15. La Stanza Numero 4
Abby
La stanza numero 4 non dista molto da quella in cui sono stata condotta tutte le volte precedenti. C'è solo una porta metallica separarla, a qualche blando metro di distanza, e deduco che possa essere la numero 3, anche se non ci sono targhette o scritte che ne indichino il nome.
Seguo mio padre e Russell lentamente, senza fretta, e mi assento con la testa mentre li ascolto confabulare piano parole cariche di progetti e assetti organizzativi. È come se prevedessero di arrivare a questo punto della storia, e adesso che ci sono dentro devono mettere in atto diverse strategie per far sì che tutto funzioni come lo avevano immaginato. Cammino a pochi passi da loro, senza curarmi delle loro parole: ormai ho smesso di pensare, di unire i pensieri che capto nell'aria fino a farli diventare processi logici. Ho smesso persino di formulare idee che esulano dalla mia banale vita quotidiana, perché il farlo mi provoca quasi sempre l'esordio di qualche doloroso mal di testa.
E preferisco di lunga una vita di assenze a una che straborda di dolore fisico.
«Vieni, cara, prima di te.» Cornelius mi invita a entrare per prima nella stanza, aprendo a poco a poco la porta, sigillata da un lucchetto rettangolare argentato.
Abbasso lo sguardo con educazione e supero Russell e mio padre, mettendo per prima i piedi dentro la stanza, illuminata da una serie di lampade, anch'esse al neon. Mi guardo attorno, stavolta meno incuriosita rispetto a tutte le altre in cui mi hanno condotta in qualche altro posto di questo bunker. Però, con stupore, mi accorgo che la tanto decantata stanza non è altro che uno spazio vuoto delimitato da quattro pareti spoglie in pietra. Non ci sono finestre comunicanti, né brandine o armadi pieni di medicinali come nella stanza numero due, ma solo mattonelle grigie e umide. Raggiungo il centro della stanza e poi continuo a camminare, osservando ogni centimetro a disposizione. Sfioro con le dita le pareti fredde, reprimendo un brivido veloce dietro al collo. Tutto, qui dentro, è asettico, come se non fosse mai stato toccato da nessuno prima d'ora. Continuo a muovermi in perlustrazione, mentre sento la presenza costante dietro di me di Cornelius e Russell, intenti invece a studiare ogni mia possibile reazione... Come se temessero che da un momento all'altro possa tornare la Abby di prima, quella cattiva e insubordinata.
Raggiungo il centro della parete e mi chino sulle ginocchia, incuriosita dall'unico dettaglio che contraddistingue la stanza numero quattro rispetto a una comunissima stanza vuota: attaccata al muro, a pochi centimetri dal pavimento, c'è una lunga catena pesante arrotolata su se stessa, che termina con una cavigliera di ferro. Prendo in mano qualche anello della catena e lo sfioro con le dita, saggiandone la ruvidità, data sicuramente dal disuso e dalla ruggine. Vivo la scena come se fossi una spettatrice esterna e per la prima volta evito di chiedermi il perché delle cose... Perché mi trovi qui dentro, perché la stanza sia vuota, perché ci sia una catena che prende vita dal muro, nemmeno fossimo in una cella del medioevo. Non mi domando più nulla ormai, ma mi limito a vivere ogni attimo della vita che mi è concessa con totale disinteresse.
Non sento più niente, ormai.
«Questa è per me?», domando tranquillamente, rialzandomi in piedi. Non mi stupirei se mi volessero fare del male fisico ancora. Sono convinta che quello che mi è stato fatto nell'altra stanza non sia il primo né l'ultimo trattamento di favore che mi spetta qui dentro. L'unica differenza rispetto a prima è che adesso non ho più paura.
«No», risponde Cornelius, sorridendo, le braccia incrociate attorno al petto.
«Okay.» Faccio un altro giro su me stessa, fisso le luci al neon e una ragnatela nera che prende vita da una delle lampade, e torno ad avvicinarmi alle mie due guide. «Questa stanza è vuota.»
«Sì.» Cornelius continua a rispondere cripticamente. «Ma sei tu a riempirla.»
«Cosa significa?»
«La stanza numero 4 è fondamentale per l'obiettivo a cui dovremo arrivare, Abby. Diventerà la tua palestra personale, per intenderci.»
Continuo a guardami attorno, indifferente ma confusa. Per un attimo mi torna in mente la palestra della Caserma, così illuminata, piena di tappetini blu, sacchi da boxe, attrezzi e bersagli... Per un attimo mi tornano alla mente i Guerrieri, intenti ad allenarsi duramente, e poi riemerge tra i ricordi anche il mio primo addestramento con Jared. Un fiotto di rabbia mi sale alla testa e una fitta rapida mi martella le tempie, come a punirmi ogniqualvolta la mente torni a lui. Maschero il dolore mordendomi l'interno delle guance e torno a sorridere serafica a mio padre. «Dove sono gli attrezzi e i macchinari?»
«Non ti sei accorta che non ci sono, scema?», ridacchia Russell, con la spalla poggiata addosso alla porta.
«Da oggi inizierai il tuo addestramento da Demone, Abby. È arrivato il momento che tu prenda consapevolezza di quello che sei in grado di fare. E questo non vuol dire prendere a pugni un sacco, e nemmeno batterti a corpo libero contro un nemico. Questa è roba da... Celesti», torna a spiegarmi mio padre, avvicinandosi piano a me. I suoi passi suonano sordi sul pavimento, come se la stanza fosse in grado di assorbire ogni tipo di suono generato all'interno di essa. «So che quelle bestie hanno provato a trattarti come una di loro, mentre vivevi lì. Avrai imparato benissimo a mirare a un bersaglio, immagino, ma non hai appreso nulla su come si utilizzino i tuoi veri poteri. Non è così? Correggimi, ti prego, se sbaglio.»
Annuisco. È tutto vero.
«Chiaramente non era nelle loro intenzioni farti diventare più forte di quanto non lo fossi già, ma invece rientra del tutto nelle mie... Nelle nostre. Questa stanza è pensata nello specifico ad allenare i tuoi poteri psichici, Abby, ed è per questo che non saranno sufficienti strumenti o attrezzature. Basterai tu. Tu e la tua sola volontà di superare alcuni limiti umani che ti sei imposta per natura. Mi segui?»
«Per chi sono quelle catene, se non per me?» Indico il cumulo di ferraglie intrecciate tra loro ai piedi della parete vicino a noi.
«È scontato che per addestrarti nel migliore dei modi, bambina, tu debba avere degli obiettivi da colpire, di fronte a te. Come quando usavi la Persuasione contro chi ti trovavi davanti. Ricordi com'era facile colpirli, una volta stabilito il contatto visivo con i loro occhi? Ricordi quella sensazione deliziosa nel vedere i loro sguardi persi nei tuoi, completamente assorti e passivi? Mi sembra ieri che giravo per la città a piede libero e usavo la Persuasio su ogni singolo passante...» Cornelius fissa il soffitto con aria sognante, ricordando di un tempo ormai passato. «In ogni caso, le catene sono necessarie per chi ti troverai di fronte a mano a mano che continueremo con gli addestramenti.»
«Chi sono le persone di cui parli?», continuo a tempestarlo di domande. Le parole di mio padre stanno aprendo uno scenario sempre più vasto e sempre più nuovo di fronte ai miei occhi, e per un solo momento la sensazione di novità mi fa sentire viva ancora. Solo per un momento.
Cornelius avanza accanto a me e mi passa un braccio attorno alle spalle, come a volermi tranquillizzare. «Volontari, Abby. Mettiamola così. Sono delle persone che contribuiranno a farti raggiungere la grandezza che ti spetta. Ma per farlo dovranno andare incontro a dei piccoli sacrifici.»
«Li dovrò uccidere. Ho capito.»
Russell batte le mani. «Sempre più perspicace. È incredibile.»
Le mani di mio padre mi afferrano il volto, indirizzandolo verso il suo. Mi fissa per qualche istante con uno sguardo carico di emozioni dense. I suoi occhi brillano e riflettono le luci al neon, ma sono così vivi da poter illuminare ogni forma penombra attorno ai nostri corpi. «Pensi di essere in grado di uccidere, Abby?»
Deglutisco, assorta nel suo pensiero appena formulato. Rimango appesa alle sue labbra, come se da esse possa uscire di lì a poco un'altra cattiva verità sulla mia natura. Alla fine annuisco piano «L'ho già fatto altre volte.»
Cornelius mi lascia un bacio rapido sulla fronte, poi richiama l'attenzione di Russell. «Va' a prenderne uno. Porta qui il più debole che abbiamo, ma prima somministragli una dose quasi letale di Loto. Se non morirà per mano sua, almeno lo farà quasi incoscientemente.»
Russell annuisce e si appresta a uscire dalla stanza, richiudendosi alle spalle la porta. Quando rimaniamo solo, mio padre inizia a camminare pensieroso avanti e dietro. Mi passa davanti più volte, e io con lo sguardo lo seguo.
«Ho atteso così tanto questo momento, lo sai?» Prende parola dopo qualche minuto di assenza. La sua faccia è tesa, a dir poco concentrata. «Ogni giorno che ho passato senza di te, è stato un giorno in più passato a studiare ogni singola sfaccettatura del De Rerum Vetitae, in attesa del tuo arrivo. Ho quasi sognato il momento in cui ti avrei potuto insegnare tutto quello che avevo imparato, e adesso che sei qui, sento le mani tremarmi dall'emozione.»
Accenno un sorriso formale, senza provare alcun genere di sentimento umano, e mi sfioro un braccio con le dita. «Cosa dovrò imparare?»
Cornelius interrompe la passeggiata e mi scruta di profilo. «Uccidere qualcuno con un pugnale in mano non è la stessa cosa che uccidere con la mente, Abby. Questo dobbiamo metterlo in chiaro subito», replica con semplicità. «Le uccisioni demoniache comportano un grande stress fisico, perché ovviamente mettono in gioco un alto quantitativo di potere. Te ne sarai accorta anche tu con la Persuasione, immagino.»
Mi torna alla mente lo scontro con i Sottomessi al Ground Square di Henver, dove ho costretto quei Sottomessi a uccidersi con la Persuasione. Ricordo lo sforzo fisico e come sono crollata poco dopo, vinta dalla stanchezza. «La Persuasione so gestirla bene. Voglio imparare qualcosa di nuovo.»
Cornelius mostra un'espressione appagata. «Quali parole migliori di queste potrei sperare di ascoltare? E da cosa vorresti cominciare, bambina? Sono tutt'orecchie.»
«Il dolore.»
«Il Dolor, eh? Vedo che sei stata attenta, prima.»
Il mio respiro si fa più esagitato, così come anche il mio sguardo, adesso febbricitante. «Cosa devo fare per far soffrire una persona al punto da ucciderla?»
Mio padre si avvicina e si ferma proprio di fronte a me. «È tutta una questione di volontà, Abby. Devi volerlo davvero, con tutto il male che hai dentro... Con tutta la cattiveria che riesci a generare dalla testa. Devi pensare al dolore, quello più forte e disabilitante, in grado di lacerarti ogni respiro e ogni pensiero. Devi creare una bolla d'odio così potente da colpire chi hai di fronte, travolgendolo con le tue stesse, letali, emozioni. E se sei grado di fare questo, qualsiasi nemico sarà in tuo pugno. Qualsiasi.» Il suo discorso finisce proprio quando la porta si apre di nuovo, deviando la mia attenzione da mio padre a Russell, che entra nella stanza preceduto da una giovane donna mai vista prima d'ora.
«Eccoci qui. Da brava... Katie, vero? Dai, Katie, non avere paura e raggiungi il centro della stanza, laggiù dove vedi quelle catene.» Russell indica alla ragazza, che su per giù dovrà avere sui trent'anni scarsi, la strada da seguire, dandole delle leggere pacche sulla schiena. «Per fortuna aveva il nome segnato sulla targhetta appesa alla maglietta, altrimenti non me lo sarei proprio ricordato!», ride scuotendo la testa.
La ragazza avanza tentennando verso la catena, come se fosse un automa. Si ferma lì di fronte senza guardare nessuno di noi e rimane immobile, con le braccia calate pesantemente lungo i fianchi. Ha i capelli biondi unti raccolti in una coda alta e dalla divisa che indossa sembra essere appena uscita dal supermarket in cui probabilmente lavorava prima di entrare qui dentro.
«Adesso chiuditi la cavigliera attorno al piede destro, su», la sprona ancora Russell, mentre le impartisce ordini da vicino alla porta.
La donna ubbidisce e sgancia il meccanismo che tiene chiusa la cavigliera di ferro, richiudendosela poi con uno scatto sordo attorno alle ossa scheletriche. Poi si volta a guardarci, alzando per la prima volta lo sguardo e incontrando finalmente il mio. Sussulto impercettibilmente, non appena incrocio i suoi occhi: le iridi sono scure e spente, quasi opache, e non hanno un briciolo di vitalità, così come anche il suo volto cinereo e smunto. Chissà da quanto tempo si trova qui dentro e cosa le sia stato fatto per ridurla in questo stato di catalessi quasi totale. La giovane donna respira piano, con le labbra dischiuse e secche, e ogni tanto socchiude le palpebre. Per un attimo mi chiedo se stia per dormire o se si trovi sul punto di morte.
Di nuovo, una brutta sensazione seguita da un lungo brivido mi traccia il retro del collo. Me ne disfo scuotendo la testa. Che diavolo mi sta succedendo? Un attimo sono su di giri per l'emozione, e quello dopo tentenno, agitata.
«Da dove viene lei?», domando finalmente, dopo aver studiato Katie sotto ogni punto di vista.
«È una nostra ospite temporanea», risponde in modo pronto Cornelius, mentre testa con lo schiocco delle dita la reattività della nuova arrivata. «Sì, è perfetta per iniziare.»
«Pensavo fossimo soli.»
«Ogni tanto ci concediamo il lusso di ospitare qualche nuovo arrivato, Abby. Ma niente di serio, tranquilla. Solo gente che viene e che va.»
«È una Sottomessa?»
«Ma quante domande, ragazzina...», borbotta Russell, alzando gli occhi al cielo.
«Era un'umana, ma adesso non è più niente. È stordita al punto da non riuscire nemmeno a riconoscere la realtà da un brutto incubo notturno. Sarà la tua prima cavia... Sei contenta?»
Non rispondo, ma mi limito a fissare la donna, sempre inerme al centro della stanza, con una catena stretta attorno al piede. Chissà chi era, prima di entrare qui dentro. E chissà se sa chi è adesso, ridotta a poco più di un vegetale che si regge in piedi su due gambe.
Chissà cosa dovrò farle io, per mettere fine a questa sua agonia.
Sento le mani farsi bollenti, fino a farmi formicolare i polpastrelli delle dita. M'inumidisco le labbra, ma ho la bocca e la gola secche. Guardo ancora la donna e per un attimo vorrei scappare via di qua. Forse non sono pronta per uccidere una persona a mente fredda. Forse non sono pronta per uccidere un'innocente.
«Cosa devo fare di preciso?» domando, schiarendomi piano la voce. Spero che dal tono non trasudi troppo il mio nervosismo. In realtà, è la prima volta da giorni che mi sento di nuovo così fragile e tesa.
«Falla soffrire. Iniziamo dalle cose semplici.» Cornelius si allontana da me e raggiunge Russell, lasciandomi da sola di fronte alla mia futura vittima. «Pensa a qualcosa che provochi dolore e trasmettiglielo mentalmente. Non è impossibile, basta solo provarci.»
Deglutisco e stringo i pugni. Perché sento il mio cuore battere così velocemente, adesso? Non ero diventata immune alle emozioni umane? Perché sto... tentennando?
Concentrati, Abby. Devi farlo.
Socchiudo le palpebre e mi focalizzo su Katie, che non sa dove poggiare lo sguardo. Attiro la sua attenzione e le catturo gli occhi, sussurrando nella mente parole tranquillizzanti per metterla a proprio agio.
Io non ti conosco, Katie, ma sono sicura che in questo momento vorresti che finisse tutto. Stai soffrendo, lo vedo, e magari non te lo sei nemmeno meritato. Quindi, per favore, se vuoi che il supplizio finisca il prima possibile, devi collaborare, okay? Focalizzati su di me, sui miei pensieri.
Corrugo le sopracciglia e inizio a pensare al dolore, quello sordo e increscente. Sento una miriade di piccole scosse trasmettersi su tutte le terminazioni nervose del mio corpo, dalle braccia fino ai piedi e per un attimo temo di stare per bruciare viva. Sono in sovraccarico di energia, ma la mia mente non smette di visualizzare davanti scene di dolore, urla e grida stremanti.
«Sì, brava... Concentrati!» mi incita Cornelius, anche lui su di giri.
La sua voce mi arriva ovattata e distante, come se mi stesse parlando da un'altra stanza. Le mie attenzioni sono rivolte tutte a quello che sta accadendo nella mia testa: non mi ero mai focalizzata così tanto su un'emozione. Non una così potente come il dolore. E l'energia che penso di aver incanalato sotto forma di onde elettriche è talmente forte che potrebbe fare del male persino a me stessa, se solo la lasciassi andare senza attenzione.
«Katie...», sussurro a denti stretti il nome della donna che ho davanti, quasi pregandola di continuare a guardarmi. Mi sento stremata, e le immagini che continuano a ronzarmi nella mente non fanno altro che aumentare d'intensità la tensione che avverto sulle tempie. Credo che tra poco mi scoppierà un'emicrania da farmi perdere i sensi.
Katie, guardami adesso. Guardami adesso. Guardami dentro.
«Signore... Guardi il suo occhio! Guardi il colore!» schiamazza Russell, incrinando un'atmosfera carica più che mai. Punta il dito contro di me e mi fissa sorpreso.
«Sta' zitto, idiota. Deconcentrala e ti faccio fuori», replica secco mio padre, prima di tornare a guardami. «Focalizzati solo su di lei, bambina. Stai facendo un ottimo lavoro.»
La donna solleva un po' le iridi spente, quanto basta per specchiarsi nelle mie. Non sembra notare il chiasso fatto da Russell, ma è attenta solo su quello che sta succedendo tra noi due.
Ti farò del male, Katie. Sentirai dolore. Tanto dolore.
Quando sento di non essere più in grado di contenere tutta l'energia che ho accumulato dentro, stringo gli occhi e inizio a rilasciare la mia arma mentale, affilata e invisibile, che si dirige verso la vittima che ho di fronte, del tutto inconsapevole: Katie continua a fissarmi assorta, ma non appena i miei pensieri carichi di dolore le si avvicinano sento come una barriera infrangersi contro di essi.
All'improvviso davanti ai miei, di occhi, si presentano dei flash di immagini, probabilmente captati dalla mente e dai ricordi della donna: una bambina bionda di qualche anno che trotterella su un vialetto e salta in braccio a Katie, lasciandole dei baci umidi sulle guance. La stessa bambina che dorme nel suo stesso letto, con il pollice infilato nella bocca e i piedini intrecciati tra loro. La stessa bambina, più grande di qualche anno, che le disegna un cuore su un foglio e glielo porge con un sorriso pieno d'amore.
Sua figlia.
La barriera di ricordi umani di Katie si schianta contro la scarica di dolore che ho generato nella mia mente e mi fa arrancare, illuminando tutto il buio che si era diffuso nella testa e schiarendomi per un istante le idee.
Ma che diavolo sto facendo?
Mi porto le mani sui capelli e sgrano gli occhi. Il mio corpo viene invaso da brividi alternati a tremori. Inizio a scuotere la testa, mentre lentamente lascio andare l'energia accumulata dentro di me... La rilascio nell'aria e un po' la ingoio nel mio sistema. Comincio a piangere per il dolore senza nemmeno rendermene conto, gli occhi ancora incollati a quelli della giovane donna, ancora indifferente al rischio che ha appena corso.
«No... Non posso, non posso farlo», balbetto piano. Indietreggio di qualche passo fino a schiacciarmi con le spalle al muro. «Non ci riesco. Non riesco a ucciderla.»
Cornelius emette un sospiro frustrato e dà un pugno improvviso al muro. Piccoli frammenti di polvere e pietra si sgretolano e cadono a terra. «Maledizione!»
«Che cosa non ha funzionato?» Russell si agita sul posto. È più agitato per la reazione di Cornelius che del mio fallimento.
«Non ci riesco. Mi dispiace... Mi dispiace.» Continuo a singhiozzare come se non avessi mai pianto in vita mia. Cerco di reprimere i singulti per paura di soffocare. Intorno a me vedo tutto nero. «Lei mi ha... Mi ha fatto vedere delle cose-»
«Oh, sta' zitta, Abby! Sei ancora debole, nonostante tutto!» mi grida contro Cornelius. È furioso. Furioso e deluso. «Ti ho portato la cavia più assuefatta e inerme che avessimo! Ucciderla era quasi più semplice che far fuori un maledetto criceto, ti rendi conto?»
Scivolo a terra, le guance completamente bagnate di lacrime. «Ci ho provato.»
«Sei ancora troppo umana, questa è la verità. Pensavo che fossi pronta, dopo il nostro ultimo discorso. Ma mi sbagliavo. Abbiamo corso troppo.»
«Non succederà più.»
«Sei stata un'egoista, Abby, lo sai? Uccidendo questa donna con il dolore, avresti potuto mettere fine alle sue sofferenze subito, quasi con uno schiocco di dita, se lo avessi voluto davvero. Adesso invece il trattamento peggiore spetta a te.» Mio padre tira fuori dalla cintura dei pantaloni un coltello dalla lama corta, chiuso in una guaina protettiva di pelle nera. Si avvicina a me e me lo spinge tra le mani tremanti. «Adesso dovrai sporcarti le mani. Ma tanto non avrai problemi, vero? Ad uccidere con i pugnali sei stata addestrata già bene», replica schifato.
Riprendo fiato, tra un singhiozzo e l'altro e guardo il coltello. «Non posso uccidere questa donna. «Non ci riesco, papà, non ci riesco davvero!»
Ma mio padre ha smesso di ascoltarmi, nervoso e irritato dal mio fallimento. Qualcuno sta bussando alla porta, e lo fa con una delicatezza tipica di una donna.
Russell si schiarisce la voce e dischiude leggermente la porta. Poi fa un cenno di saluto con la testa e lascia entrare la donna dai capelli rossi che diversi giorni fa si trovava nello studio di mio padre, in atteggiamenti tutt'altro che casti.
La donna sembra fregarsene del fatto che dentro la stanza ci sia una donna incatenata in un angolo e nell'altro io, inginocchiata a terra con un pugnale in mano e sommersa da un mare di lacrime. S'insinua con eleganza e provocazione nello spazio libero tra la porta e il muro e ignora Russell, rivolgendosi unicamente a Cornelius. «Ho delle novità da Henver.»
«Che succede, Becca?»
Sollevo leggermente la testa, mentre con gli occhi rimango fissa sul pugnale. Becca... Finalmente scopro il nome della donna misteriosa di mio padre.
«Mi crederesti se ti dicessi che un umano è stato fatto fuori intenzionalmente da un Celeste?»
Russell ridacchia e scuote la testa. «Che storia è questa? Non lo farebbero mai. È la legge.»
«Non sto parlando con te, idiota.» Becca punta il dito sul petto di Russell e lo fa ammutolire.
«Spiegati meglio.»
La donna dai capelli rossi torna a sorridere a Cornelius e abbassa di poco il tono di voce. «Referenti mi hanno raccontato di aver visto l'Occhio della Caserma uscire per una Ronda nel quartiere vecchio di Henver, la mattina passata. Non era solo, ma ad accompagnarlo c'era una ragazza... Una faccia nuova, ma sicuramente della feccia Celeste.»
«Sono i rinforzi mandati da Danville», prova a chiarire Russell, senza essere preso in considerazione da nessuno.
«Be', in ogni caso, la tipa ha sparato a un umano dopo essere stata minacciata di rapina da questo e l'Occhio ha giurato di mantenere il segreto. Ti rendi conto?»
«Sì, almeno una buona notizia... La situazione gli sta chiaramente sfuggendo di mano. Dobbiamo sfruttare ogni loro passo falso per riprenderci piano piano il controllo. Qui abbiamo ancora molto su cui lavorare – forse più del previsto – ma ci faremo trovare pronti», replica Cornelius, rivolgendosi implicitamente a me.
Ma la mia mente è focalizzata su tutt'altro in questo momento. Adesso non esiste più la stanza in cui mi trovo, non esistono più carnefici o vittime, dolore o morte. Adesso esistono solo le parole che mi sono entrate nella testa, pronunciate da una sconosciuta di nome Becca.
Jared è vivo. Jared è vivo ed è andato avanti. Ma con chi? Chi è la ragazza dipinta al suo fianco? Che cosa è cambiato nella Caserma?
Una fitta lancinante alla testa mi fa piegare in due dal dolore. Il coltello cade a terra e richiama l'attenzione di tutti.
Maledizione... Dev'essere così doloroso ogni volta che mi torna in mente il suo nome?
«Ci vorrà sicuramente più del previsto...» ripete Cornelius, sospirando. «Becca, voglio più Sottomessi in giro per la città. Prendili ovunque, senza differenze di sesso o età, e portali qui. Li voglio pronti il prima possibile per creare un po' di scompiglio nella città. Non ho ancora capito quali siano i piani dei Celesti, ma è ora di iniziare a portare più panico a Henver.»
«Devi pagarmi, Cornelius. Lo sai che dopo un po' inizio a-»
«La tua dose di medicina è nel mio studio. Inizia ad avviarti. Ti raggiungo lì tra qualche minuto.»
Becca sorride, risoluta, e lascia in silenzio la stanza numero 4. Per qualche secondo si sente solo l'eco dei suoi passi nel corridoio.
«Russell, inizia a preparare Aaron al fatto che presto farà un po' di... straordinari.»
Lui annuisce e torna a fissarmi. «E con lei che facciamo invece, signore?»
«C'è tanto su cui lavorare ancora. Torna a somministrarle le solite medicine. Mattina, pranzo e cena.» Cornelius si passa le dita sulle tempie e se le massaggia con fare stanco. «E non dimenticarti di preparare la stanza numero 2. A quanto pare la terapia di elettroshock non è bastata.»
«Se posso, signore, temo che così le friggeremo il cervello come una fettina di bacon.»
«Se questo servirà a spegnerle anche l'ultimo briciolo di patetica e fastidiosa resistenza umana, che sia allora! Non ho più tempo da perdere con questi giochetti. Adesso, va', Russell. Prenditi qualche ora di riposo, poi torna a prendere Abby e portala nell'altra stanza per la nuova terapia. Sai già come devi procedere.»
Russell china il capo in cenno di assenso e si declina, lasciandoci soli nella stanza. La donna in catene si muove appena, provocando il tintinnio dei ferri.
Mio padre avanza piano verso di me e mi tira su con la forza, obbligandomi a rimettermi in piedi e a stringere il pugnale tra le mani. «Lo sai cosa devi farci con questo, vero? L'hai voluto tu, Abby. Se avessi ucciso questa donna con i tuoi poteri, adesso non ti saresti trovata in questa condizione... A macchiarti le mani come un'umana.»
Rimango a fissarlo in silenzio. I tremori mi hanno tolto quasi tutte le forze. Mi sento esausta: anche se non sono riuscita a colpire la mente di Katie con il mio dolore, il fatto di aver incanalato tutta quella energia nella mia, di testa, mi ha tolto anche la voglia di espandere il petto per prendere un respiro.
«Voglio che tu la uccida. Come e quanto velocemente è affar tuo. Ma quando Russell verrà a prelevarti da questa stanza, voglio che qui dentro respiri una sola persona...» Mio padre mi inchioda con uno sguardo da monito. «Tu.»
Dopodiché lascia la stanza, richiudendosela alle spalle con due mandate di chiave.
Io e Katie rimaniamo da sole. Lei mi fissa, inconsapevole di tutto quello che stia succedendo, e per un attimo mi trovo a invidiarla. Per un attimo vorrei avere il cervello spento come il suo, per agire come un automa e non avere coscienza di nulla. Per un attimo vorrei...
Sospiro e raggiungo la donna. Mi tremano le gambe quando le afferro la mano e la guido a terra insieme a me. Ci sediamo vicine, una di fronte all'altra. Le mie ginocchia nude sfiorano le sue, strette attorno a un paio di jeans stinti. «Come si chiama tua figlia, Katie?»
Lei s'inumidisce le labbra secche e guarda il pavimento. «Io non me lo ricordo. Non ricordo più niente.»
Sento i pochi pezzi rimasti del mio cuore andare in frantumi di fronte alla sua risposta piena di indifferenza e dolore nascosto. «C'era una bambina nei tuoi ricordi. In ognuno di essi c'era lei. Me l'hai fatta vedere tu.»
Katie alza per la prima volta lo sguardo su di me e mi afferra le mani. Le sue sopracciglia sono arcuate e gli occhi vacui. «Stare con questa gente porta alla... alla pazzia. Non sono più niente ormai. Uccidimi. Per favore, uccidimi.»
Rimango paralizzata dalla sua richiesta e dall'urgenza con cui mi sta pregando di porre fine alla sua vita. Penso a quanto stia soffrendo in questo momento o quanto abbia sofferto per arrivare fin qui adesso, e mi assale un senso di nausea dilagante.
Perché? Perché devo prendere parte a queste atrocità?
Lo capisco dal riflesso dei suoi occhi che Katie non è più la persona che era prima, che di lei è rimasto solo l'involucro di pelle, sangue e ossa. Realizzo che la sua preghiera è una richiesta d'aiuto, così mi faccio forza e annuisco, le lacrime di nuovo in procinto di eludere ogni mia forma di autocontrollo. Afferro il coltello poggiato sul grembo e lo sfodero dalla custodia in pelle. La lama scintilla sotto le lampade al neon. Sembra non essere mai stata utilizzata prima d'ora.
«Uccidimi, o le voci che sento nella testa mi trascineranno all'inferno con loro, quando avranno finito di mangiarmi viva.»
Prendo un respiro e imposto una connessione visiva con Katie. «Okay... Okay, va bene. Proverò ad aiutarti. Io, ecco, proverò a non farti soffrire troppo.» Le punto la lama sul collo, forzandomi a guardarla e non distogliere gli occhi da quello che sto facendo. Prendo un altro respiro, poi stringo il manico tra le dita e premo secca sulla sua pelle, finché la punta del pugnale non le lacera la carotide e il sangue inizia a fluire fuori. «Non stai sentendo dolore. Non lo stai sentendo, Katie.»
La donna apre dapprima le palpebre, dilatando le pupille, poi la sua espressione si fa completamente vacua e... libera. «Non sento dolore», ripete, assuefatta dalla Persuasione.
Sfilo il coltello dal collo, esangue, e lo lascio cadere a terra. Ho le mani imbrattate di rosso, così come anche il pavimento e gli abiti. Katie perde conoscenza dopo poco più di un minuto, e crolla senza vita con le spalle al muro, il volto inclinato sulla spalla e le mani ancora unite sul grembo.
Chiudo gli occhi, sfinita, e arranco fino alla parete. Ho finito le lacrime, le parole, le speranze e persino i pensieri. Mi siedo accanto al corpo senza vita della donna e poggio anche io la schiena al muro. In questo momento sembra che io e Katie stiamo condividendo qualcosa: ma lei è morta e libera, mentre io sono viva e incatenata per sempre dentro quest'incubo vivido.
Alla fine mio padre ha trovato il modo migliore per farmi accettare la situazione per quello che è.
O mi arrendo a spegnere ogni genere di sentimento umano, o sarò costretta a trasformarmi in un mostro con le mie stesse mani.
A te la scelta, Abby.
Angolo dell'autrice.
Vi sono distante, ma vicina con il cuore. Vi regalo questo capitolo, che ho scritto di getto pensando a voi... Nonostante il tema poco allegro, spero vi sia piaciuto! Fatemi sapere nei commenti cosa ne pensate di questa storyline di Abby e suo padre... opinioni, previsioni, sensazioni!
Nel prossimo capitolo, torniamo nella Caserma ;)
A
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