CAPITOLO 28 - Riflessi
[NdA Nelle interviste e nello splendido photobook della serie, PPKrit (che interpreta Oh-aew) ha dichiarato che una delle scene a suo avviso più intense e meglio riuscite è stata, per vari motivi, tagliata dal montaggio. Si tratta del coming out di Oh con i genitori, subito prima della scena iconica del reggiseno rosso. Pensando al personaggio e alla situazione, ho deciso che quella confessione fosse un momento importante e quindi la propongo qui, anche se, appunto, non la troverete nella serie.]
Quando il corpo è sottoposto a un dolore troppo intenso, il cervello mette in atto una geniale strategia di autoconservazione, semplicemente spegnendo i sensi. Si sfugge al potere della realtà svenendo a corpo morto. E non si sente più nulla.
Oh-aew non lo sapeva, ma per i dolori dell'anima succede quasi lo stesso. A un certo punto, proprio quando credeva di morire soffocato dalla disperazione, la sua anima è svenuta. Ha semplicemente smesso di soffrire, è rimasta sospesa, ha spento i sentimenti. Il cuore sanguina ancora, ma quel sangue non gli appartiene più. Può guardarlo dall'esterno, tranquillamente, con curiosità scientifica. Ne ha piene le mani, ma non fa più male.
Rigido, svuotato, ridotto a un involucro di se stesso, Oh siede sul divano del soggiorno contemplando la carta da parati dietro la tv spenta, senza vederla realmente. Ha scoperto che il buio si può ingurgitare finché non riempie tutto e diventa sempre più denso.
Così lo trova sua madre, più di un'ora dopo. Spento. Ci sono solo le tracce di lacrime asciugate sulla faccia, capelli scarmigliati da mani inquiete e disperate, ma nessuna espressione sul viso, nessuna emozione negli occhi.
Seduto in mezzo ai suoi genitori, Oh-aew respira. Gli batte il cuore suo malgrado. E gli sembra già molto. Sente le loro voci, sempre più insistenti, ma non riesce a cogliere il senso delle parole.
«Non gli vado bene» dice Oh-aew a un certo punto, con la voce spezzata. E' il riassunto di tutto il suo malessere. In un istante, gli occhi si riempiono di lacrime.
«Che dici, Oh. A chi non vai bene, tesoro?» la madre gli accarezza gentilmente il braccio.
Il padre lo guarda interdetto; vorrebbe sapere cosa dire, ma la verità è che dei suoi diciott'anni ha dimenticato quasi tutto e gli sembra di essere sempre stato vecchio come si sente adesso, di fronte a quel figlio così giovane e incomprensibile.
«A nessuno» risponde Oh, strofinandosi le cosce con le mani. Le lacrime scendono da sole, colano lungo le guance e piovono sul pavimento. «Non vado bene a nessuno!»
«Ma cosa dici, tesoro? Non è vero!»
«Sono sbagliato!» piange Oh-aew, inserendo fra le sillabe un lungo, penoso singhiozzo. «Sono tutto sbagliato!» aggiunge, in una specie di guaito, da bestia ferita. La testa crolla in avanti, schiacciata dal peso del mondo.
A sua madre si stringe il cuore, ma si trova inerme, di fronte al mistero fragile che ha di fronte. Guarda il marito, che non osa nemmeno respirare. Sono persone lineari, nella mente come nel cuore; la complessa, artistica, multiforme architettura interiore di Oh-aew sfugge loro completamente.
«Perché dici così?» chiede sua madre, accorata, con piccole carezze.
«Perché...» Oh esala due lunghi respiri, prova ad asciugarsi le lacrime col dorso della mano.
«Perché, tesoro? Diccelo! Dicci come ti possiamo aiutare!»
«Non mi potete aiutare! Nessuno può aiutarmi! Io sono condannato a essere così!»
Il padre di Oh scuote il capo. Gli sembra di assistere a una recita teatrale, a una di quelle serie a puntate un po' patetiche, piene di eccessi. Vorrebbe solo capirci qualcosa. «Così come? Facci almeno capire!»
Oh-aew si piega in due, la schiena curva, la testa che quasi tocca le cosce. «Mi piacciono i maschi!» geme, coprendosi la faccia con le mani.
Per un lungo momento, non si sente altro suono che quello dei loro tre respiri fuori sincronia.
«Mi dispiace» sussurra Oh-aew, tirando su col naso. «Mi dispiace tanto. Ma non è colpa mia... io non... » E riprende a piangere, sussultando come se ogni lacrima gli causasse dolore fisico.
I genitori sono ammutoliti. Cercano risposte giuste che non esistono. Errori commessi nel passato, giustificazioni, avvisaglie, sintomi. Che non ci sono.
Eppure, sembrava così normale.
«Mi odiate?» domanda Oh, con la voce strozzata dal terrore della risposta.
In quel momento, in quella voce resa bianca dalla disperazione, la madre di Oh riconosce il suo bambino. E il fatto, puro e semplice, che non smetterà mai di esserlo. E lei non smetterà mai di amarlo, dal giorno che ha saputo che esisteva dentro di lei, fino all'ultimo respiro sulla terra.
Una madre soffre le sofferenze di duo figlio. Anche gli occhi di lei si inondano di lacrime. «Non potremmo mai odiarti, Oh. Come ti viene in mente?» lo rassicura, cingendogli le spalle con il braccio.
Oh annuisce, ma non può smettere di piangere.
Anche il padre sposta una delle sue grandi mani sulle scapole sporgenti di Oh-aew e inizia ad accarezzarlo. Non sa cosa prova. Non capisce perché debba succedere qualcosa del genere proprio a suo figlio, proprio a lui.
«E potete essere fieri di me? Anche se... »
Anche se.
Oh non riesce a completare la frase, sente i lineamenti del proprio viso deformarsi sotto la spinta di altri groppi di pianto. Si volta verso il padre, che inizia ad annuire con la testa, frastornato e angosciato. La madre si affanna a rispondere: «Certo. Certo che lo siamo tesoro. Lo siamo.» Gli accarezza il viso più volte, come faceva quando era piccolo, per calmarlo. «Ci rendi orgogliosi ogni giorno. Capito? Come puoi pensare di no?»
Oh respira a fondo e scruta i loro sguardi. Non è nelle parole il conforto che cerca. Lo placano gli abbracci, il contatto, le mani di suo padre fra i capelli, i baci della mamma sulla fronte. Qualcuno che non lo respinga. Mai.
Indifeso e abbandonato, debole e inerme, violato e umiliato come lo ha lasciato Teh, Oh non vuole sentirsi mai più. La prima armatura che indossa, direttamente a contatto con la pelle, è fatta di baci e di carezze, di colpetti sulla schiena, di sussurri affettuosi, del sale che resta quando si asciugano le lacrime.
Qualche ora dopo, Oh-aew si è calmato. E' sera, tutte le stanze sono in penombra, dall'oceano arrivano aliti di vento leggero che sollevano appena le tende chiare. Oh attraversa la stanza dei suoi genitori senza rumore, i piedi nudi sul legno del parquet, fino al grande armadio di mogano.
Apre l'anta: sul ripiano in basso, in bell'ordine, giacciono allineate, come in un sepolcro, tutte le cose eleganti che sua madre non indosserà mai. Oh indugia con i polpastrelli fra le sete e i pizzi, oggetti costosi e futili che abitano le ombre, nascosti come segreti, inutili come speranze.
Le lacrime di Oh sono finite, ma i pensieri no. Frullano impazziti nella mente, dietro la calma apparente del suo viso, alla deriva in un oceano tempestoso di ipotetiche insensate, fondamenta instabili su cui costruire chimere.
Come sarebbe se...
Centinaia di ucronie personali, piccole e grandi, spalancano visioni fugaci di mondi alternativi. Guidano i suoi passi fin lì, fino alla mano bianca che si allunga e indugia su cose che non gli appartengono. Le dita si fermano su un reggiseno rosso. Rosso sangue, rosso ibisco, rosso fuoco. Rosso inganno.
Oh lo prende, maneggiandolo con cura, come l'oggetto effimero e prezioso che è; se lo rigira fra le mani, accarezza l'imbottitura delle coppe. Dopotutto, è la simulazione l'essenza di ogni seduzione, spingere chi guarda a immaginare cose che non esistono, a crederle reali e poi a desiderarle. Ed è quello che vuole Oh-aew adesso: essere desiderato. Bramato. Rimpianto. Amato no, non più.
Di fronte al grande specchio d'angolo, con la sua vecchia cornice dorata, Oh si appoggia addosso il reggiseno. Il suo corpo acerbo sembra più che mai indeciso, sospeso fra i generi, oltre l'infanzia ma ancora molto lontano da qualunque virilità esibita. Un efebo sul punto di sbocciare in una qualche splendida, misteriosa anomalia. Anomalo. Come appunto si sente.
Indossa le bretelle, le sistema, si volta di schiena, con i ganci ancora slacciati. La schiena bianca e liscia, perfetta nelle sue curvature naturali, potrebbe davvero essere quella di una ragazza. Meglio di molte ragazze, in effetti.
Oh combatte con i gancetti, l'elastico sfugge fra le sue dita inesperte e nervose. Non sa bene cosa stia facendo, non ha nessuna intenzione di mettersi a pensare, in quel momento le motivazioni non contano nulla. Conta l'effetto finale. Conta solo lo specchio.
E lo specchio è magico. Il riflesso, nella sua impostura, appaga un senso estetico per niente accondiscendente e un occhio portato al bello per natura. Oh-aew accarezza le coppe con le mani e resta vittima della sua stessa illusione, sembra davvero che ci sia qualcosa, un segreto custodito fra la seta e il pizzo: carne bianca, morbida e soda, una curva rotonda e perfetta che crea un profilo nuovo. E migliore.
La posa che Oh assume è copiata inconsapevolmente da innumerevoli scatti femminili su instagram: una posizione sbilanciata, leggermente ruotata, con un braccio piegato sotto il petto, che dissimula la mancanza del punto vita, e le spalle oblique.
Non sorride, perché tutta la felicità del mondo è rimasta sotto il pelo dell'acqua, in una bolla d'aria che nessuno ha respirato. Non sorride e le sue labbra sono ancora più belle, in quella piega seria e distante che imita gli adulti. I suoi occhi, senza stelle, sono ancora più profondi.
Oh afferra il telefono e si guarda attraverso il doppio occhio dell'obiettivo e dello specchio, in un gioco di riflessi che toglie ogni significato alla realtà.
E all'improvviso, è consapevole della propria bellezza, o meglio, di quella della creatura che ricambia il suo sguardo dallo specchio. Una forma ibrida e sfuggente, ma infinitamente desiderabile.
Scatta la foto e resta a guardarla per meno di un secondo, prima di postarla su instagram. Dove tutti potranno vederla. Dove Teh potrà vederla.
Si guarda ancora e gli pare che qualcosa sia cambiato. Il riflesso è meno nitido, meno perfetto, meno erotico. Oh ripensa alle mani di Teh che vagano sulla sua schiena e sul suo torso, che si arrampicano sui fianchi, che arrivano sul petto e lì cercano qualcosa da stringere. Adesso, sotto le coppe, sembra proprio che quello che Teh cercava ci sia, che occhieggi nel candore della carne sotto il bordo di pizzo rosso.
Oh passa le dita sulla seta delle coppe; il senso della vista è così facile da ingannare, ma il tatto è un'altra cosa: c'è solo aria lì dentro, le sue mani sono ancora vuote. E' più di una bugia. E' una finzione dolorosa, una terribile mistificazione.
La verità è che Oh non si riconosce. Che può mentire e ingannare chiunque, ma non se stesso, che non vuole farlo. Oh-aew fa un passo in quel momento nel mondo degli adulti, quando l'amore per se stesso supera di un soffio il desiderio di essere amato da altri, quando la dignità diventa un'esigenza e non un lusso.
Accettarsi è un bisogno. E' l'amore ad essere un lusso, e Oh non può permetterselo.
Si strappa di dosso il reggiseno con rabbia e lo scaglia via, lontano, sulla terrazza: è ancora effimero ma prezioso non più, e forse non lo è mai stato.
Adesso lo specchio restituisce il riflesso di sempre: il solito giovane umano, sospeso fra l'infanzia e quello che c'è dopo, alieno, incompleto.
C'è un'altra cosa da adulti che Oh impara in quel momento: sentire il bisogno di amarsi, non lo rende facile. In quel momento, è difficilissimo. Perché non ci sono risposte. Non ci sono motivi. Non ci sono colpe né colpevoli. E' tutto com'è e come deve essere. Ingiusto.
L'ingiustizia è il passaporto per diventare grandi. Riuscire ad accettarla, senza smettere di soffrire. E Oh soffre. Piegato dal male che sente, piange un pianto sonoro, con più gemiti che lacrime. Sente accumularsi nelle viscere un dolore opprimente, che risale fino ai polmoni e lo soffoca. Si ritrova carponi, con le mani che premono contro il mondo per allontanarlo e il collo abbandonato. Rialzarsi sembra impossibile.
Accartocciato sul pavimento, i boxer rossi che spiccano sul tappeto chiaro, Oh è il più innocente degli ibischi calpestati.
Del fatto che stia vincendo una battaglia, che stia crescendo proprio in quel momento, che stia costruendo se stesso, non potrebbe importargli di meno. Sa di essere nel giusto, ma vuole ancora Teh. Lo ama ancora. Lo amerà sempre. Il prezzo di quel rifiuto è una cicatrice di guerra.
E può solo piangere. Per tutto quello a cui rinuncia rifiutandosi di fingere. Per se stesso, che è sempre quello che paga il conto. Per l'innocenza smarrita quella mattina sulla spiaggia, quando il mondo gli ha svelato che il lieto fine esiste solo nei romanzi. Per il nero che vede intorno. Per non poter scegliere chi essere, ma solo chi amare.
Qualche volta, tutte le scelte sono sbagliate.
***
Teh fissa il soffitto senza vedere nulla. Steso sul letto, ascolta il respiro regolare di Hoon immerso nel sonno. Sono le quattro di mattina e ha già pianto tutte le lacrime che aveva. Per la prima volta, non ha nessuna idea di come poter riparare quello che si è rotto. Si rifiuta, in realtà, persino di pensarci seriamente.
Lascia scorrere il tempo così, riempiendolo di pensieri inutili, brandelli di ricordi, una persistente nostalgia del se stesso che era fino a poche ore prima. Respira a fatica, suda, i minuti scorrono così lentamente che vorrebbe poterli spingere in avanti con la forza.
Le quattro di mattina e la sveglia non suona. Il telefono non squilla. Il silenzio è opprimente, quasi più dei suoi ansiti affannati.
Una breve vibrazione porta una notifica di Kai, che invia una foto presa dal profilo di Oh-aew. La didascalia dice: Teh, che gli succede? L'ha pubblicata e poi eliminata subito. Sono riuscita a salvarla.
La foto scuote Teh fino alle fondamenta.
E' Oh, ma al contempo non è lui. E' come potrebbe essere, come dovrebbe essere se ci fosse al mondo un barlume di giustizia. Così bello che guardalo è un oltraggio. Così bugiardo, in quella foto, che Teh deve distogliere gli occhi. Non lo sa, ma sono già lucidi di desiderio, e forse lo erano già prima.
Quello che ha detto a Oh stamattina lo ritiene ancora vero. Adesso si sente così, febbricitante e oppresso, ma è chiaro che non può durare. Che prima o poi rinsavirà.
E' un maschio.
Se lo ripete e ripensa alla foto, senza il coraggio di guardarla di nuovo. Solo a pensarci, è già eccitato, già duro fino a scoppiare.
E' un maschio. E' un maschio.
Deve toccarsi. Deve farlo, o finirà in manicomio, perché corpo e mente entrambi fuori controllo Teh non li può gestire, e addomesticare il corpo è infinitamente più facile. Basta una mano. Si nasconde sotto la coperta e si tocca, mentre i pensieri vagano, tornando esattamente dove non dovrebbero.
Dal muro, la foto del suo idolo, Yongjian, lo guarda con indulgenza e con commiserazione. Quella che Teh sta facendo, è il genere di cosa che Yongjian non farebbe mai, di cui proverebbe disgusto.
Ma non può fermarsi. Masturbarsi davanti agli occhi condiscendenti di Yongjian è un modo per punirsi e soddisfarsi allo stesso tempo, per provare insieme dolore e piacere, frustrazione e sollievo. Un orgasmo di senso di colpa.
Perché Teh è lui stesso il nodo di un contrasto vivente, senza soluzione. E quindi la sua mano accelera senza pietà finché gode e piange insieme, per quello che desidera e non vuole desiderare, che prova e non vuole provare. Per tutto quello che è e non vuole essere.
C'è un unico luogo dove potrebbe trovare assoluzione. E lo raggiunge all'alba, in motorino, bussando forte col pugno.
«Cosa cavolo ci fai qui a quest'ora, Teh?» Tarn gli ha aperto la porta in pigiama, i capelli sciolti, l'aria vigile di chi sta studiando già da due ore. Se è contenta dell'iniziativa di Teh, è bravissima a nasconderlo.
«Ho bisogno di parlarti.»
Tarn mugola un assenso, senza invitarlo a entrare. «Dimmi.»
«Mi ami ancora?» La domanda è stupida e lui la porge senza grazia e senza sentimento. Ma ha disperatamente bisogno di una risposta. «Dimmi che mi ami.»
«Eh?» Tarn non riesce a credere alle proprie orecchie, lo prenderebbe volentieri a schiaffi. «Teh, ma che stai dicendo? Sei pazzo?»
«Ti prego. Ho solo bisogno di sentirlo.» I sentimenti di Tarn sono una preziosa chiave per la normalità, un'ancora a un fondale sicuro. Un biglietto per il futuro che ha sempre progettato ed è lì a un passo, a poche sillabe oltre la soglia.
«Per favore» prosegue Teh, supplichevole, esausto. «Se mi ami ancora, dimmelo. Mi basta una volta sola. Ti supplico.»
Tarn è confusa. Non si può smettere di amare qualcuno in pochi giorni, eppure non è del tutto sicura che il Teh che adesso mendica le sue parole d'amore sia lo stesso ragazzo di cui si è innamorata. Però Tarn è onesta. E' coraggiosa. E' ottimista e disposta a concedere occasioni. In fondo, pensa ancora che ne valga la pena.
«Va bene. Ti amo» concede, senza paura. Ma non sa bene cosa dovrebbe succedere dopo.
Non accade nulla. Teh fissa il vuoto, come se si aspettasse lui stesso una qualche reazione interna che però non si manifesta.
«Adesso tocca a te» incalza Tarn. E' il minimo che quella bizzarra dichiarazione sia reciproca. «Dimmi che mi ami.»
Dovrebbe essere facile, e naturale. Ma non lo è. Teh fissa Tarn e continua a trovarla bellissima. Come sempre. Basterebbe dirle, quelle due parole. E' facile. Dovrebbe esserlo.
Teh schiude le labbra e percorre con gli occhi le linee del corpo di lei, lo sguardo scende fino alla vita stretta e ai fianchi torniti, e poi risale sul seno, sulle spalle, sulle labbra. Arriva dentro ai suoi occhi, e le parole non escono.
«Perché non dici niente? E' il tuo turno di dirlo!» Tarn è allibita. L'umiliazione brucia di nuovo, come sale sulle stesse ferite di prima. «Dimmelo!» urla, isterica.
Teh apre la bocca e la richiude, più volte. Vorrebbe farla contenta, sa che potrebbe guarire se stesso solo standole accanto. Ma non riesce a dirle che l'ama. Perché non è vero. Dannazione, non è vero.
«Perché mi tratti così, Teh? Si può sapere che cazzo ti sta succedendo?»
Tarn non sa quando sia accaduto, ma è ovvio che Teh sia cambiato. In modo permanente e irreversibile, sfuggendole fra le dita. E la versione di adesso è odiosa, vigliacca e meschina. E lei non la vuole.
Per questo, quando si trova avvolta nell'abbraccio di Teh, lo respinge. Si divincola, cerca di toglierselo di dosso. Ma non ci riesce. Non è un abbraccio lubrico, però. Neppure passionale. E' un abbraccio disperato, stretto, alla disperata ricerca di un qualche tipo di conforto.
«Non lo so che sta succedendo. E' un casino. Non ci sto capendo niente» confessa Teh, col viso affondato nei suoi capelli. «Non lo so se posso ancora amarti. Vorrei capirlo.»
«Cosa ti succede, Teh?» domanda, scoraggiata. E' paradossale trovarsi esattamente dove vorrebbe essere, fra le braccia di Teh, e sentirsi estranea, fuori posto, come ci fosse capitata per caso. «Io non so proprio cosa fare... »
E in effetti, non fanno nulla. Restano abbracciati per un tempo molto lungo, in cui i pensieri non riescono ad emergere. L'amore si è consumato, corroso, deformato. Si è arrestato in stasi dentro quell'abbraccio, una crisalide silente che sta iniziando a mutare forma. Ci vorranno tempo e lacrime, ma un giorno nascerà una luminosa amicizia, colorata e traslucida, più leggera dell'aria.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro