CAPITOLO CINQUE: angel
Dedicato a chi lotta ogni giorno e trova comunque la forza per sorridere e affrontare un'altra giornata.
siete forti, non mollate
vi lascio qui sotto dei numeri verdi da contattare nel caso sentiste di non farcela. sappiate che vi rialzerete, c'è sempre una luce che vi guida, sempre.
ASK FOR HELP 🩵
TELEFONO AMICO: 02 2327 2327
TELEFONO AZZURRO: 1969
NUMERO PREVENZIONE SUICIDIO: 800 334 343
NUMERO PREVENZIONE DISTURBI ALIMENTARI: 800 180 969
NUMERO VIOLENZA DOMESTICA: 1522
SUPPORTO PSICOLOGICO: 800 833 833
SUPPORTO PSICHIATRICO: 800 274 274
TELEFONO ROSA: 06 375 18282
SUPPORTO PER AUTISMO: 800 031 819
⚠️ TRIGGER WARNING!!! ⚠️
Il capitolo tratta argomenti sensibili in maniera più o meno esplicita.
Se conosceste qualcuno in situazioni analoghe o voi stessi vi ritroviate, non esitate a contattare i numeri verdi qui sopra elencati.
Prima di lasciarvi alla lettura vorrei dedicare un piccolo spazio a una persona importante.
Qualche giorno fa, durante un mio momento bruttissimo, abbiamo fatto una chiacchierata e mi ha detto una cosa che io personalmente ho scritto su un foglietto e ho attaccato sopra alla testiera del letto. È l'unico modo che ho per sentirla vicina, data la distanza che fisicamente ci separa. C'è questa cosa, fra di noi, di dedicarci parole e pensieri che ci vanno venire in mente l'altra. Lei sa, quanto vale per me e quanto lei stessa valga, sa che tantissime volte mi ha salvata da momenti difficili con le sue parole. Ora io vorrei dedicarle questo spazio, che non sarà nulla a confronto, ma è un inizio. Vorrei condividere le sue parole qui, fatene tesoro.
Sei un'anima pura, tu sai.
<<Un giorno la paura bussò alla porta, il coraggio aprì e non vide nessuno.>>
"La vita è meravigliosa. Per quanto il mondo stia andando a rotoli, apprezziamo ogni singolo momento che ci viene regalato. Perché la vita è davvero meravigliosa e soprattutto preziosa."
GRAZIE. 🤍
CAPITOLO CINQUE: angel
- waiting 'till heavens on my side,
so I can sleep at night
the angels will protect me
praying on a lucky star
for you to save my heart
15 settembre 2021
La osservavo mentre guardava il piatto posato dinanzi a lei con le lacrime agli occhi.
Era appollaiata sulla sedia, la testa posata sulle ginocchia e gli occhi fissi sulle fette biscottate ricoperte di marmellata che giacevano sul tavolo. Era ferma così da ormai un'ora. Non si azzardava nemmeno ad allungare la mano: ogni tanto osservava il piatto, persa con la mente chissà dove, ma poi discostava lo sguardo e si fermava oltre, nel vuoto. E chiudeva gli occhi, le lacrime rigavano le sue guance, le asciugava e restava così ad occhi chiusi per qualche minuto. Avrei voluto dirle tante cose, ma rimasi semplicemente ad osservarla. Ero seduto al tavolo di fronte al suo e potevo vedere tutte le espressioni del viso che faceva. Potevo vederla coprirsi le labbra con la mano e chiudere gli occhi quando un conato di vomito le fece voltare il capo e la fece piangere. Sembrava intenzionata ad allungare la mano e afferrare quella fetta biscottata, ma alla fine i conati la presero in contro piede e ci rinunciò. Pensai che non ci fosse nulla di più autodistruttivo, pensai che non ci fosse nulla di più triste di ciò a cui stavo assistendo. Mi domandai per quale ragione non la facessero mangiare nella sua stanza da sola, per quale ragione dovessero farle subire quel supplizio e se tutta quella sofferenza che le causasse doverlo affrontare in pubblico potesse esserle utile a qualcosa.
Erano passati poco più di dieci giorni dal suo ingresso al centro psichiatrico, ma nulla era cambiato in lei. Non mi sembrava mostrare segni di qualcuno che desiderasse lottare. Mi chiesi come si estirpasse un cancro così aggressivo dalla mente di qualcuno. Come si estirpasse qualcosa che si nutriva delle forze di una persona fino a portarla a desiderare vomitare anche le sue viscere. Credevo che una cura non esistesse, in realtà.
Il primo mese era sempre il più difficile: li chiamavamo i terribili trenta.
Eve non parlava con nessuno, non voleva farlo. Osservava sempre tutti, ma non aveva ancora parlato con nessuno di noi.
Veniva in sala mensa, si sedeva da sola, ma non mangiava. Non l'avevo ancora vista addentare nemmeno un boccone, neanche una misera forchettata di insalata.
Vedevo lo psichiatra si sedersi accanto a lei e parlarle, ma lei non lo guardava nemmeno. Faceva spallucce, oppure allontanava il piatto e restava seduta lì per ora. Stretta in sé stessa, fragile come un bicchiere di cristallo. Non mi era concesso sapere cosa le dicesse, tenevo una certa distanza per ovvie ragioni, ma il mio cuore si spezzava ogni volta che la osservavo. Lui se ne andava, lei scoppiava a piangere.
Era una tortura, il desiderio di sedermi accanto a lei e parlarle era intenso e profondo, ma ogni volta che la guardavo mi sembrava sempre che non fosse il momento adatto.
In quel preciso istante osservai lo psichiatra tornare da lei e osservare il suo piatto. Spezzò la fetta biscottata in più parti e la invitò a mangiarne anche solo un pezzetto. Vidi Eve impallidire. Si raddrizzò sulla sedia e strinse ancora di più le gambe minute al petto. Scuoteva la testa e con le lacrime agli occhi sussurrava semplicemente <<No.>>
Sembrava che nessuno provasse a comprendere le ragioni per cui lei era decisa a non mangiare. Sembravano solo desiderassero vederla mangiare senza preoccuparsi di eliminare quei pensieri intrusivi dalla sua mente per riportarla alla vita.
<<Eve, cosa ti turba?>> Domandò il medico. Posò la sua cartella e la penna e dedicò semplicemente le attenzioni alla ragazza.
<<Quando posso vedere Julian?>> Chiese lei senza rispondere alla domanda. Non lo guardò nemmeno, guardava fuori dalla finestra, noncurante del fatto che lui fosse lì per farla mangiare.
<<Se c'è qualcosa che ti turba me lo devi dire, sono qui per aiutarti.>> Rispose lui. <<Non ti piace la marmellata di albicocche? La cambiamo?>>
<<Le ho già detto che io non voglio mangiare.>> Eve scattò in piedi e la sedia cadde a terra in un tondo sordo. La vidi osservare il medico dall'alto e gettare il piatto a terra senza curarsi di niente e di nessuno. Non le importava di avere gli occhi di tutte le persone in sala puntati addosso, guardava solo l'uomo dinanzi a lei con un astio tale che mi fece rabbrividire. <<Lasciami in pace. Lasciatemi tutti in pace.>> Detto ciò si allontanò in religioso silenzio e corse fuori dalla sala mensa. Uscì dalla stanza e la lasciò gelida, in un silenzio tombale.
<<Eve!>> lI dottore la chiamò a gran voce, come se potesse servire a qualcosa. Lei era già fuori, era già uscita. Lui provò a correrle dietro, ma andò dalla parte sbagliata.
Fu la prima volta, dopo tutti quei giorni, in cui riuscii a sentire la sua voce di nuovo.
Uscii dalla stanza e rimasi sulla soglia della porta ormai chiusa alle mie spalle a guardarmi intorno qualche secondo. Avevo osservato Eve a sufficienza per aver notato che quando voleva stare da sola si dirigeva sempre fuori nel giardino immenso e si perdeva, per ore alle volte. I medici la cercavano, chiamavano il suo nome per tutto il giardino, ma lei usciva fuori solo quando era più tranquilla e rilassata.
Io sapevo dove andasse: sapevo perfettamente che andasse a sedersi sotto gli alberi e rimanesse lì da sola. Il più delle volte piangeva, ma alcune volte invece aspettava il tramonto strappando l'erba e appoggiata al tronco dell'albero. Avrei tanto voluto sapere dove fuggisse con la mente e portarle solo pensieri felici, sradicare il male da dentro lei e farla rinascere. Era così bella, come il fiore di mezzanotte. Ma l'oscurità la stava divorando, si stava nutrendo di lei e le stava risucchiando la linfa vitale, fino a lasciarla pallida e scheletrica, priva di forze.
In quel momento mi stavo guardando attorno per capire se fosse già uscita dal grande portone e così, quando i miei occhi intercettarono la sua figura dirigersi verso il suo luogo preferito, m'incamminai svelto per seguirla.
Quella sarebbe stata la prima volta che le parlavo, la prima volta che saremmo stati da soli. Non sapevo nemmeno cosa dire, di preciso, ma camminavo lo stesso bramando il sui sguardo su di me e desiderando ammirare il verde dei suoi occhi fino a che me lo concedesse.
La trovai sdraiata nell'erba, in posizione fetale, ad occhi chiusi. Piangeva in silenzio e si accarezzava da sola, come se attraverso quelle carezze stesse dicendo a se stessa che sarebbe andato tutto bene, prima o poi. Sembrava una bambina, fragile e delicata.
<<Cosa non è chiaro del concetto "lasciatemi tutti in pace"?>> Disse mentre si tirava su a sedere e si asciugava le lacrime tra i singhiozzi.
<<Mi dispiace io...>> Mi avvicinai con cautela e presi posto al suo fianco. La osservai di profilo: i suoi capelli neri e bianchi fluttuavano nel vento caldo e il suo profumo alla cannella invase le mie narici. Era bella da togliere il fiato. Era perfetta. Non c'era niente in lei, assolutamente nulla, che avrei cambiato. Mi sembrava quasi non fosse vera. I residui delle lacrime macchiavano le pallide gote e i suoi occhi verde smeraldo erano arrossati e gonfi per il pianto. Le ciglia umide e il respiro affannato, lo sguardo perso nel vuoto come se nemmeno lei sapesse cosa fare per stare meglio, da che parte iniziare a rimettere insieme le parti di se stessa che aveva perso lungo il suo percorso. Sapevo quanto fosse difficile. Sapevo cosa significasse desiderare di non svegliarsi più il mattino seguente e lasciare che la propria malattia ti divori.
<<Ti ho vista sconvolta e non volevo che restassi da sola.>> Replicai arricciando il naso e sperando mi credesse. A dire la verità, non sapevo perché l'avessi seguita, l'avevo fatto e basta. Volevo solo stare vicino a lei, parlarle, aiutarla, essere qualsiasi cosa lei desiderava che fossi.
<<Quindi ti faccio pena?>> Fu solo in quell'istante che si voltò a guardarmi in faccia. I suoi occhi m'inchiodarono al suolo e restai appeso alle sue iridi spente da ogni speranza. La guardavo a labbra dischiuse, desiderando soltanto dirle quanto bella fosse ma consapevole che non lo potevo fare perché non era il momento più adatto. Per un istante pensai di allungare la mano e sfiorarle il viso, per asciugare le sue lacrime e portarle via la tristezza da quel bellissimo viso. Ma mi imposi di restare fermo e immobile. Temevo fuggisse, se solo avessi detto o fatto la cosa sbagliata.
<<Perché dovresti?>> Dissi con un sorriso. <<Non sono il tipo di persona che ti si siede accanto perché le fai pena.>>
<<E allora perché sei qui?>> Domandò curiosa. <<Ho detto che voglio stare da sola.>>
<<Mi chiamo Blake.>> Risposi. <<Sai, ti ho osservata a lungo e credo tu non voglia davvero stare da sola. Credo tu voglia solo qualcuno con cui chiacchierare alle volte, anche di cose senza senso. E che non ti guardi esclusivamente come la persona che soffre di un tremendo disturbo e che va aiutata. Sono qui esclusivamente per chiacchierare.>>
Eve rimase in silenzio diversi secondi prima di schiudere le labbra e sorridere leggermente. Si scostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio e tornò a guardare il sole che troneggiava nel cielo. Avrei potuto trascorrere la giornata in silenzio sdraiati in quel prato ad ammirare il cielo, se lei me lo avesse chiesto.
<<Quindi posso restare?>> Le chiesi sollevando le sopracciglia.
<<Se proprio insisti.>> Sospirò lei rivolgendomi una rapida occhiata.
Ti prego, guardami.
Nella mia mente c'erano solo quelle parole che fluttuavano, eppure rimasi in silenzio a guardarla, completamente incantato dalla sua figura. Sembrava un angelo.
<<Almeno dimmi qualcosa, così smetto di pensare a questo schifo e mi concentro su altro.>> Esclamò. <<Non startene lì a guardarmi come se stessi osservando la gioconda.>>
<<Magari è così.>> Risposi prontamente. Mi resi conto che dovevo sembrarle uno stupido.
<<Che fai adesso ti metti a flirtare?>> Chiese sorridendo e scuotendo il capo. <<Raccontami di te, sul serio. Da dove vieni, quanti anni hai, perché sei qui. Non mi piace essere osservata. E poi mi hai pedinata. Sei un maniaco per caso?>>
Sorrisi e distolsi lo sguardo. <<Vai dritta al punto vedo.>> Era stata diretta, molto più di ciò che immaginassi. Eppure, chissà per quale ragione, avevo voglia di raccontarle tutto quanto. Mi lasciai sfuggire una risata quando la vidi fare spallucce.
<<Ho venticinque anni.>> Le dissi. <<Sono nato in Tennessee ma vivo a Los Angeles da quando ho cinque anni. Non ricordo quasi nulla della mia città e ai miei genitori non è mai piaciuto molto parlare delle nostre origini. Soffro di depressione da anni, ti lascio libera di immaginare il resto e la ragione per la quale io mi trovo qui.>> Spiegai.
Eve mi osservò attentamente e si mordicchiò l'interno guancia. La guardai nel tentativo di comprendere ciò a cui stava pensando, ma aveva un'espressione indecifrabile. Non credevo avesse necessità di empatizzare e immedesimarsi, credevo comprendesse bene come ci si sentisse. Non serviva nemmeno lo dicesse. In quel posto, con il tempo, avevo imparato a capire che quando qualcuno ascoltava la tua storia e affermava di capire ciò che stavi provando e le tue emozioni, la stanchezza emotiva che ne derivava, era vero. Era la pura e semplice verità. Era capitato diverse volte che, prima di quel posto e di quelle persone, mi dicessero che comprendevano. E io, dall'alto della mia innocenza, rispondevo che non era vero. Chi non aveva provato un simile dolore, chi non aveva vissuto sulla sua pelle ciò che la depressione era in grado di causare e ciò che era in grado di farti provare e vedere, non avrebbe mai potuto capire. Non lo avevo mai detto con cattiveria, ero semplicemente dell'idea che solo chi lo aveva vissuto sarebbe stato in grado di comprendere. Mi rendevo conto che lo dicessero per aiutare, alle volte, che non lo facevano apposta. Ma non capivano, non potevano. E Dio, come li invidiavo.
<<È come avere un cancro.>> Sussurrò qualche secondo dopo. <<Come avere qualcuno al tuo fianco che solo tu puoi vedere, che non fa altro che ripetere che la tua vita non vale niente. Che sei solo un peso. Ripete che non sei abbastanza. Che anche se lotti con tutte le tue forze, non puoi vincere. Qualcuno che risucchia ogni tua forza, fino all'ultima goccia, e ti lascia così stanco da non riuscire più nemmeno a trovare la forza per aprire gli occhi. Ti guardi allo specchio e non sai più chi sei diventato. Sei tutto ciò che hai sempre odiato. Non ti piace nulla di ciò che vedi, niente di niente. Vorresti solo essere qualcun altro, una persona qualsiasi che guardandosi allo specchio prova solo amore per se stessa. E così, ti viene la nausea e pensi che faresti di tutto per indossare dei panni che realmente ti piacciono. E il cancro si diffonde, le metastasi aumentano. Guardi il piatto e non hai fame, non più. Ti viene da vomitare quando senti l'odore del cibo. Ti viene la nausea al pensiero di sederti a tavola e dover mangiare. E quando mangi, ti senti in colpa perché lo fai. Eppure tu hai sempre amato mangiare. E ti chiedi di nuovo chi sei, cosa ne è stato della persona che eri, dove sei finita. Alle volte pensi di stare avendo un infarto e ti spaventi, ma altre volte invece non lo fai e pensi solo che forse tutto sta per finire. Certi giorni, poi, va meglio. Ti guardi allo specchio, sorridi, ti senti più leggera. Ma quello dopo è di nuovo la stessa storia. E non sai spiegarti la ragione. È così e basta. Arrivi al punto in cui sei troppo stanco e non ce la fai più. E molli, la lasci vincere. Spegni tutto: emozioni, speranze, obiettivi. Non senti più nulla. Anestetizzi tutto. Guardi una persona, sai di amarla, ma non lo senti più. Così inizi ad avere paura, paura di ciò che sei diventata e di ciò che puoi fare. Spaventi te stessa. Perché mentre tu muori dentro, lei gioisce e ti ritrovi a pensare che va bene così. Che è giusto così. E hai una paura fottuta. Così pensi che, forse, è l'ora di provare a lottare e di rimettersi in piedi. Anche se mentre lo stai facendo ti rendi conto che ti ha prosciugata di ogni singola forza che una volta possedevi.>> Posò la testa sulle ginocchia e le lacrime tornarono a solcarle le guance, timide e silenziose. Era così vulnerabile e fragile in quel momento. Ma io la sentivo vicina al mio cuore come mai era successo in tutta la mia vita con qualcuno. Stava bruciando all'inferno, lei, e io sapevo cosa volesse dire.
<<Hai paura?>> Le chiesi senza pensare troppo a cosa rispondere.
<<Mi sono state chieste e dette tante cose da quando ho iniziato a stare male. Le ragioni, se fosse successo qualcosa, cosa fare per aiutarmi. Mi è stato detto che avevo tutto e non comprendessero le ragioni della mia sofferenza. Mi è stato detto che a tutti succede di sentirsi depressi o di non piacersi almeno una volta nella vita, che avrei dovuto farmi forza e accettare che vivere significa anche questo. Accettare che questo viaggio è fatto di alti e bassi e che la sua bellezza sta nel rialzarsi dopo una caduta dolorosa. Mi è stato detto che sono bellissima e perfetta così, che non ho bisogno di perdere peso, che devo amarmi per quella che sono perché sono stupenda e sono una persona meravigliosa. Quante stronzate. Tutte cazzate a cui non ho mai voluto rispondere, perché una risposta non ce l'ho e non credo l'avrò mai. So che mi sento così, che adesso sono questa persona.>> Si asciugò le lacrime e tornò ad osservarmi con un amaro sorriso in volto. <<Ma mai nessuno mi ha chiesto se avessi paura. La risposta è sì, io ho paura. Ma non per me. Non mi spaventa la morte, non più, penso ancora che solo in quel silenzio troverei la pace e non lo posso negare. Ho paura per le persone che amo. Ho paura quando vedo la sofferenza che il mio dolore causa. Mi fa paura l'idea di non riuscire a rialzarmi e stare bene, di deluderli. Mi fa paura l'idea di andarmene e il pensiero che uno di loro possa soffrire quanto sto soffrendo io. Non se lo meritano, nessuno di loro lo merita. È questo che mi spaventa.>> Arricciò il naso e si sdraiò a terra di nuovo. Aveva gli occhi così gonfi e arrossati ed era così magra che aveva le guance e il contorno occhi scavati dalla depressione e dall'anoressia. Le sue gambe erano minuscole e sembravano di una fragilità a dir poco impressionante. Ed era bianca come la neve. In quel momento, per me, era neve al sole. Era come se si sentisse destinata a svanire esattamente come la neve era destinata a sciogliersi al sole. <<E tu? Tu hai paura?>>
Rimasi a riflettere su quella domanda più a lungo del previsto, non seppi spiegare la ragione. Piegai la testa di lato e mi abbandonai a un sospiro sconsolato. <<No.>> Dissi onestamente. <<Una volta sì. Io avevo paura di me stesso e della persona che stavo diventando perché non riuscivo a smettere di chiedermi cosa mi stesse succedendo, per quale ragione e fin dove sarei stato in grado di spingermi. Quando poi ho capito che dovevo smettere di pormi domande alle quali non riuscivo a trovare una risposta, ho anche smesso di avere paura. Forse non ha senso quello che sto dicendo e il mio pensiero, però credo che nel momento in cui accetti che tu puoi essere anche questa persona allora la paura se ne va.>>
<<Mi stai dicendo che tu vivi bene nel tuo stare male? Sembra che ti piaccia.>> Rispose prontamente Eve.
<<Sostanzialmente sì.>> Non pensavo di essere mai stato più onesto e sincero di così.
<<Quante stronzate, Blake.>> Esclamò.
<<Io non ho più una ragione per lottare, Eve.>> Sbattei le palpebre e arricciai il naso. <<Una volta l'avevo, ora non più. Per cosa lotto, per chi, se una volta fuori di qui non troverò nessuno che mi aspetta?>>
<<Per te stesso.>> Affermò con decisione. <<Non devi lottare per qualcuno o per fare un favore a qualcuno. Devi lottare per te stesso. Non farli vincere e non fare vincere la depressione. Quelli che ora non sono al tuo fianco devono vederti fuori di qui, felice e sorridente. L'unica persona che può davvero salvarti sei tu.>>
Eve mi guardava come se non credesse alle mie parole, eppure per me era così da tanto tempo. Avevo smesso di lottare, smesso di combattere, perché avevo capito che non sarebbe servito a nulla. Sapevo di essere destinato a perdere la guerra, perché per quanto io mi sforzassi lei tornava sempre. Bussava costantemente alla mia porta e io non potevo non farla entrare. Era troppo insistente: più mi rifiutavo più forza lei ci metteva, così cedevo e la lasciavo entrare. Sorrisi e passai le mani sul viso, contrariato. <<Tu stai lottando per qualcuno, Eve. Ma nonostante tu sappia che li fuori ci siano delle persone che ti aspettano e ti amano, sei seduta qui dopo essere scappata dalla mensa al solo odore del cibo. Eve, io ti vedo. Dal primo giorno. Lo vedo quanto stai male e che non ce la fai più. Non dirmi di non mollare quando sei tu la prima a volerlo fare.>>
Credevo si fosse infastidita dopo le mie parole, dati i secondi di silenzio che ne seguirono. Ma poi si mise in ginocchio e mi guardò dritto negli occhi. Erano riempiti di lacrime che proprio mentre mi guardava, rigarono le sue guance. Stava trattenendo il respiro, tanto che quando espirò udii un singhiozzo. Si mise una mano sul petto e, dopo essersi asciugata le lacrime, sorrise. Mi chiesi come fosse possibile, mi chiesi quanta forza dovesse avere per riuscire a sorridere nonostante stesse morendo dentro.
<<Ti sbagli, Blake.>> Le tremava la voce, mentre parlava. <<Io non lotto per qualcuno, io lotto con qualcuno. È ben diverso.>> disse poi. <<È vero, io sto veramente di merda. Sento odore di cibo e ho i conati di vomito, sì. Ho dato un morso a un panino e ho vomitato, sì. Sono qui da giorni e non sono aumentata neanche di un etto, non sono riuscita ad andare oltre i tre morsi del piatto che avevo davanti. Sono scappata perché oggi non ce la faccio nemmeno a provare, perché oggi sono più stanca del solito. Ma ho deciso che va bene così. Mi sta bene avere delle giornate così. E non ti mentirò. Ho pensato di mollare, ci penso costantemente. Vorrei addormentarmi e non risvegliarmi più, ogni giorno della mia vita. Ma io merito di più di questo e se c'è una cosa di cui sono certa è proprio questa. Io merito di più. Sono molto stanca, non ho più forze. Ma merito di più. Oggi è un giorno brutto, oggi probabilmente non toccherò cibo di nuovo. Ma domani è un altro giorno. Domani, forse, andrà meglio. E se non sarà domani sarà il giorno dopo ancora, ma prima o poi andrà meglio. Io non voglio vivere la mia vita qui dentro e non dovresti volerlo nemmeno tu.>> Concluse. Si alzò in piedi, barcollando e senza forze, ma mi tese lo stesso la mano. <<Posso offrirti la mia mano, se lo vuoi. Posso dirti che usciremo da qui insieme e che staremo bene un giorno. Ma tu non devi smettere di lottare e devi trovare la tua forza, perché non posso permettermi di tornare indietro per te. Io devo andare avanti e tu se vuoi puoi seguirmi e stare con me. Troverai la mia mano. Ma non stare fermo. Alzati e, un passo alla volta, ricomincia a camminare.>>
La osservai dal basso qualche istante, in silenzio. Non sapevo cosa dire, cosa pensare. Il mio cuore non credeva più nelle sue parole, ci aveva creduto per tanto tempo ma non era mai cambiato nulla. Avevo passato la vita a vivere sulle montagne russe, ed era ancora così. Non credevo di avere mai avuto un giorno in cui mi ero ritenuto felice e in pace, semplicemente pensavo di avere avuto giorni okay. Giorni che mi avevano strappato un sorriso o in cui non avevo avuto un attacco di panico c'erano stati, ma non un giorno in cui una volta giunta sera avevo pensato di essere felice e di stare bene. Non avevo una persona per cui lottare e nemmeno una con cui lottare. I miei genitori non erano mai venuti a trovarmi da quando ero entrato al centro e come da accordi non avevano nemmeno tentato di contattarmi. Mia sorella ci aveva provato più volte, ma ogni volta che l'avevo vista non facevo altro che ricordare l'inferno dal quale provenivo e, alla fine, avevo rinunciato anche alle sue di visite.
E io non avevo amici, non ne avevo mai avuti. Avevo persone che frequentavo di tanto in tanto, ma qualcuno che mi aspettava fuori e veniva a trovarmi ogni giorno io non lo avevo.
Eve lo aveva. Avevo visto quattro persone, oltre i suoi genitori, che facevano avanti e indietro alternati fra di loro per venire a trovarla. Che la stringevano fra le braccia e la cullavano promettendole che sarebbe andato tutto bene e che l'avrebbero aspettata. Io li avevo visti, Eve non era sola.
Mi chiesi se stessi sognando, quando posai lo sguardo sulla sua mano tesa, perché se l'avessi afferrata quella sarebbe stata la prima vera stretta di mano e il primo vero aiuto che mi fosse mai stato offerto. Sentii il cuore pompare battiti così forte da zittire tutti gli altri rumori, sentivo solo pulsazioni cardiache e i miei occhi si posavano dalla mano di Eve allungata verso di me, ai suoi occhi verdi come la speranza che io avevo perso nel tempo. Il mio cuore desiderava così tanto credere alle sue parole, pensavo ne sentisse la necessità nel profondo.
<<Io non ho nessuno che mi aspetta, fuori di qui.>> Sussurrai arricciando il naso e distogliendo lo sguardo.
<<Adesso hai me.>> Replicò prontamente. <<Una volta una persona importante mi ha detto che c'è una vita fuori di qui che mi aspetta, che merito di viverla e merito tutte le cose belle della vita. Io non ti conosco. Non conosco la tua storia e tu non conosci la mia. Ma per tutte le volte in cui ti sei sentito solo, abbandonato, per quelle in cui hai desiderato di non svegliarti più al mattino e per quelle ancora in cui lo vorrai, io ti dico che c'è una vita fuori che ti aspetta. Una vita che aspetta entrambi. Lo estirpiamo insieme questo male, però tu afferra la mia mano.>>
Sospirai e tornai ad osservarla mordicchiandomi l'interno guancia. Era ancora più pura di ciò che immaginavo. Non sapeva chi fossi, se avessi commesso un crimine o se avessi avuto un esaurimento nervoso causato da qualsiasi altra cosa. Ma mi stava offrendo la sua mano. Non sapeva chi fossi ma mi aveva aperto il suo cuore e mi guardava con le lacrime agli occhi: credeva profondamente nelle sue parole. E così, il mio cuore cedette. <<Me lo prometti?>>
Eve sorrise. Per la prima volta, mi dedicò un sorriso. Ne feci tesoro, in cuor mio, e sperai che me ne dedicasse ancora all'infinito e per sempre.
<<Promesso.>> Affermò. <<Croce sul cuore.>>
Fu in quel momento che afferrai e strinsi con forza la sua mano. Non importava quante volte avevo
pensato o avrei pensato di lasciare questo
mondo da quel momento in poi, perché avevo lei. La stavo guardando negli occhi e mi sentivo come se fossi appena nato e quello fosse il mio primo respiro. Eve si era appena offerta di salvarmi la vita.
Ero seduto nello studio della dottoressa Robins e me ne stavo con le gambe accavallate a giocare con le dita mentre lei non faceva altro che parlare, parlare e parlare. La mia mente era offuscata dall'immagine di Eve e dalle sue parole. Dai suoi occhi che mi guardavano con un'intensità tale da farmi rabbrividire al solo pensiero, dalla sua mano tesa verso di me e il suo timido sorriso. Aveva gli occhi lucidi, mentre sorrideva, respirava affannosamente come se alzarsi e reggersi in piedi per più di qualche minuto le costasse uno sforzo immenso. Eppure, mi guardava e mi sorrideva come se andasse tutto bene. Glielo si leggeva negli occhi quanto stesse soffrendo. Glielo si leggeva dalle espressioni del viso che ogni qualvolta i suoi occhi si posassero su uno dei piatti che la psicoterapeuta le posava dinanzi, lei aveva voglia di sparire. Era evidente che detestasse l'idea di dover mangiare, di dover affrontare tutto quel dolore che l'attanagliava e si nutriva di lei fino a prosciugarla.
Quando la guardavo, Eve mi sembrava un angelo. Sembrava esserci racchiuso il paradiso in quegli occhi verdi e, per me che avevo vissuto nell'inferno per tutta la mia vita, era la mia salvezza. L'avrei guardata in eterno se me lo avesse concesso. Non avrei più lasciato la sua mano se stringerla mi avesse permesso di accedere ai giardini dell'Eden.
<<Oggi ho parlato con Eve, dottoressa Robins.>> Dissi ignorando completamente ciò che stava dicendo da ormai venti minuti. Non avevo ascoltato una sola parola, vedevo solo la sua bocca muoversi ma la mia mente era persa altrove.
<<Blake...>> Lei sospirò. Posò la penna e mi osservò attentamente, prima di ricominciare a parlare. <<Blake io ti stavo parlando di una cosa importante. Hai ascoltato una sola parola di quello che ti ho detto?>>
<<No.>> Replicai sinceramente. <<Stavo pensando a Eve.>> Il filtro bocca-cervello aveva smesso di funzionare. Volevo solo parlare di quella nostra conversazione. Seppur fosse una cosa semplice, ciò che era accaduto, a me aveva fatto battere di nuovo il cuore.
<<Cosa è successo con Eve?>> Domandò a quel punto, quando si rese conto che non volevo parlare della mia depressione e nemmeno del mio autolesionismo. Nemmeno dei tagli sulla pelle che mi ero provocato solo pochi giorni prima.
<<Ho sentito il mio cuore battere per la prima volta da che ne ho memoria.>> Sussurrai con un sorriso sornione. <<Mi ha ridato una speranza, dottoressa. Capisci cosa significa questo per me? Abbiamo parlato, per un'ora intera è rimasta seduta accanto a me. Mi ha raccontato un pezzo di sé e io le ho raccontato qualcosa di me. Mi ha ascoltato, dalla prima all'ultima parola. Lo ha fatto per davvero. Alla fine mi ha teso la mano, mi ha sorriso e mi ha detto che non sarei mai più stato solo con lei al mio fianco. Capisci cosa intendo? Nessuno nella mia vita mi aveva offerto aiuto, mai. Nessuno mi aveva teso la mano e mi aveva sorriso in quel modo. Non mi ero mai sentito così compreso da qualcuno in vita mia.>>
<<Eve è una ragazza molto speciale.>> Rispose la psicologa regalandomi un sorriso. <<Ha un cuore puro, è evidente. E io sono molto contenta che tu abbia trovato un'amica, o comunque qualcuno con cui parlare e condividere le tue giornate. Come ti fa sentire tutto questo, Blake?>> La Robins riprese la penna e, mentre io elaboravo una risposta, lei ricominciava a scrivere. Mi ero sempre chiesto come scegliesse che cosa trascrivere su quei fogli e soprattutto cosa di preciso ci scrivesse. Se ciò che le raccontavo oppure ciò che ne traeva, dai miei racconti. Sarei stato curioso di leggere il mio fascicolo.
<<Mi sono sentito solo per tutta la mia vita, tutta quanta.>> Esordii. <<Ai miei genitori non importava di me. Mia sorella è una vigliacca. Quelle volte in cui è venuta a trovarmi, dopo dieci minuti se n'è sempre andata. Non ha nemmeno il coraggio di venire qui e passare una maledettissima ora con me. Non vuole vedermi stare così male, a detta sua, le fa male vedermi in questo stato. Ci veniva a trovarmi, ma cosa me ne faccio di una persona che viene qui, si siede per dieci minuti e resta in silenzio a trattenere le lacrime, dottoressa? Lo so che mi vuole bene, me ne rendo conto. Ma resta una vigliacca in ogni caso, per quello che mi riguarda. E io di amici non ne ho mai avuti, dottoressa. Non ho la più pallida di come si faccia a fare amicizia e di cosa faccia un amico. Ma io voglio Eve nella mia vita. Dal momento in cui l'ho vista per la prima volta. Lei ha qualcosa di speciale che mi spinge a volerne sapere sempre di più. E non smetterei mai di guardarla, dottoressa. Quegli occhi verdi speranza... mi hanno fatto rabbrividire quando mi ha guardato per la prima volta, lo sai? Ha acceso una piccola speranza, nel mio cuore. Sono certo che tutto questo significa qualcosa. Per la prima volta dopo tanto tempo, io mi sento bene.>>
<<È così, Blake.>> Replicò lei. <<Ogni cosa che accade nelle nostre vite accade per una ragione e significa qualcosa. Custodisci questo giorno e fai tesoro di come ti senti. Di questo bel sorriso che stai facendo. Però stai attento. Non è Eve la tua salvezza. Non è Eve che deve portarti fuori dal tunnel. Devi farlo tu. Lei può essere la tua spalla e la tua compagna in questo viaggio, ma non è lei che deve portarti alla luce. La luce la dovrai trovare tu. Anche lei ha le sue battaglie da affrontare, come tutti noi del resto. Non aggrapparti a lei ma aggrappati alla speranza che senti fiorire. Puoi farcela Blake. Lo so che sei stanco, lo vedo. Ma io spero che questo giorno sia servito a farti capire che è dalle crepe che entra la luce. Tu lasciala entrare, vedrai che bello.>>
<Ci proverò.>> Le dissi. Non ero mai stato più sincero di così. Non avevo avuto più la forza di provarci, fino a quel momento. Fino a quando Eve mi aveva offerto la sua mano. <<Promesso.>>
Mi ero chiesto spesso se gli angeli esistessero, se fossero tra di noi e camminassero tra gli esseri umani. Se ognuno di noi ne avesse uno, come qualcuno credeva. Ma dopo qualche tempo, mi ero convinto che non fosse così e che fosse tutta una menzogna. Avevo creduto che nessuno avesse una propria guida, un qualcuno pronto a proteggerlo e dirgli quale strada prendere. Perché se così fosse stato, non mi sarei trovato dove mi trovavo in quel momento e soprattutto non mi sarei trovato a desiderare che la mia vita finisse, nemmeno a tentare più e più volte di farla finire per non sentirmi più in quel modo.
Eppure, in quel preciso istante mi ritrovavo a darmi dello stupido.
Qualcuno da lassù mi aveva guardato e aveva pensato di fare un ultimo tentativo per provare a salvarmi.
Forse quel qualcuno mi aveva mandato Eve. O forse aveva scelto di venire di persona da me e il mio angelo era proprio lei.
Spazio psychoilary:
Alloraaaaaaaaaaa
adesso che siamo nelle mente di Blake un po' di più e lo abbiamo conosciuto meglio, cosa ne pensiamo? 🥺
E di Eve? Avevate capito che cosa le stesse succedendo?
Raccontatemi tutto 💋
come sempre grazie di tutto 🩵
alla prossima settimana
ila
x
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro