercela io, ma le reazioni che hai mostrato nell'ufficio di David mi hanno dato da pensare che ci sia ancora una piccola parte di te legata ad Abby. Non chiedermi come questo sia possibile, perché non so darti una risposta, ma quel giorno tu hai sentito dei pensieri di qualcuno e hai provato delle sensazioni che non erano tue, capisci?»
Rifletto sulle parole di Madison, soppesandone il significato celato di ognuna: quello che dice è vero, nonostante cerchi di far crollare ogni sua supposizione con un'ostinatezza senza eguali. Sospiro e mi lascio andare sulla sedia, allungando le gambe sotto al tavolo. «Ammettendo pure che voglia darti ascolto, Madison...» Sostengo il suo sguardo con fare annoiato. «Come vorresti mettere in pratica le tue teorie?»
Lei sorride, palesemente soddisfatta della mia domanda e della curiosità che è certa di avermi innescato dentro. «Ho già programmato diverse uscite nel perimetro di Henver, durante le quali dovrai sforzarti di metterti in contatto nuovamente con Abby... un po' come hai fatto involontariamente nell'ufficio di David. Qualsiasi sensazione proverai, potrà essere usata come indizio per scovare quella ragazza, ovunque si trovi.»
«Una simpatica caccia al tesoro.»
«Che sarai tu a condurre.»
«E se non volessi collaborare? Ti ricordo che nessuno mi può obbligare.» La scruto dall'alto in basso con un'alzata di sopracciglia. La sto sfidando e lei lo sa.
Madison sorride e si alza in piedi, restando a pochi passi dal tavolino. «Nessuno ti obbligherà, perché tu sarai il primo ad accettare. Il mistero che si nasconde dietro alla scomparsa della tua curiosa amichetta ti tormenta troppo, per lascarti sfuggire l'unica occasione che hai per provare a metterti di nuovo in contatto con lei e capire dove sia andata a finire. O sbaglio?»
Adesso è lei a bruciarmi con lo sguardo e scottarmi la pelle con una manciata di parole bollenti. Mi osserva allegramente, già consapevole di aver vinto questa manche. Io infatti rimango in silenzio, con il respiro appena un po' più concitato del solito, e sbatto le palpebre quando mi rendo conto di non sapere in che modo controbattere e volgere il tutto a mio favore: Madison ha pienamente colto il segno, trasformando la mia più grande debolezza nel suo punto di forza, e riducendo me a un mero mezzo per arrivare all'obiettivo che le farà vincere la battaglia.
«D'accordo», cedo alla fine, a denti stretti e con l'orgoglio nascosto dietro alla mia ombra. «Facciamo questo tentativo.»
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