22. Dolor
Abby
Uccidere è un po' come imparare a camminare: i primi tentativi sono sempre mossi dalla paura e traballanti, ma una volta superata quella fase, tutto il resto diventa quasi un gioco.
Dopo la prova fallita con la prima umana – Katie – Russell mi ha sottoposto a una nuova sessione di elettroshock. Sopportarla è stata più semplice delle volte precedenti, ma il senso di vuoto bruciante è stato decisamente peggiore da accettare rispetto a prima.
Per fortuna la sensazione di disconnessione dalla realtà è durata pochi giorni, e, aiutata dalla dose sempre più increscente di medicine somministrate da mio padre, sono riuscita a rimettermi in sesto con addosso solo il peso delle scottature sui polsi e sulle tempie.
Gli allenamenti nella stanza numero 4 sono raddoppiati nel giro di pochi giorni, passando dall'unica seduta della mattina a due o tre volte: dopo la colazione, nel pomeriggio, e anche dopo cena... Ma solo nei giorni in cui prima di dormire non dovevo essere sottoposta a qualche breve seduta di elettrostimolazione.
La prima forma di vita che ho ucciso con la forza della mente è stata una cavia da laboratorio. Russell me l'ha fatta trovare nella stanza, libera e vigile, mentre scorrazzava sulle mattonelle in pietra, chiedendosi probabilmente perché diavolo fosse finita lì o forse solo dove potesse trovare dei rimasugli ammuffiti di formaggio.
Uccidere quel topo con gli occhi iniettati di sangue e il pelo corto e bianco è stato precisamente il primo passo che ho compiuto verso un baratro di azioni involontarie e scelte inconsapevoli. Tutte decisioni irreversibilmente riparabili. Tutti errori disumani ai quali non ho potuto né voluto dire di no.
Quando ho fissato negli occhi la cavia stretta nella mano sinistra, le zampette irrigidite dalla paura e gli occhi cupi, e le ho trasmesso nella piccola scatola cranica decine e decine di immagini dolorose, diffondendole probabilmente una sensazione di pesantezza asfissiante, mio padre mi stava guardando con le braccia conserte e la schiena appoggiata al muro, proprio all'ingresso della stanza. E quando ha visto il topo emettere dapprima dei versi di agonia terrificanti e poi contorcersi su se stesso nella mia mano, immobilizzandosi del tutto l'attimo dopo, ha sorriso soddisfatto e se n'è andato, lasciandomi da sola con la carcassa dell'animale sul palmo e una sensazione di vuoto mentale inaspettatamente piacevole.
Dopo la prima cavia, gli allenamenti successivi sono stati tutti più impegnativi dal punto di vista della concentrazione ma più semplici da quello della messa in pratica: nel giro di qualche giorno ho ucciso a mente fredda quattro uccelli, una volpe, due gatti e persino un serpente attorcigliato al mio braccio. Quando il rettile verde si è improvvisamente staccato da me, crollando a terra esanime come se mi fossi accidentalmente persa un bracciale dal polso, mi sono persino messa a ridere da sola nella stanza. E la mia risata mi è risuonata nella testa così vuota e cupa da farmi rabbrividire. Come se non appartenesse davvero a me.
Cornelius si è mostrato nei miei confronti sempre più soddisfatto e clemente, e, di conseguenza, anche Russell. Mi è stato concesso una volta a settimana di cenare e di bere un calice di vino rosso con loro, ridendo di qualche atto meschino compiuto durante la gioventù di mio padre.
Nel giro di pochissimo tempo sono diventata un'altra me. Più fredda. Più silenziosa. Più cattiva.
E loro sono fieri di me.
«Abby.» Russell bussa alla mia porta e tira già la maniglia poco dopo. «Prendi la pillola della mattina e andiamo. Tra qualche minuto inizia l'allenamento.»
Sospiro piano, riempiendo i polmoni d'aria, e sorrido all'immagine di me stessa riflessa allo specchio attaccato al muro: sono già in abiti informali, una t-shirt nera a maniche corte e un paio di jeans a vita larga che mi padre ha pensato di regalarmi dopo la mia prima uccisione con il Dolor. Una ricompensa, come ha specificato lui.
Oggi è un giorno importante per me. Forse il giorno più atteso da tutti, me compresa. Questo è il giorno della verità. Sì, perché dietro la soglia della stanza numero 4 stavolta non ci sarà ad aspettarmi un serpente o un altro animale, ma per la prima volta dopo il tentativo fallito con Katie troverò un altro essere umano come me.
E stavolta lo ucciderò.
Mi sono allenata così tanto per arrivare a questo livello di consapevolezza: lo scopo della mia vita è allenarmi per diventare una macchina imbattibile, sfruttando i poteri di cui sono stata miracolosamente dotata. Il mio scopo finale è quello di fare del male a chiunque si interponga nel mio cammino.
«Ti senti pronta?» Mi domanda Russell, mentre cammina piano al mio fianco lungo il corridoio di pietra.
«Mai stata così sicura di me.»
«Mal di testa?»
Scuoto il capo. «Nemmeno l'ombra. Sto bene. Mi sento persino energica.»
«Bene. Se non fallirai, tuo padre sarà davvero fiero di te.» Russell sorride e tira fuori dalla tasca dei pantaloni la chiave della stanza.
«Lui dov'è adesso? Non vorrà mancare proprio oggi?»
«Oh, no. Sta andando a prendere l'ospite della giornata. Sarà qui a breve», spiega con indifferenza, mentre fa scattare la chiave d'ottone nella serratura. «Intanto tu puoi sfruttare il tempo che ti rimane per trovare la giusta concentrazione. So che questi allenamenti intensivi sono estenuanti dal punto di vista mentale, ma se supererai la prova di oggi sono certo che molte cose cambieranno.»
«Non sbaglierò, Russell.» Sorrido entusiasta, per la prima volta divertita dalla sfida. «Ho aspettato così tanto questo momento. Non vorrei mai deludere mio padre, dopo tutto quello che sta facendo per me.»
Russell cela male un sorriso a dir poco stupito e tituba qualche secondo più del dovuto prima di annuire, un po' più convinto, e aprire del tutto la porta, facendomi entrare per prima nella stanza. «Sei cambiata così tanto, mocciosa. Sembri davvero un'altra persona.»
E mi ci sento anche. Sapessi quante cose dentro di me non sento più mie, Russell.
Trattengo un sospiro appena un po' più pesante e mi guardo attorno, nella stanza semi oscura che ormai ho imparato a conoscere come se fosse la mia seconda casa: non c'è niente di diverso rispetto alle volte precedenti, se non che adesso al centro della stanza è piazzata una sedia di legno con delle catene attorcigliate attorno alle gambe e ai braccioli.
Per un attimo smetto di respirare, colpita dallo shock visivo che mi provoca la sedia. Nella mente mi scorrono delle brevi e dolorose immagini di me nella stanza numero 2, bloccata su una seggiola in legno molto più imponente e stabile, con ganci freddi di ferro stretti attorno ai polsi e alle caviglie e un odore di bruciato diffuso nell'aria, proveniente da... me.
Reprimo un brivido che si porta dietro una scia di terrore e dolore e chiudo per un attimo le palpebre, saggiando la bellezza e la tranquillità del buio.
Non è di questa stanza che devo avere paura. Qui sono io la padrona della scena. Non ci finirò io seduta lì sopra, oggi, ma il nostro atteso ospite. È seduto qui che dovrò porre fine alla sua vita.
Accarezzo il bracciolo esile della sedia e respiro piano, elettrizzata in ogni singolo poro della pelle.
Poco dopo sento la porta della stanza aprirsi di nuovo. E stavolta a entrare è mio padre, accompagnato da una persona incappucciata che trasporta sotto braccio, quasi come se fosse un caro amico di famiglia. Il ragazzo – l'abbigliamento che indossa è chiaramente maschile – cammina a stenti di fronte a sé, inciampando sui propri passi come se fosse stordito da qualcosa, oltre dal sacco che ha calato sopra la testa.
Mi allontano dalla sedia per guardali meglio, e lascio scendere le braccia lungo i fianchi, le labbra dischiuse e un'espressione priva di emozioni. Ho aspettato così tanto questo momento che adesso che è arrivato non so neppure come reagire o cosa dire. Così rimango in silenzio, mentre vedo Cornelius trascinare con estrema facilità il ragazzo di fronte al suo patibolo personale e gettarlo come se fosse composto di sole piume sopra la seduta di legno.
«Legalo, Russell. Anche se sono convinto che non servirà affatto, stavolta. È stordito dal Loto, ma meglio non rischiare.» Cornelius si volta verso di me e si avvicina per abbracciarmi. «Abby, figlia mia... Finalmente ci siamo. Ho aspettato questo momento quasi quanto quello di averti incontrata dopo anni di ricerche. Sei felice di metterti finalmente alla prova?»
Faccio cenno di sì con la testa due volte e mi allontano con educazione dal suo tocco freddo e impersonale. Sono diventata fredda e impersonale anche io, e quel genere di contatto così spassionato mi crea soltanto una strana forma di repellenza.
Il ragazzo accasciato sulla sedia geme piano mentre Russell finisce di bloccargli i polsi con le catene, e ciancica delle parole incomprensibili. Chissà se sta percependo cosa sta per accadergli.
«Chi è lui?»
«Devi considerare la persona che hai davanti come un regalo speciale, Abby. Non è stato per niente facile trovarne una con le caratteristiche compatibili con quelle che stavo cercando, ma alla fine i Sottomessi che ho mandato per la città hanno fatto un lavoro encomiabile.»
«Così mette curiosità anche a me, signore», commenta Russell, sfregandosi i palmi delle mani tra loro.
Cornelius guarda di nuovo me, stavolta così intensamente da farmi quasi indietreggiare. «Sai già cosa dovrai fare, vero?»
«Sì.»
«Togli il sacco dalla testa del nostro ospite, Russell.»
Russell annuisce e si sfrega le mani con estrema eccitazione. Si avvicina al ragazzo accasciato sulla sedia e gli si piazza davanti, con le gambe appena un po' divaricate e la schiena ben eretta. Poi con una mano gli sfila velocemente il sacco dalla testa, gettandolo con poca attenzione ai suoi piedi. La stoffa ruvida atterra sulle mattonelle e provoca un fruscio che risuona nella stanza priva di rumori.
Io faccio due passi avanti per vedere meglio e a ogni piccolo spostamento che compio, sento il respiro farsi più opprimente, come se quel ragazzo prosciugasse tutte le riserve di ossigeno disponibili.
Mentre mi avvicino, Russell inizia a pungolare il braccio e il volto del povero malcapitato, assestandogli delle pacche leggere. «Ehi, amico, è ora di svegliarsi.»
Non appena arrivo di fronte al misterioso ragazzo, realizzo al contempo due cose: la prima è che quasi completamente privo di sensi, se non fosse per le sopracciglia che ogni tanto prova ad aggrottare.
La seconda è che è la copia pressoché identica di Jared Evans.
D'istinto faccio un passo indietro e mi porto una mano sulla bocca, come a volerla tappare prima di far uscire un urlo, o forse anche solo l'aria bloccata nel petto.
Non può essere lui. Non proprio lui.
Una fitta alla testa mi fa stringere i denti nello stesso momento in cui penso a Jared – il vero Jared – e provo in tutti i modi a cancellare i piccolo flash di immagini che tentano di invadere la mia testa. Li scaccio, gettandoli fuori, chiudendo loro ogni accesso a quella che me che ormai, di lui, non ne vuole più sapere niente.
Gemo piano, a bassa voce, per non farmi sentire da mio padre. Chissà cosa penserebbe se sapesse che l'effetto che mi fa il pensiero di Jared è ancora questo... Dopo tutto questo tempo.
Ma Cornelius, che è sempre un passo avanti a ognuno di noi, si fa avanti piano e mi poggia una mano sulla spalla. «Allora, ti è piaciuta la sorpresa?»
Riapro gli occhi e prendo un bel respiro. Il ragazzo di fronte a me è ancora ripiegato sulla sedia, ma adesso comincia a dare cenno di lieve ripresa: dilata le narici e solleva piano le palpebre, alzandole e abbassandole con estrema pesantezza. I suoi occhi sono scuri, quasi neri, e questo è il primo dettaglio che mi fa realizzare con certezza che quello che mi trovo davanti non è il vero Jared. Probabilmente, a guardarlo meglio, sarei in grado di trovarne almeno altri dieci di elementi che lo diversificano da lui, ma senza dubbio il ragazzo seduto sulla sedia qui di fronte ne è una copia quasi perfetta.
Ed è proprio questa la sorpresa che mio padre ha progettato per me.
Trattengo un conato di vomito e allo stesso tempo la voglia di fuggire dalla stanza. In questo esatto momento sento una parte di me che vorrebbe scappare per non dover assistere a quello che sta per succedere, mentre l'altra che non vede l'ora di poter dare sfogo a tutto quello che sente.
Stringo i pugni. Il ragazzo è troppo di fronte ai miei occhi per poter distogliere il pensiero da lui. Vorrei poter bilanciare le mie sensazioni, ma il cuore che palpita nel petto, sordo e arrabbiato, non fa altro che pompare sangue pieno di rabbia all'interno del corpo. Nel giro di pochi attimi sono in fibrillazione, gli occhi spalancati fissi su di lui e una pericolosa sensazione d'ira attaccata alla pelle.
Sono arrabbiata come non lo sono stata mai prima d'ora, e per la prima volta sento di non avere per nulla il controllo della mia mente.
«Chi è lui? Perché... Perché gli assomiglia così tanto?» Trovo la forza per riuscire a scandire bene le parole. La domanda è diretta chiaramente verso mio padre, ma il ragazzo socchiude le palpebre e s'inumidisce le labbra, in un breve momento di lucidità.
«La vera domanda è chi siete voi...»
La sua voce, tanto sottile quanto diversa da quella di Jared, fa tirare un rapido sospiro di sollievo alla parte di me più nascosta e barricata, ma allo stesso tempo la sua somiglianza fisica non fa altro che innescare una rabbia incontrollata lungo ogni terminazione nervosa.
«Abbiamo lavorato così tanto sulle reazioni che ti provocava quel ragazzo che mi sembrava da sciocchi non testarne i risultati.» Cornelius si avvicina a me piano e mi poggia le mani sulle spalle, provando a sciogliere un po' di tensione. «O sbaglio?»
«Dove mi trovo?» Domanda di nuovo il ragazzo. Prova a fare forza sulle braccia per scivolare dalla sedia, ma il suo tentativo fallisce miseramente, come se il corpo gli fosse stato prosciugato del tutto dall'energia.
«Non ti agitare. Presto saperlo o meno non ti cambierà nulla», replica con pacatezza Russell.
«Ho la testa così... così pesante», farfuglia ancora, il mento piegato sul petto e il respiro lento.
«Andiamo, Abby, sai bene cosa devi fare. Ti abbiamo preparato a questo momento. Pensa di avere il vero lui di fronte ai tuoi occhi... Pensa che in futuro questa evenienza potrebbe accadere e potresti dover essere pronta a reagire proprio in questo modo.»
L'immagine del vero Jared mi si staglia nella testa come un fulmine conficcato nel cielo più terso. Chiudo gli occhi e vedo il suo volto sorridermi sghembo, mentre i ricordi che ci coinvolgevano si riarrotolano velocemente nella mente come in un nastro di attimi vissuti insieme e bugie.
I suoi occhi così profondi, l'amore che provavo per lui, la fiducia bruciata da una tela di menzogne.
Mi avvicino al ragazzo senza nome e mi fermo con i piedi davanti ai suoi. Rimango a guardarlo, le nocche sempre serrate e il respiro trattenuto nei polmoni. Il suo sguardo innocente e privo di consapevolezza non mi fa stare meglio – anzi - alimenta in me un senso di fastidio sempre più increscente.
«Aiutami...Loro sono il male!»
Vedo la sua mano allungarsi a stento verso di me, forse alla ricerca di un barlume di speranza, ma io gliela abbasso di scatto. Rimango con le dita strette attorno al suo polso tiepido e la sensazione di straniamento emotivo da lui è la goccia che fa traboccare un vaso già rotto da tempo.
La sua somiglianza a lui. Le bugie. Le lacrime che ormai non sono più in grado di versare a causa di mio padre.
«Io non voglio aiutarti», fisso il ragazzo castano negli occhi e gli sorrido amabilmente, «perché sono come loro. In ogni singolo atomo.»
L'attimo dopo sento tutta la rabbia accumulata nel corpo confluire con un boato assordante nella testa. Le orecchie iniziano fischiarmi e il dolore alle tempie mi martella facendomi bruciare gli occhi. Nella mente iniziano a turbinare pensieri cupi e strazianti, pieni di dolore e sofferenza. Il male che riesco a elaborare lo riesco anche a sentire dentro di me, come un coltello affilato che trapassa lo stomaco da una parte all'altra.
Tiro su il volto del ragazzo con arroganza, portandolo quasi alla mia altezza, e lo fisso con astio. Il cuore bussa forte nello sterno, coprendo tutti gli altri rumori. «Voglio che tu soffra. Lo voglio davvero, capisci?» sibilo a bassa voce. «Voglio che tu senta dolore!» Strizzo le palpebre fino a vedere la sua immagine quasi offuscata.
Lo sconosciuto prova a sganciarsi dalla mia presa ferrea, mentre inizia a contorcere le mani e le gambe. Ha l'espressione contrita, le iridi lucide e colme di paura, e il colorito della pelle del tutto pallido. Sta guardando nei miei occhi ma sono sicura che ciò che sta fissando non corrisponde alla mia immagine, bensì a vuoto nero e colmo di dolore.
«Smettila... Smettila di fare questo», farfuglia disperato. La voce è rotta e tremante, mentre continua a lamentarsi e strizzare gli occhi, come a voler cancellare qualche immagine brutta da davanti.
Sorrido e mi abbasso sulle ginocchia, lasciando all'improvviso la presa sulla sua mandibola. Appoggio entrambe le mani sulle sue gambe e lo fisso. «Ti fanno male le mie parole, vero? Lo senti ovunque, il dolore. Anche in posti dove penseresti che non sia possibile. Anche dentro la tua insulsa testolina. E lo faccio senza toccarti. È curioso, non trovi?» Sbuffo e alzo gli occhi al cielo, in una mossa estremamente teatrale. «Ma posso fare anche di più, lo sai? Posso farti impazzire. Impazzire, sì. Letteralmente.»
«N-No...»
«In ogni caso saresti spacciato... La tua mente sta cedendo. Lo sento.»
«Abbi pietà di me. Ti prego.» La voce del ragazzo si riduce a una preghiera affranta, mentre mi guarda con occhi velati di orrore.
Le sue parole mi colpiscono e vengono rigettate indietro, come se si fossero schiantate addosso a una barriera infrangibile. Ormai non so più cosa sia, la pietà. Scuoto la testa e accenno un sorriso. «Guardami dentro.» Gli apro di nuovo la mia mente, inglobandolo in un vortice di pensieri oscuri e pesanti. Lo sento condividere con me lo strazio e il dolore delle mie immagini che mi vorticano in testa, e i suoi occhi si spalancano terrorizzati, mentre mi fissa e prova a dimenarsi sulla sedia.
Stringo appena un po' le palpebre e aumento l'intensità del dolore, al punto che inizio a sentirlo pure io, dentro le ossa. Un senso di nausea inizia a ribollirmi nello stomaco e la vista davanti a me si annebbia a tratti. Per fortuna, il ragazzo decide di smettere di contrastarmi e mi lascia entrare del tutto nella sua mente, spaccando definitivamente le sue barriere, ormai lacerate. Con le mani si stringe ai braccioli della sedia, e l'attimo prima di arrendersi emette un flebile guaito di terrore con la gola. Poi s'irrigidisce con le spalle, reclina la testa in avanti e smette di lottare.
Il ragazzo dalle sembianze di Jared è morto. I suoi occhi sbarrati privi di vita e colmi di orrore ne sono la prova. Mi fissano esanimi, e per un breve istante mi si ficca in testa l'idea che questa immagine non riuscirò mai più a toglierla dal cervello.
Mi porto le dita tremanti sul volto e con gli indici spingo forte sulle tempie, strizzando gli occhi. Un cerchio alla testa di dimensioni stratosferiche mi dilania dal male e inizio a vedere offuscato. Modulo il respiro, mentre sento ovattato dietro di me il fragore di un battito di mani.
«Stupefacente...» mormora mio padre, avanzando. «Davvero stupefacente.»
«È morto, mio signore!» esclama Russell, entusiasta.
«Lo vedo, Russell. Lo vedo.» Cornelius si ferma esattamente alle mie spalle e un sussurro asettico si congratula con me: «Brava, bambina.»
Sento le pupille degli occhi bruciarmi e provo a regolare il respiro senza ottenere però grandi risultati. L'immagine del ragazzo morto davanti a me è troppo cruda. Soprattutto perché sono consapevole di essere stata io a porre la parola fine alla sua vita.
«Signore... Guardi i suoi occhi!» grida di colpo Russell, indicandomi con l'indice. «Sono rossi! Rossi come il fuoco!»
Strizzo d'istinto le palpebre, come a volermi proteggere dalla veridicità della sua affermazione, ma so già cosa intende, perché non è la prima volta che mi succede. Anche durante l'ultimo litigio con Jared avevo accusato un forte bruciore agli occhi, seguito alla variazione temporanea del colore delle iridi.
«È normale. È la manifestazione del potere demoniaco, Russell», spiega con pacatezza mio padre, senza smettere di fissarmi. «E lei ne ha usato parecchio, oggi. Ha fatto un passo avanti gigantesco.»
Ricambio il suo sguardo fiero senza sorridere. In questo momento mi sento morta dentro. Un campo arido e bruciato da un incendio.
«E adesso cosa intende fare, signore? Procediamo con la prossima cavia?»
Mio padre si passa una mano sulla barba appena accennata e scuote la testa. «No, non ora. Ho bisogno di verificare alcune cose prima di passare a... quella. Prima tra tutti, voglio constatare l'aumento della porzione demoniaca del sangue di Abby. All'inizio era piuttosto mediocre, ma dopo la prova di oggi credo che le aspettative siano di gran lunga superate. Il che rende lei la punta di un diamante prezioso, e io il più grande investitore.»
Le parole di Cornelius continuano ad attraversarmi in ogni angolo del corpo senza soffermarsi da nessuna parte. Mi entrano nelle orecchie ovattate e ancora più piano se ne vanno, lasciandomi intorpidita sui miei piedi, con lo sguardo ancora fisso negli occhi vitrei del ragazzo di fronte a me.
È morto, Abby. Morto, lo capisci?
«Va' a prendere dalla stanza numero 4 il kit per il prelievo del sangue», continua mio padre, sempre rivolto a Russell.
Lui annuisce ed esce dalla stanza con lieve cenno del capo. Io e mio padre restiamo da soli e per la prima volta mi esce un singhiozzo strozzato dalla gola. Un'altra me sarebbe scoppiata in un pianto isterico e disperato, ma quella Abby che conoscevo bene non c'era più da tempo, rimpiazzata da un mostro dalle sembianze umane.
«Sentirsi destabilizzati è normale, Abby. Provare nuove emozioni dentro di sé è normale. Anche sentire crescere il potere lo è, e il modo in cui lo hai esternato oggi è un grande risultato di cui non devi pentirti.»
Il nodo alla gola si stringe ancora di più e all'improvviso sento di non essere più in grado di guardare il cadavere davanti ai miei occhi.
«Non so se sono pronta a... farlo ancora», ammetto in un sussurro flebile. Quasi vergognandomi.
Mio padre sorride, ma scorgo nel riflesso cupo dei suoi occhi che ci vede ancora quel barlume eccessivo di umanità, dentro di me. «Il primo passo è sempre quello più difficile da compiere, bambina. Ma quando prendi un certo cammino, ti accorgerai che difficilmente sarai in grado di tornare indietro.»
Prima di realizzare appieno il significato di quelle parole profetiche, Russell fa di nuovo ritorno nella stanza. In mano ha un piccolo vassoio d'acciaio con sopra una siringa sterile, una garza e un laccio emostatico.
Cornelius gli fa cenno di venire avanti e gli sfila il materiale dalle mani con un'avidità bruciante. «Avvicinati, Abby. Qualsiasi dubbio hai, lo toglieremo a breve.»
Io eseguo l'ordine come se a muovere le mie gambe ci fosse un'altra persona, e mi ritrovo a tendere il braccio meccanicamente davanti a me, in una procedura che oramai conosco bene. Mio padre sta per prelevare un po' del mio sangue per vedere l'avanzamento dei miei progressi. Dentro di sé sta scalpitando per la frenesia. Non vede l'ora di riprendersi ciò che è sempre stato suo.
Potere e vendetta.
La procedura si ripete senza intralci né ostacoli. Rimango a fissare il sangue fluire fuori di me dentro alla provetta trasparente fino a che non si riempie, dopodiché Cornelius rimpiazza l'ago con un pezzo di garza ruvida e bianca. «Sono gli ultimi sacrifici, Abby. Poi non sarai più sola a fronteggiare il tuo potere», mi promette, poggiandomi una mano sulla spalla. L'altra tiene ancora stretta la provetta incappucciata con cura.
Annuisco, stanca. Il mal di testa assordante mi sta togliendo a mano a mano ogni briciola di forza.
«Adesso devo lasciarti, cara. Ho bisogno di un po' di tempo per analizzare il tuo sangue e capire a che punto del processo siamo. Tu torna pure nella tua stanza. Credo che avrai bisogno di riprendere un po' di forze.»
Russell si schiarisce la voce accanto a noi. «Signore, non so se ricorda, ma io dovrei andare a sbrigare quelle commissioni in città...»
Cornelius si volta verso di lui con un'aria vagamente perplessa, come se fosse appena caduto dalle nuvole. «Ah, già, lo stavo quasi dimenticando. Be', d'accordo, Russell, ma prima occupati di ripulire questa stanza...»
«Sarà fatto. Ho già provveduto a lasciare nella stanza della ragazza la razione di pillole e un vassoio con del cibo. Non so a che ora tornerò.»
«Spero che porterai buone notizie, almeno.»
Russell sorride criptico e si stringe nelle spalle, avanzando verso la porta. «Con il vostro permesso», saluta e se ne va quasi di soppiatto.
Rimango a fissare la sua ombra sparire dalla stanza senza capire il loro rapido scambio di informazioni.
«Da brava, Abby. Torna nella tua stanza. Ho bisogno di tempo per lavorare nel laboratorio.»
Guardo ancora il mio sangue rigirarsi nella siringa, poi deglutisco nervosa e sospiro. «Spero di non deluderti ancora.»
Lui mi sfiora una guancia con due dita e scuote la testa. «Non lo farai.» Poi esce dalla stanza numero 2 in silenzio.
Rimango ancora un attimo inchiodata a fissare la porta da cui mio padre è appena uscito, senza trovare il coraggio di voltare la schiena verso il corpo esanime del ragazzo imprigionato sulla sedia. Il respiro mi trema per un secondo e nello stesso attimo di tempo sento un vuoto a perdere sotto ai miei piedi. Questa sensazione di sensibilità estranea mi colpisce come uno schiaffo in faccia e cerco di ricacciarla indietro con tutta me stessa, forzandomi a essere fredda come una pietra.
Voltati a guardarlo, Abby. Fallo ancora una volta e l'avrai superata.
Ma lo sguardo spento di quegli occhi pieni di dolore è sono stampato nella mia testa, come una fotografia. Il terrore di quello sguardo supplichevole al quale non ho concesso nemmeno un briciolo di pietà.
Mi volto piano, ruotando il busto in gesto forzato e innaturale, finché non arrivo a scorgere con la coda dell'occhio il braccio penzolante del ragazzo così simile a Jared. Il resto del corpo non riesco nemmeno a vederlo, perché l'attimo dopo sto correndo fuori dalla stanza, richiudendomi la porta di scatto dietro di me.
«Cazzo», ansimo, portandomi le mani sul volto. Le strofino forte sulla pelle, come a voler cancellare quello che ho appena visto. Se ci riuscissi, adesso piangerei. Scoppierei in lacrime fino a finire esausta sul pavimento in pietra. Le lacrime portano via la forza per sentire il dolore. Lo cullano, sedandolo.
Raggiungo la mia camera trascinandomi dietro uno stato d'angoscia pesante come un macigno e quando entro dentro mi sento vagamente più sicura.
Il letto sfatto, la scrivania scarna e il comodino con sopra le solite pillole mi riportano a una realtà quotidiana meno spaventosa di quella di oggi e così torno a respirare piano per un attimo. Provo a calmare i nervi, mentre mi massaggio le tempie.
«Hai fatto la cosa giusta», mi ripeto a voce alta.
Mi siedo sul bordo del letto e fisso il bicchiere colmo d'acqua. Accanto ci sono due pillole rosse. Se ne prendessi anche soltanto una, il mio dolore sparirebbe nel giro di mezzora, lasciando spazio a quella solita sensazione di annichilimento. Rifletto tra me e me sulla scelta da fare, ma quando vedo il mio braccio allungarsi automaticamente verso il comodino alla ricerca della cura, gli occhi mi cadono su un piccolo dettaglio che stona nel quadro generale.
Accanto al cuscino del mio letto, quasi del tutto nascosto e accartocciato, c'è un piccolo pezzo di carta bianca.
Rimango con la mano sospesa nell'aria e dischiudo le labbra, sbattendo le palpebre.
Non è possibile. Chi può mai aver...
Sfilo il pezzo di carta da sotto il cuscino e con una lentezza disarmante me lo porto davanti agli occhi increduli. Sopra c'è scritto con la mia grafia: "Coniuctio Mentis".
Leggo le parole almeno una decina di volte, prima di alzarmi in piedi, guardami intorno, sentire il cuore perdere un paio di battiti, e realizzare di ricordare all'improvviso tutto.
Angolo dell'autrice.
Piccolo spoiler... il prossimo capitolo sarà dal punto di vista di Jared. Preparatevi psicologicamente, perché non siete pronti.
Un bacio grande, Ale.
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