Chapter 7
Selfish, taking what I want and call it mine
Dorian barcollò indietro di qualche passo, ma Dimitri lo riacciuffò presto per la maglietta, strattonandolo verso di sé.
- Dove diavolo hai messo i miei soldi, ragazzo!? -
- Non... - ansimò, con il respiro corto, come se avesse appena terminato di compiere uno sforzo. La testa girava e il freddo che sentiva fin dentro le ossa gli provocava brividi talmente forti da fargli battere i denti e annebbiare la vista. - Non li ho presi io... -
Dimitri gli afferrò il mento con una mano, stringendogli le guance tra le dita ruvide e ispessite. - Non devi mentire a tuo padre. - e con una spinta lo spedì indietro, facendolo traballare su quelle gambe incredibilmente stanche e incerte. Dorian si ritrovò a incespicare tra i suoi stessi piedi, per poi cadere a terra.
"Ma che cazzo mi prende, in questi giorni...", si chiese, rantolando sul pavimento mentre tentava malamente di rialzarsi.
- Te l'ho detto... - ogni parola pronunciata gli costava il doppio del fiato e gli bruciava la gola: mettere insieme una frase di senso compiuto sembrava un'impresa. - Non li ho presi io. -
Il padre gli assestò un calcio all'altezza dello stomaco, approfittando di quei movimenti così lenti e inusuali per lui.
- Non dire stronzate! Devi essere stato tu! - si chinò su di lui e gli infilò una mano tra i capelli, tirandoli verso l'alto con così tanta irruenza da fargli dolere le radici. - Mi servono! - sputò in un ringhio; l'alito così alticcio e nauseabondo da far venire il voltastomaco.
Dorian sentiva la fronte andare fuoco e le tempie pulsare come impazzite: anche la minima oscillazione del capo lo costringeva a serrare le palpebre, e il caos che vorticava frenetico nel suo campo visivo gli faceva confondere la destra con la sinistra, il sopra e il sotto. Percepì le mani del padre frugargli nelle tasche, e con facilità immaginò di cosa potesse mai essere alla ricerca. Lo sentì poi imprecare ad alta voce, insoddisfatto e frustrato. Nel giro di un secondo, il suo portafogli vuoto finì scagliato dall'altra parte della stanza.
- Non dirmi che li hai già spesi tutti! - mollò la presa sui suoi capelli e il collo si piegò paurosamente in avanti, scattando come una molla.
- Non dare la colpa a me... - farfugliò, le immagini dell'ambiente e dell'uomo che si confondevano in tante macchie sbiadite davanti ai suoi occhi stanchi. Sapeva che era meglio tacere, ma era così maledettamente stanco. Arricciò il naso e piegò le labbra in una smorfia disgustata. - Whisky, tabacco... non sei tornato, stanotte. Forse è stata la tua amica a fotterti, in tutti i sensi. -
Ma la sua irriverenza gli costò un nuovo pugno al viso.
E, se prima a malapena ci vedeva, ora l'occhio sinistro aveva completamente perso qualunque speranza di mettere a fuoco sagome e figure nelle immediate vicinanze.
Quindi non si accorse nemmeno del calcio successivo, che arrivò con una potenza tale da farlo rotolare prima sulla schiena e poi sull'altro fianco. Dorian non sapeva nemmeno più se fosse maggiore la sua stanchezza o il dolore che provava: quello che era certo era che le due componenti sembravano ormai vecchie amiche, tenute strette a braccetto.
- È solo grazie a me che puoi permetterti di andare avanti e mi ripaghi così! Sei proprio inutile... -
Ennesima stronzata.
Dorian aveva sempre faticato e fatto così tanto.
Non per sé, ma per Gavril.
Quando finiva le lezioni all'università, se non aveva alcun lavoretto da pochi spiccioli commissionato dai vicini, o dagli amici dei vicini, correva a casa per poter stare con suo fratello. E poiché Gavril, a causa della sua abilità, non riusciva più ad andare a scuola, lui gli faceva da tutor, cercando di sopperire a quella mancanza di istruzione come meglio poteva. Poi, una volta che Dimitri tornava dal lavoro, si assicurava che fosse troppo sbronzo per potersela prendere con il più piccolo, o, in caso contrario, si preparava a calmarlo, diventando il suo personale ricettacolo per rabbia e frustrazione. Solo allora, e solo se non era ridotto troppo male, usciva per guadagnare qualche soldo, vestendo i panni del fattorino-tuttofare per una pizzeria non poi così distante.
Il proprietario, Igor Spatchcock, era un uomo caritatevole, e la prima volta che Dorian lo incontrò lesse nei suoi occhi una pietà smisurata, così profonda e radicata da fargli prudere le mani ogni volta che lo sguardo si posava su di lui. Era cosciente di essere niente di più che l'equivalente di un gattino randagio a cui offrire una ciotola di latte, e seppur quella consapevolezza lo mandasse fuori di testa instillandogli nel cranio un profondissimo senso di vergogna, se lo faceva andare bene.
Doveva farselo andare bene.
Perché Igor non faceva domande se saltava dei giorni di lavoro, e non gli chiedeva nulla quando lo vedeva arrivare con il labbro spaccato o il viso emaciato; si limitava a morire silenziosamente di dolore e ad aggiungere qualche banconota in più alla busta che gli avrebbe consegnato a fine serata.
Igor aveva perso un figlio, molti anni addietro, e Dorian questo lo sapeva bene. Più volte si era chiesto se fosse giusto approfittarsi così di lui e di quel vuoto che gli usurpava il petto, ma poi i pensieri confluivano su Gavril e quindi i soldi tornavano ad avere la precedenza, scialacquando qualunque senso di colpa potesse appesantirgli la bocca dello stomaco.
E tutto quello che Dorian aveva messo da parte, in quegli anni, era ben nascosto e ben lontano dall'essere accessibile alle mani sporche di violenza di Dimitri. Nonostante il suo desiderio più grande fosse andarsene via di lì il prima possibile, di certo non si sarebbe mai azzardato a tirar via un solo centesimo dai fondi del padre.
Dorian puntò quindi una mano a terra per cercare di rialzarsi.
In sottofondo, riuscì a distinguere i singhiozzi continui di Gavril, ma ancora prima che potesse dirgli di non preoccuparsi si ritrovò catapultato nel buio più assoluto.
E, nel giro di un attimo, si scoprì completamente privo di forze.
*
Sbatté un paio di volte l'unica palpebra che riusciva a controllare, e appellò la luce artificiale che si infiltrava nel campo visivo come dannatamente fastidiosa. La testa pulsava ancora con prepotenza e i muscoli si erano ridotti ad un ammasso dolorante di fasci e fibre; anche il solo aggrottare la fronte lo portava a percepire un fastidio pungente irradiarsi per tutto il viso.
Un mormorio sorpreso, seguito da un lungo sospiro proveniente dalla sua sinistra, lo costrinse a voltare il capo in quella stessa direzione, infossando la guancia nel cuscino.
- Sei sveglio. -
L'inflessione sollevata di quell'accento lo portò automaticamente a tentare di mettersi a sedere, ma un paio di mani gentili e affusolate gli bloccarono le spalle, invitandolo a rimanere disteso.
- Ti prego, non alzarti. -
Dorian spalancò gli occhi e mugugnò a vuoto, con la gola secca. - Cosa ci fai...? -
Elyza appoggiò entrambi i gomiti sul materasso, affondando il viso tra le dita. - Ti ho portato gli appunti. Il tuo amico ha detto che eri malato. -
Il ragazzo deglutì, ma ancora prima che potesse replicare, lei gli appoggiò il palmo sulla fronte.
- E in parte è la verità. - lei sostituì le dita con le labbra, posandole sulla pelle come le ali leggere di una farfalla. - Perché bruci, davvero tanto. -
Dorian fu inondato dal suo profumo, dai capelli biondi e scompigliati che ora gli ricadevano sul viso, e da quel piccolo ciondolo dorato che si era posizionato proprio in corrispondenza del pomo d'adamo, rendendo quella zona l'unico punto in cui il fuoco emanato dal proprio corpo si estingueva contro il freddo del metallo.
- Però non sei solo malato. - le labbra, ancora a contatto, gli solleticarono la fronte, mentre il tono di voce si faceva via via più serio, gravando su quel "solo" come un macigno.
Quell'istante, però, durò troppo poco per i gusti di Dorian. Così, quando lei si allontanò, si ritrovò a pensare che se solo ne avesse avuto le forze avrebbe infilato le mani tra quei capelli per stringerla a sé e non lasciarla più andare, prolungando il tempo in una manovra del tutto egoista.
Nonostante lo sguardo più cupo, l'acconciatura in disordine e la stanchezza ad aleggiare sul viso, Elyza era la creatura più bella su cui avesse mai potuto posare gli occhi.
Forse era la febbre a parlare, forse era la temperatura esagerata del proprio corpo a riuscire a consumare i muri che lui stesso aveva eretto nei confronti di quella ragazza. Eppure, una parte di Dorian pareva aver finalmente accettato l'incredibile attrazione che provava per lei.
Poi, una spiacevole realizzazione cancellò in un soffio qualunque quadretto positivo che si stava apparecchiando nella mente. Si scoprì con braccia e gambe immobilizzate, come se il terrore l'avesse paralizzato.
- Che ore sono? -
- Le diciassette e cinquanta. Hai dormito tutto il giorno. -
Dorian puntò le mani sul materasso e scattò per alzarsi. - Te ne devi andare. - fece lui, sbrigativo, dopo aver scaldato la voce e ignorato il giramento di testa.
- No. - si limitò a rispondere lei, con un taglio degli occhi contrito e le labbra disposte in un piccolo broncio. - E non mi farai cambiare idea. -
Così, si ritrovò nuovamente a sprofondare nel materasso, al di sotto della coperta imbottita.
- Tu non capisci. - balbettò, agitato. - Non puoi stare qui. Lui tornerà a breve, e... -
- Dorian. -
Elyza gli afferrò il volto tra le mani, adoperando una delicatezza paurosa. Con i polpastrelli sfiorò appena i lividi scuri che adornavano i suoi lineamenti, sussultando con lui ad ogni piccolo tremore che gli scuoteva le spalle. Aggrottò le sopracciglia e si martoriò il labbro inferiore.
- È stato tuo fratello ad aprirmi. Piangeva, e diceva che non ti svegliavi più... e quando sono entrata in casa eri a terra, immobile per davvero. Sei tu che non capisci. -
Il ragazzo lasciò andare indietro la testa, esprimendosi in un sospiro breve che gli svuotò i polmoni con una tale velocità da fargli male al costato.
Come poteva spiegarle che era normale, per lui, ridursi in quelle condizioni?
Rifletté poi sul fatto che dovevano essere stati proprio Gavril e Liz a portarlo in camera, così si sentì ancora più patetico di quanto già non fosse.
- Sei tu stesso a medicarti, di solito? -
Dorian si limitò ad un cenno leggero del capo.
- Non va bene. -
- Mi alleno per passare a medicina. Così, se riesco a prendere anche quella borsa di studio, sono già un passo avanti. -
Ma la battuta non colpì Elyza, la quale si limitò a rivolgergli un'occhiata così mesta e cupa da farlo trasalire.
- A che ora tornerà? -
- Presto. Per questo te ne devi andare. -
Ma Elyza, irremovibile, sostenne il suo sguardo, senza abbandonare la propria posizione o il proprio punto di vista.
- Gavril dovrà cenare. - si limitò a dire lei, stringendosi nelle spalle come se fosse la cosa più semplice e banale del mondo, come se avesse trovato la chiave di volta per quella discussione sterile. - E tu non puoi muoverti dal letto. -
A quel punto, Dorian percepì la stizza montare.
Fece per controbattere a tono, quando Elyza si chinò su di lui per unire le labbra alle sue, smorzando la protesta con un bacio rapido, appena sfiorato.
Troppo sfuggente.
- Non muoverti da qui... - mormorò lei, appoggiando la fronte alla sua e chiudendo gli occhi, mentre una mano si intrufolava tra la nuca e il cuscino per stringerlo a sé. - Ti prego. -
Dorian, per la seconda volta, si lasciò portare in salvo da quell'abbraccio, rendendosi stupidamente conto che per lei avrebbe accettato di fare qualunque cosa, a qualsiasi condizione.
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Ciao, fiorellini! ~
Con il capitolo 7 inizia la seconda parte della storia, la definirei agrodolce.
Per Dorian le cose non sembrano mai rimanere tranquille troppo a lungo, e non appena succede qualcosa di positivo ecco che capita qualcosa di spiacevole... Dimitri non si è fatto scrupoli nemmeno questa volta, e l'ha picchiato nonostante il figlio stesse già male.
Fortuna che Elyza è tenace. Era da un po' di giorni che non lo vedeva a lezione, così si è avvicinata a Vlad per chiedergli informazioni. E figurati se lui non ha sciorinato la sua versione, dandole pure l'indirizzo di casa xD
Cosa pensate che succederà, ora?
♡
Ci vediamo con il Capitolo 8 Martedì 6 Dicembre!
~ Juliet
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