Capitolo 10. Allontanamenti Temporanei
Allontanamenti temporanei
Pt 1
"And every second was forever"
Sbattei le palpebre mentre le sue mani, posate su entrambe le mie spalle, mi scuotevano. Ero rimasto bloccato in quella posizione per cinque minuti buoni, senza spiccicare una sola parola o fare un movimento anche banale. Il cielo era pieno di stelle e mi chiesi se non fossero state proprio loro a portarlo lì da me, guidandolo sulla scia dei miei disideri in parte realizzati dal momento in cui i nostri occhi si sono incontrati nella notte, in piedi sugli scalini di casa mia. Non mi preoccupai del tono alterato della voce né di come le sue grandi mani riempissero le mie spalle come se nulla fosse. Mi concentrai sulla sua espressione preoccupata, osservando con affetto la piccola ruga che si creava in mezzo alle sue sopracciglia quando mi rivolgeva quello sguardo arrabbiato.
I suoi occhi non mollarono i miei nemmeno un secondo e sembrava volesse dire un mucchio di cose senza sapere da dove cominciare. Io non fui da meno, comunque. Avrei voluto chiedergli perché fosse lì e da quanto tempo mi stesse aspettando, ma rimasi in silenzio. L'unico suono che si sentiva fu quello di un gufo che bubolando ci informò della sua presenza.
«Taehyung, ti aspetto da otto ore! Dove sei stato? Cosa ti è successo alla mano?» Chiese Jay tutto di fretta, guardingo e ansioso di sapere.
Mi aveva aspettato tutto il pomeriggio e la sera lì, seduto su quegli scomodi scalini e non potevo fare a meno di pensare quanto fosse cattivo da parte sua illudermi in quel modo. Perché l'aveva fatto? Cosa significavo io per lui? Ancora non ci conoscevamo molto, ci eravamo visti parecchie volte ma parlavamo da solo poche settimane, quindi perché mi faceva sentire così? Ero confuso.
«Che ci fai qui, Jay?» Gli chiesi, curioso di sapere. Forse lui si stava solo comportando normalmente ed ero io a prendere in giro me stesso.
«Prima ti ho visto sfrecciare a tutta velocità sulla strada.» Cominciò.
«Sì, io...» stavo per dire, ma Jay m'interruppe. Fece un passo in avanti e mi prese la mano fasciata.
«Piangevi e continuavi ad accelerare. Ho temuto che potessi andare a schiantarti da qualche parte. Quindi ho cercato di raggiungerti di corsa, ma a un certo punto ti ho perso di vista. Allora sono tornato indietro, mi sono detto che saresti tornato entro breve tempo... Invece ho aspettato qui per otto ore. Ero preoccupato, mi domandavo cosa ti fosse accaduto e perché ci stessi mettendo tanto a tornare. Non sapevo se venire a cercarti o continuare ad aspettare per paura di scambiarci le strade.» Disse tutto di fretta.
Annuii comprensivo. E quindi si era preoccupato per me? I miei film mentali stavano andando lontano, erano diventati una serie lunga una vita. Volevo rispondergli, dirgli cosa mi era accaduto, anche se omettendo mille dettagli, ma Jay riprese di nuovo a parlare e mi ritrovai di nuovo a dover chiudere la bocca.
«Dimmi. Che cosa è successo? Perché sembravi tanto triste? E la tua mano per quale ragione è fasciata in questo modo?»
«Se solo mi lasciassi parlare potrei anche dirtelo» feci un sorrisino, che però non contagiò il suo.
«Allora parla.»
«Vuoi farlo qui fuori? Entriamo. Ti offro del soju... O della coca. Credo di aver bevuto abbastanza per oggi.»
«Sei stato addirittura a ubriacarti?» Chiese arrabbiato.
Lo sorpassai per salire i gradini. Infilai la chiave nella serratura, che con uno scatto si aprì e mi girai per fargli segno di seguirmi.
Se non la smetteva di comportarsi in quel modo tanto premuroso non avrei più saputo cosa fare. Il mio corpo mi stava spingendo da lui, ma rimasi inchiodato al mio buon senso senza farmi sopraffare dai miei sentimenti. Ero semplicemente da solo, pieno di traumi e desideri impossibili da realizzare, stare con Jay mi faceva bene esclusivamente perché in lui vedevo un barlume di speranza per stare meglio, erano questi i sentimenti che provavo per lui non c'erano dubbi. Forse li stavo solo confondendo con l'amore, ma la testa mi diceva che era solo solitudine. Anche se... Il mio cuore batteva un po' troppo forte.
«Sono sobrio, ho solo bevuto qualche bicchierino»
Jay mi rivolse uno sguardo seccato poi, anche se riluttante, mi seguì dentro. Il rumore del mio battito cardiaco si mischiava a quello dei suoi passi strascicati e un sospiro mi scappò di bocca mentre aprivo la porta di casa. Lo coprii battendo le scarpe sul tappeto, per poi toglierle e indossare le ciabatte. Jay m'imitò in silenzio assoluto. Accesi le luci e mi fermai di botto quando notai i pezzi di vetro dello specchio lì, nel corridoio. Mi ero completamente dimenticato di averli lasciati per terra.
«Ehm, dovrei togliere questo casino prima che qualcuno si faccia male» dissi con la bocca asciutta.
Volevo inventare una bugia su quanto accaduto alla mia mano, per non dargli modo di pensare che fossi un nevrotico con problemi di contenenza della rabbia, ma ormai aveva visto i resti della mia vittima.
Quindi feci per muovermi, ma Jay mi prese un braccio e mi costrinse a stare fermo. Lo fissai incredulo, si comportava in modo strano.
«Hai dato un pugno allo specchio? È in questo modo che ti sei fatto male?» Chiese indignato.
Annuii. Mi avrebbe chiesto delle spiegazioni e io gliele avrei date, ma non del tutto. Niente racconti su Jungkook e o dei sentimenti che provavo per Jay stesso. Doveva restare un segreto.
«Sì. Mi sono arrabbiato e così non ho potuto controllare la rabbia. Aspetta un attimo, levo il questo casino da terra e ti raggiungo. Accomodati in salotto.»
Mi mossi nuovamente, ma per la seconda volta dovetti stare fermo perché Jay mi prese di nuovo il braccio e mi bloccò.
«Faccio io. Dimmi dove posso trovare una scopa e una paletta.»
«Non c'è bisogno Jay. Ci sto un secondo, aspettami di là»
«No, Taehyung. Sei ferito e anche tanto! Dimmi dove tieni le attrezzature da pulizia»
Lo guardai, sentendo la pelle in fiamme. Mi sentivo leggero come una piuma. Indicai a Jay lo stanzino dove c'era tutto il necessario per mettere ordine e lui, senza farselo ripetere una seconda volta, camminò verso quella porta, l'aprì e tirò fuori la scopa. Aveva un'espressione concentrata mentre spazzava via i pezzi di vetro, fece un broncio carino e infine buttò tutto. Quando ebbe finito mi rivolse uno sguardo e alzò le spalle.
«Grazie Jay» dissi mentre ci sedevamo nei divani in salotto.
«Non ringraziarmi. È grave?» Domandò accavallando una gamba.
Il suo modo di muoversi mi affascinava sempre. Era come se possedesse un calamità talmente potente da non riuscire a evitare di essere attratti da lui.
«È grave cosa?» Chiesi distratto.
Osservavo le sue dita che giocavano con gli strappi nei jeans.
«La tua mano, cosa sennò?» Domandò irritato.
«Ah, no niente di ché! Per fortuna non ne ho perso l'uso, non è successo nulla.»
Jay alzò un sopracciglio.
«Fai sempre delle scelte sconsiderate. Per quanto tempo ancora ti affiderai alla fortuna?»
«Eh?»
«L'esercito, i pugni sugli specchi. Perché non pensi mai prima di agire? Fai sempre cose pericolose.»
«Mi dispiace se ti ho fatto preoccupare» risposi guardandolo con affetto.
«Cosa è successo, dunque?» Cambiò discorso.
Mi grattai una guancia. Non sapevo cosa dire, ma era così arrabbiato che fare il vago su quella situazione lo avrebbe solo infastidito di più per cui, anche se non volevo, feci un profondo respiro e mi massaggiai le tempie doloranti.
«Ho discusso con mio padre e non è andata molto bene.» Ammisi tutto d'un fiato.
«Ah... Non sapevo che avessi problemi con la tua famiglia» disse un po' più comprensivo.
Feci un cenno della testa fissando, senza vederlo nemmeno, il tappeto sotto ai miei piedi.
«Sì, beh... Diciamo che ultimamente mi stressano un po' tutti. Desiderano cose da me che io non posso dargli.»
«Tipo? È davvero così impegnativo ciò che ti ha chiesto tuo padre?»
«Un matrimonio e un nipote? Sì, credo che sia abbastanza impegnativo.» Feci una risatina priva di gioia e piena d'ansia.
Jay spalancò gli occhi, poi li abbassò. Giocava ancora coi jeans mentre mi guardava con disappunto.
«Mh, lo è. Tu eri fidanzato, vero? Immagino che tuo padre voglia che sposi quella ragazza lì»
«Sì esatto, ma io non l'amo più e non posso realizzare questo desiderio. Mio padre non può capire... vuole costringermi a sposarmi solo perché ho ventisei anni e non vuole fare brutte figure. Questa cosa mi rende veramente triste.»
Ci fu un attimo di silenzio che parve ronzarmi intorno, assordante come un tamburo suonato con ripetizione nel cuore e nel silenzio della notte.
«Quindi gli hai detto che non volevi e lui non ha capito? Per questo hai rotto lo specchio?» Domandò interessato.
Scossi la testa, ma fu un movimento talmente impercettibile che dubitai davvero che se ne fosse accorto.
«Non è stato solo questo. Ho detto di no e lui... smetterà di considerarsi mio padre, almeno fino al momento in cui non avrà ottenuto quello che vuole.»
«È ingiusto. Sono sicuro che non è questo il modo in cui si comporta un vero padre.» Rispose indignato.
Jay non aveva i genitori. A volte dimenticavo questo dettaglio, per cui cercavo sempre di non dire cose fuori luogo o che potessero metterlo a disagio o rattristirlo. Per questo cercai di cambiare discorso, ma lui parlò prima di me, interrompendo il flusso dei pensieri che si susseguivano nella mia mente.
«Quindi sei stato tutto questo tempo in ospedale?» Chiese.
«No, dopo aver medicato la ferita sono andato con Jimin a casa sua.»
L'espressione di Jay cambiò di colpo. Sbatté le palpebre, guardandomi con disappunto, poi spostò lo sguardo altrove e fissò con una certa tensione la parete vicina. Non capivo come mai, quando c'erano altri in mezzo alle nostre discussioni, Jay cambiava atteggiamento.
«Jimin?»
«Sì, Jimin...» risposi confuso.
Lui fece un sorriso di circostanza, disse:
«non ti ha fatto piangere questa mattina?» con un tono un po' irritato.
«Sì, cioè abbiamo litigato ma alla fine ci siamo riappacificati.» Gli spiegai.
Jay alzò un sopracciglio, sembrava alquanto infastidito.
«Visto le lacrime di questa mattina è stato veramente veloce fare pace con lui.» Rispose.
«Ci siamo solo capiti male. Io e lui siamo migliori amici e il bene che ci vogliamo supera tutti i litigi, anche quelli più gravi.»
Dissi innocentemente.
Jay annuì, dopodiché prese il cellulare e controllò qualcosa. Era il momento giusto per chiedergli il suo numero, così lo avrei potuto chiamare e inviargli messaggi come facevo con Jimin, ma non ebbi il tempo di trovare il coraggio che lui si era alzato dalla poltroncina e indossato la solita mascherina nera.
«Vai di già?» Dissi mettendomi in piedi.
«Sì, si è fatto tardi» rispose senza guardarmi.
«Oh, hai ragione. Vai a piedi? Vuoi un passaggio?»
Domandai, speranzoso che dicesse di sì, ma purtroppo scosse la testa e fece un passo indietro.
«No, grazie lo stesso» disse in fine e se ne andò, senza lasciarmi modo di chiedergli nulla.
Andò via velocemente e mi lasciò li, come uno scemo, a guardare la porta. Fu tutto talmente veloce che non ci capii niente. Un momento prima stava parlando e quello dopo era scappato via senza darmi il tempo di chiedergli niente. Chi lo capiva era bravo! Mi dava l'impressione che volesse essere solo amico mio, ma questo non significava che io non dovevo avere nessuno all'infuori di lui. Jimin lo conoscevo da una vita ed era un ragazzo d'oro. Non capivo proprio perché non gli andasse giù.
Cenai con del riso quella sera: avere una sola mano funzionante non era il massimo e in più sentivo la nausea sopraffarmi, senza saperne il motivo. Probabile era come diceva Jimin, ovvero che la cattiva salute della mia mente stava contagiando anche il mio corpo. Per guarire completamente dovevo prima risolvere il problema dalla radice, ma davvero l'unico modo per farlo era andare da uno psicologo? Non ne avevo proprio voglia.
Prima di andare a dormire inviai un messaggio a mia madre. Mi aveva chiamato per tutto il pomeriggio ma io, non volendo parlare di papà, l'avevo ignorata. Solo che mi sentivo in colpa a metterla nel mezzo senza motivo, così le scrissi semplicemente che stavo bene, che non mi andava di parlare e che non m'interessava nulla dei desideri di mio padre. Somin stava anche con un altro, perché mai avrei dovuto sposarla? Non l'amavo e di certo non avrei calpestato la mia dignità chiedendole di sposarmi solo per fare contento gli altri. Mamma disse di non provare rancore, ma non risposi.
Finsi di essermi addormentato, così misi da parte il cellulare, spensi la televisione e le luci e chiusi gli occhi. Avrei voluto dormire, ma mi fu impossibile. I comportamenti di Jay continuavano a tormentarmi e non possedere un numero da chiamare per sapere come stesse, e perché si fosse arrabbiato, mi faceva sentire frustato. Decisi di chiederglielo quando ci saremo rivisti, ma questo dipendeva tutto dal destino: io non avevo un indirizzo in cui andare, né un modo per contattarlo. L'unico che poteva venirmi a cercare era lui, visto che sapeva dove abitavo, ma i suoi occhi mi erano sembrati così furiosi che dubitavo sarebbe venuto presto. E se non lo avessi mai più rivisto? Il mio cuore fece un tuffo nel vuoto al solo pensiero, così mi rigirai nel letto in ricerca di una posizione comoda. Ci volle una buona mezz'ora prima che il sonno mi richiamasse a sé, poi finalmente mi assopii, anche se a fatica, e dormii sperando di incontrare Jay al mio risveglio.
*
«Taehyung, mi prendi il palloncino? Si è incastrato in quel ramo lì. Tu puoi arrivarci! Sei più alto e forte di me.»
Non ero ancora arrivato al parchetto lì davanti casa mia, che Jungkook corse a chiedere il mio aiuto nonostante Bogum, che si trovava già lì, fosse ancora più alto. Alzai gli occhi verso l'alberello indicatomi da Jungkook e feci un cenno veloce della testa. Posai per terra la pistola ad acqua, Jungkook osservò tutti i miei movimenti e mi corse dietro quando camminai in direzione della piccola quercia.
«Dovresti reggerli un po' più forte, sennò i palloncini ti scapperanno tutti via dalle mani.»
Gli dissi mentre alzavo le maniche della maglia, per non impigliarla tra i rami e, di conseguenza, farmi rimproverare da mia madre.
Jungkook gettò un'occhiata dietro di me, poi mi rivolse un broncio carino.
«Non è stata colpa mia.»
«Te l'ha portato via il vento?» Chiesi.
Nel frattempo mi arrampicai e, con facilità, riuscii a recuperare il palloncino di Jungkook. Non era così difficile poi, si era impigliato nel rametto più basso della quercia. Feci un saltello per tornare con i piedi per terra e gli passai il palloncino, lui fece un sorriso a trentadue denti quando lo ebbe di nuovo tra le dita. M'intenerii e così gli scompigliai i capelli lisci.
«Grazia TaeTae!» Disse tutto contento.
«Di niente Koo» sorrisi.
Jungkook si morse una guancia. Non sembrava veramente contento come voleva fare credere, c'era qualcosa nei suoi occhi che lo facevano apparire spento e triste. Qualcosa che non era legato al palloncino, ma ad altro. E me ne accorsi subito, senza che lui dicesse niente.
«Kookie, sei triste per caso? Hai di nuovo il tuo palloncino.»
Lui si guardò intorno, poi iniziò ad allontanarsi un po'. Lo seguii in silenzio, sembrava che volesse dirmi qualcosa ma lontano dal resto del gruppo. Ci sedemmo sugli scalini davanti casa sua. Koo legò il palloncino alla ringhiera e fece un piccolo sospiro amareggiato.
«Non è stato il vento.» Disse dal nulla.
Corrucciai le sopracciglia. «Eh?»
«Non è stato il vento a portarsi via il mio palloncino.»
«No? E come è finito lassù?»
«Bogum me l'ha strappato via e lo ha lasciato volare. Gli ho chiesto gentilmente di riprendermelo, ma si è messo a ridere e mi ha dato una spinta. Lui non vuole giocare con me, Tae-hyung. Con gli altri stavano facendo una partita a pallone, ho chiesto se potevo unirmi a loro e ha detto di no. Per questo stavo giocando con il palloncino, ma a lui mi ha dato fastidio e mi ha fatto un dispetto. Non vedevo l'ora che arrivassi e ora che sei qui sono veramente felice.»
Ecco, una morsa al petto. Come si poteva trattare male un bambino così dolce? Jungkook era sincero, piccolo e indifeso. Meritava amore da tutti quanti, ma alcune persone non capivano. Senza dargli modo di dire altro mi alzai dagli scalini e camminai velocemente verso Bogum. Jungkook mi seguì immediatamente. Voleva fermarmi, ma non ci riuscivo. Ero così arrabbiato che niente e nessuno mi avrebbe fatto ragionare.
«Bogum» dissi.
Lui si voltò e fece un sorrisino a mezza bocca, poi guardò Jungkook alle mie spalle e l'allegria sparì via dal suo volto.
«Che c'è, Taeh...» stava per dire, ma lo interruppi dandogli una spinta così forte che cadde a terra.
«Questa te la meriti proprio.» Aggiunsi a denti stretti.
Gli altri bambini ci guardavano con le bocche spalancate, Jungkook cercò di prendere la mia mano ma mi scansai, perché non avevo ancora finito con Bogum. Dal canto suo, lui, gettò un'occhiataccia a Koo per poi rivolgermi uno sguardo pietoso.
«Ma perché l'hai fatto, Taehyung? Siamo migliori amici!» Esclamò rimettendosi in piedi e scrollandosi di dosso l'erbetta.
Feci un passo in avanti, gli diedi una seconda spinta, questa volta più leggera che lo fece solo indietreggiare, nel frattempo avanzavo verso di lui.
«Perché tratti male Koo? Che cosa ti ha fatto?» Chiesi indignato.
Bogum sbatté le palpebre, stringeva un pugno e mi guardava come se non sapesse cosa dire per farmi accettare le sue giustificazioni. Perché in fondo lui sapeva che, anche se la colpa fosse stata di Jungkook, non avrei mai perdonato il suo modo di fare.
«Ma non è vero, diglielo Jungkook! Non ho fatto proprio niente»
Lo fissai male. Jungkook, alle mie spalle, rimase in silenzio. Non avevo bisogno delle sue spiegazioni, sapevo che Jungkook non mentiva.
«Bugiardo. Gli hai strappato via il palloncino, lasciandolo volare su quell'albero e poi lo hai spintonato!»
Bogum rimase in silenzio. Ci guardava con rammarico, furioso di essere stato scoperto. Presi la mano di Jungkook e lo trascinai via da lì. Per quel pomeriggio volevo giocare solo con lui, a casa mia.
«Taehyung, ma dove vai? Dai, giochiamo!» Gridò Bogum dietro di me, ma lo ignorai.
Mia madre ci preparò una merenda deliziosa quel pomeriggio, che poi portò in camera mia dove io e Jungkook stavamo giocando con dei soldatini di legno.
«Koo, non devi farti mettere i piedi in testa da nessuno. Quando qualcuno ti attacca, tu rispondi con la stessa violenza.» Gli dissi mentre ci riempivamo di torta al cioccolato e succo di frutta.
«Ma io non volevo litigare. Sono arrivato per ultimo e tu e Bogum siete amici. Non volevo che tu non mi parlassi più per aver litigato con lui.»
«Non potrebbe mai accadere. Io ti voglio un mondo di bene e sarò dalla tua parte sempre. La prossima volta che ti dà fastidio reagisci, Koo. Non dargli modo di...»
La sveglia squillò talmente forte che mi svegliai di soprassalto, con il cuore che rischiava di scoppiarmi nel petto. Il mio respiro era corto così, onde evitare di farmi sopraffare come al solito dall'asma, espirai immediatamente il medicinale dall'inalatore e tutto tornò alla normalità. I miei capelli erano madidi di sudore e mille goccioline mi scorrevano per tutto il viso. Altro ricordo, altro trauma. Il mio cuore non riusciva a sopportare che Bogum trattasse male Koo e mi sentivo morire all'idea di come si sentisse Jungkook quando veniva messo da parte dal resto del gruppetto.
Mi passai una mano davanti ai capelli sulla fronte, cercando di cancellare dalla mia mente l'immagine di Jungkook triste per il palloncino, ma vanamente. Mi torturava, non voleva lasciarmi in pace. Era ancora lì, seduto sugli scalini di casa sua, guardingo, in lacrime.
«Dannato Bogum» dissi tra me e me, con gli occhi che mi bruciavano.
Quel sogno non era stato tanto terribile, perché avevo scoperto quanto Jungkook ci tenesse a me e mi considerasse la sua ancora di salvezza, ma allo stesso tempo non ce la facevo più a sopportare la sua presenza nei miei sogni. Desideravo vederlo in carne e ossa e non sarei stato bene fino a quando non l'avrei incontrato. Sapevo per certe che dovevo farmene una ragione, ma proprio non ci riuscivo. Forse era meglio davvero che andassi dallo psicologo.
Mi alzai dal letto e poggiai i piedi bene sul pavimento. La testa mi girava così tanto che sembrava di trovarmi su una giostra caotica in continuo movimento. In quel momento, le parole di Jimin, rimbombarono magicamente nelle mie orecchie, quasi come se fossi lì dentro la mia stanza:
"Sai che se il tuo corpo sta male anche la tua mente ne influisce e viceversa?"
Era proprio vero. Da quando il ricordo di Jungkook si era svegliato dentro di me e mi torturavo a furia di pensare a lui e a dove fosse, sentendomi depresso e incompleto, il mio corpo ne risentiva tantissimo; l'asma, gli attacchi di panico, il mal di testa, la nausea... dovevo risolvere questo problema.
Mi misi in piedi e feci una doccia velocissima. Indossai i primi abiti che mi capitarono a tiro e salii di corsa in macchina. Forse la scelta più saggia sarebbe stata correre da Yoongi, chiedergli scusa per l'arroganza con cui mi ero presentato il giorno dell'appuntamento nel suo ufficio e farmi aiutare da lui seguendo alla lettera il percorso di cui mi aveva parlato per guarire dalle ferite dell'anima.
E invece, stupidamente, come se potesse cambiare le cose, guidai verso il mio vecchio quartiere in direzione di casa Jeon. Era molto probabile che quell'azione non avrebbe fatto altro che peggiorare ancora di più la situazione, ma la mia testa diceva di andare a parlare con sua madre, scoprire se fosse mai stata trovata una sola traccia di lui. Perché? Cosa avrebbe cambiato sentirmi dire che di Jungkook non era mai stato trovato un solo indizio che portasse alla verità? Mi rifiutavo di ragionare su questo. Guidai come un pazzo fino a casa mia, dove parcheggiai l'auto, dopodiché corsi a piedi in direzione di casa sua. Suonai una volta, poi due e sua madre, spenta come una candela lasciata accesa tutta la notte sul davanzale di una finestra, venne ad aprirmi. Non mi aveva riconosciuto, lo notai da come i suoi occhi mi osservarono confusi mentre cercavo di riprendere fiato.
«Signora Jeon?» Dissi, come se non sapessi che fosse lei.
«Sì?»
«Sono Kim...» stavo per dire, ma m'interruppe.
«In questa casa non pratichiamo nessuna religione.»
E stava per chiudermi la porta in faccia quando, cercando dentro di me il coraggio, alzai la voce perché lei mi sentisse.
«Ero il migliore amico di Jungkook quando eravamo piccoli!»
Si fermò di colpo e la sua testa sbucò nuovamente dallo stupite. I suoi occhi erano lucidi e spalancati, le mani tremavano come foglie d'autunno. Fece un passo in avanti e io rimasi inchiodato al pavimento anche se lo sentivo sgretolarsi a ogni battito di ciglia. La sua attenzione era mia, ma mai come allora mi ero sentito tanto spiazzato nel vedere una persona fissarmi come se avessi nominato qualcosa di strano e indecente.
«Cosa hai detto?» Chiese con la voce spezzata, probabilmente per la sorpresa che un conoscente di suo figlio fosse andato a trovarla inaspettatamente dopo ben diciassette anni.
«Mi dispiace essere venuto senza preavviso, soprattutto dopo così tanti anni, ma vorrei parlare con lei se possibile» anche la mia voce stava iniziando subire l'emozione di parlare di Jungkook a qualcuno che lo conoscesse meglio di me.
«Ma chi sei tu? Una settimana fa ti ho visto, sei passato con la tua macchina qui davanti casa mia e mi hai fissato.» Disse stupita.
«È comprensibile che lei non si ricordi. Possiamo parlare? Le dirò tutto. Possiamo metterci anche qui sugli scalini se ne ha voglia, solo parliamo con calma... la mia salute è non molto stabile al momento» forzai un sorriso, ma la mia testa era in completo disordine.
«Possiamo metterci in salotto. Anche la mia salute non è delle migliori» mi fece segno con la testa di seguirla dentro e io ebbi un tuffo al cuore al solo pensiero di entrare in casa sua, dove le stanze sarebbero state di sicuro tappezzate con le foto di Jungkook.
Esitai un attimo, poi varcai la soglia di casa Jeon e strinsi i pugni nel tentativo di calmare i nervi. L'inalatore era dentro la tasca dei jeans e ne avevo un altro in macchina, sul cruscotto. Aveva così paura di stare male da non riuscire a staccarmi dalla medicina che mi aiutava a respirare.
Mentre seguivo la signora Jeon verso la cucina mi accorsi che il corridoio era spoglio, giallo opaco e senza alcun colore acceso che rendesse allegro quell'abitazione. Sembrava che la mamma di Jungkook non fosse mai riuscita ad andare avanti e che avesse lasciato il dolore prendere controllo su ogni cosa, persino sulla casa. La capivo in fin di conti. Una madre che perde il figlio... è una cosa troppo triste per essere superata.
Dopo due metri e mezzo di corridoio, finalmente entrammo dentro un soggiorno ben illuminato. C'erano due finestre molto grandi, entrambe aperte, e la luce del pomeriggio attraversava le persiane alzate riflettendosi all'interno della stanza ovale: un sofà di pelle bianca si trovava all'angolo del salotto, c'era un tavolo di vetro pieno di oggetti, tra cui un un uncinetto, un maglioncino di lana ancora incompleto, dei ditali per cucire sparsi un po' dappertutto, due posacenere pieni di cicche e qualche bicchiere riempito di scotch.
«Scusa il disordine. Oggi ho bevuto un po'.» Aggiunse sedendosi in una delle sedie sistemate attorno al tavolo nel soggiorno.
Ebbi l'infelice idea di guardarmi attorno e pentirmene quasi subito. Attaccato alla parete alle mie spalle c'era una cornice che accoglieva una foto di Jungkook seduto per terra, nel prato, con un sorriso a trentadue denti. Mi sentii svenire e cercai in tutti i modi di non guardare quell'immagine crudele, ma quella continuava a proiettarsi nella mia mente e fu un vero sforzo dare le spalle al quadro e cercare di comportarmi normalmente. Tutta quella situazione si stava rivelando più difficile di quanto mi aspettassi.
«Allora? Tu chi sei? Hai detto che eri amico di Jungkook quando eravate piccoli. C'erano tanti bambini che giocavano con lui in questo quartiere, anche se....» Inclinò la testa su di un lato e mi fissò.
Abbassai gli occhi, sentendomi febbricitante. Non era stata per nulla un buona idea andare a trovare sua madre, ero sicuro che se mi avesse svelato qualcosa di cui io mi ero scordato l'asma mi avrebbe sopraffatto una volta ancora.
«Lui mi parlava sempre di un certo Taehyung. Ogni tanto giocavano qui, in casa. È da tanto tempo che non lo vedo e in ogni caso non saprei riconoscerlo dopo diciassette anni.» Aggiunse.
Sfilò una sigaretta dal pacchetto sul tavolo e l'accese. Il fumo si dissolse nell'aria e mi pizzicò le narici, ma rimasi seduto. Mi sentivo pesante come il piombo e temevo che se mi fossi alzato avrei perso i sensi.
«Sono io. Mi chiamo Kim Taehyung e... ero il miglior amico di suo figlio Jungkook.» La mia voce tremava, ancora.
La signora Jeon fece un cenno della testa.
«Sì, sapevo che prima o poi saresti venuto. Se l'amicizia tra voi due era così forte come Jungkook mi diceva sempre, era scontato che un giorno o l'altro venissi a chiedere delle indagini. Ma mi dispiace deluderti... di lui non è mai stato trovato nulla, neanche un indizio a parte depistaggi e notizie false che ci hanno solo provocato più dolore.»
Strinsi un pugno. Sentivo le dita formicolarmi, come se attraversate da diverse scariche elettriche. Chiusi gli occhi, cercando di respirare con calma, ma l'aria sembrava raggiungere i miei polmoni solo a tratti. Istintivamente tirai fuori dalla tasca l'inalatore e lo strinsi tra le dita.
«Quando Jungkook è scomparso, noi siamo subito tornati a Busan. La nostra famiglia non era molto unita nel periodo in cui siamo stati a Seoul e così sospettavamo che un parente molto vicino lo avesse portato con sé per metterci paura. Ma erano solo sospetti e in casa loro non c'era alcuna traccia di mio figlio. La polizia di Seoul e quella di Busan hanno preso la faccenda molto seriamente ma nessuno ha saputo portare un indizio vero sulla scomparsa di Jungkookie.»
Riprese a parlare, nel frattempo espirava fuori il fumo della sigaretta.
«È stato frustrante sentirsi dire ogni giorno che non c'erano ancora indizi su di lui.» Aggiunse infine.
La mia bocca era secca e la gola mi faceva male alla sola idea di rispondere e dire qualcosa, ma stavo per trovare il coraggio di parlare che lei m'interruppe una volta ancora.
«Lui mi parlava spesso di te. Ti voleva un mondo di bene.»
Mi osservò attentamente, ma io non avevo il coraggio di alzare gli occhi sul suo viso per paura di stare male nello scoprire che effettivamente Jungkook le assomigliava parecchio, quindi preferii tenere la testa china verso il pavimento.
«Sì, anch'io gliene volevo e ancora oggi sento lo stesso.» la mia voce si ruppe per l'emozione e il respiro si era accorciato per via dei miei problemi respiratori che si presentavano quando i ricordi legati a Jungkook si svegliavano dentro di me. Mi veniva da piangere.
«Non ti ho visto per moltissimo tempo, Taehyung. I tuoi genitori abitano ancora qui, ma io mi sono chiusa in casa dopo la scomparsa di Jungkookie. Spesso mi sono chiesta che fine avessi fatto e negli ultimi periodi ho sempre guardato in direzione di casa tua. Volevo vedere come fossi diventato e in un certo senso speravo di vedere in te la figura di Jungkook ormai cresciuto.»
Istintivamente alzai il mento verso di lei. Stava sorridendo delicatamente, con un luccichio affettuoso negli occhi che mi spiazzò.
«Jungkook diceva spesso che tu eri la sua ancora di salvezza. Alcuni bambini lo bullizzavano qui nel quartiere, ma non ha mai smesso di sorridere perché aveva te. Perché sapeva che ci avresti pensato tu a sistemare le cose con quei bulli. Per questo ti voglio davvero bene Taehyung. Grazie per essere stato amico di mio figlio, mi dispiace che non abbiate avuto la possibilità di crescere insieme ma, dal profondo del mio cuore, voglio farti sapere che sono felice che Jungkook, nella sua breve vita, abbia trovato te. Vorrei poterti dire di non aver perso le speranze, ma in verità ho smesso di cercarlo. Non voglio più illudermi»
Spense la sigaretta dentro il posacenere e si alzò dalla sedia per raggiungere il frigorifero. Si era arresa e questo mi fece più male di tutto il resto. Non poteva arrendersi, perché se lei smetteva di sperare allora io... io cosa avrei fatto?
«Cosa intendevi quando hai detto di non essere stabile al momento? Sei molto pallido.» Disse mentre tornava a sedersi.
Mi riempì un bicchiere di succo alla frutta e me lo passò gentilmente.
Lo afferrai, quella volta erano le mie mani a tremare. Dovevo dirle la verità? Del trauma, dei sogni, dell'asma e gli attacchi di panico? Potevo veramente farlo, senza essere giudicato?
«A dire il vero, io...» le lacrime iniziarono a sgorgare dai miei occhi, l'affanno diventava sempre più insopportabile.
Mi affrettai ad asciugarmi la faccia con le braccia, anche se inutilmente. Tanto ormai mi aveva visto.
«Ti capisco, Taehyung.» Rispose mettendomi una mano sulla mia.
«Non voglio che lei si arrendi» piangnucolai disperato.
La signora fece una faccia confusa e stava per rispondere ma quella volta fui io a parlare di più.
«Mi sento in colpa da quasi un mese, signora Jeon. Sa perché non sono venuto prima qui da lei?» Chiesi, inghioiando a fatica la bile che rischiava di soffocarmi.
Lei fece di no con la testa, corrucciò le sopracciglia e non spostò la sua attenzione dalla mia nemmeno un attimo.
«Perchè mi sono dimenticato di lui per diciassette anni. Il giorno in cui Koo è sparito... Io ho avuto un attacco di panico così forte da sfociare in asma. Il dottore disse ai miei che si trattava di un trauma infantile e che, probabilmente, mi sarei dimenticato di tutto. Ed è stato veramente così, almeno fino a quando non ho sognato Jungkook di recente e improvvisamente mi sono ricordato. Ma adesso soffro della stessa patologia che da piccolo fece preoccupare i miei e quando all'improvviso la mia memoria si sveglia, mostrandomi i momenti passati insieme a lui, i miei polmoni smettono di funzionare.»
Parlare in maniera chiara fu una vera sfida, perché l'asma stava per arrivare.
Mostrai alla signora il mio inalatore, dopodiché mi affrettai a prendere quella medicina. Bastarono pochi secondi e il mio respiro era tornato normale.
«Ma ogni giorno cerco dentro di me la speranza. Oggi sapevo che, con la mia attuale salute, venire qui sarebbe stato solo peggio, ma non potevo continuare ad andare avanti senza sapere se ci fosse una pista da seguire. E sarò sincero, credevo che fosse stato ritrovato qualcosa e non è così, però non smetterò di cercarlo fino a quando non sarà tutto perduto per certo.»
La mamma di Jungkook si portò una mano sulla bocca, l'altra cercò la mia testa per scompigliarmi i capelli.
«Mi dispiace così tanto per la tua salute, Taehyung. Sarebbe stato molto molto meglio se non ti fossi ricordato. Non ci sarebbero stati gli attacchi di panico, l'asma e né il dolore. Vorrei potermi svegliare domani e avere l'amnesia.»
Scossi la testa disperatamente e mi misi in piedi per poter camminare un po' e distrarmi da ciò che stava accadendo. Avevo la tachicardia e il petto mi faceva su e giù in modo irregolare.
«Forse sì, non avrei sofferto se tutto fosse rimasto sepolto dentro di me. Ma vede, non riesco a perdonarmi di essermi scordato di lui e ringrazio il giorno in cui l'ho sognato anche se mi ha procurato l'asma da stress che mi costringe a uscire di casa con un inalatore nella tasca dei jeans e un altro in macchina per prevenzione.»
Mi passai la mano in mezzo ai capelli. Stavo iniziando a sudare freddo e la testa non faceva altro che scoppiarmi da dieci minuti buoni.
«Credo di dover prendere un po' d'aria fresca» sussurrai in fine stringendomi la maglia all'altezza del petto.
Lei sembrò preoccuparsi e si mise in piedi per raggiungermi mentre io, preso dal panico, cercavo l'inalatore dentro la tasca dei jeans, ma non c'era. Avevo la vista appannata e il volto della mamma di Jungkook era sfocato.
«L'inalat...» di nuovo l'asma.
La signora Jeon si girò verso il tavolo. Cominciai ad annaspare, cercando di calmarmi, nel frattempo lei mi portò la medicina e mi aiutò a prenderla. 3...2...1... Espirai.
«Mamma, ho fame» un bambino entrò dentro la stanza, si stava stropicciando gli occhi con un piccolo pugno e ci guardava assonnato. Stavo sognando?
Forse mi erano venute anche le allucinazioni. Quel bambino sembrava proprio Jungkook o forse era il suo fantasma. Strinsi gli occhi, sbattendo le palpebre con stupore. Eppure sembrava così reale...
«JungWoo, ti sei svegliato?» Chiese lei.
Jungwoo? Mi voltai a guardarla, lei parve notare il mio disappunto.
«Lui è il mio secondo genito, Jungwoo. Ha solo quattro anni» mi spiegò prendendolo in braccio.
Il bambino mi sorrise allegramente. Non riuscii a guardarlo per più di un secondo, finsi mezzo sorriso e indietreggiai fino a sbattere su una parete.
«Devo andare. Mi perdoni.»
Farfugliai e corsi fuori da quella casa come se fosse infestata dai fantasmi.
Mi girava la testa quando fui di nuovo fuori, circondato dal prato. L'aria era pulita e fresca e sebbene fossi ancora scombussolato, respirare fu un po' più semplice. Mi trascinai verso la mia macchina, sentendomi debole come non mai. L'unica cosa che desideravo era andare subito a casa mia e stare a letto tutto il giorno ma... c'era mio padre appoggiato sullo sportello della mia auto. Aveva le braccia conserte e si fissava i piedi, quando il rumore dei miei passi lo distrasse, allora mi guardò. Ci mancava solo questa.
Sbuffai impercettibilmente mentre lui si avvicinava. Chiusi gli occhi, cercando di non pensare. Non mi andava proprio di discutere e quando a quella scenetta già patetica si aggiunse anche mia madre, lo sbuffo divenne ancora più forte. Speravo capissero che dovevano lasciarmi in pace, almeno in quel momento, ma i due mi vennero incontro e fui costretto a fronteggiarli. Mia madre era preoccupata, mentre papà furioso come al solito.
«Taehyung, tesoro dove sei stato? La tua macchina è qui da un'ora passata» disse lei mettendomi una mano sulla spalla.
La lasciai fare, non avevo la forza di mettermi a scansare le seccature.
«Dovevo vedere una persona.» Risposi semplicemente.
Mamma stava per dire altro, ma fu interrotta da mio padre.
«Chi?»
Rimasi in silenzio. Proprio non avevo voglia di parlare con lui dopo quello che era successo, ma mi mancava e non riuscivo ad accettare la possibilità che veramente non volesse essere considerato mio padre per colpa di un matrimonio.
Mi ricordai solo in quel momento che a qualche isolato da lì ci abitassero i genitori di Somin. Magari sperava fossi stato lì da lei per chiarire e stava cercando una conferma così che potesse perdonarmi, ma non era così e sarebbe stato meglio dirglielo, piuttosto che illudere le sue aspettative.
«Se credi sia stata da Somin mi dispiace dirtelo, ma non è dai lei che ho passato quest'ora del pomeriggio.» Dissi duramente.
Papà fece un profondo respiro, mia madre gli prese un braccio e cercò di convincerlo a lasciarmi stare, ma si liberò della sua presa con un movimento brusco e avanzò ancora una volta. Non avevo proprio voglia di reagire. Rimasi fermo e immobile mentre lui mi prendeva per il colletto della maglia e mi strattonava con violenza. Nemmeno lo guardai, fissavo senza vederli bene un gruppo di bambini che giocavano al parchetto vicino.
Ce n'erano due che stavano litigando. Il più alto aveva spinto quello che sembrava essere più piccolo degli altri. Era una strana coincidenza.
«Perchè ti rivolgi a tuo padre con questa arroganza? Io lo faccio solo per il tuo bene, sto cercando di indirizzarti verso la strada giusta e tu la prendi come una sfida!» Urlava mio padre nel frattempo.
Mamma provò una volta ancora a trascinarlo lontano da me, ma vanamente. Continuava a scuotermi come se fossi una bambola di pezza di poco valore.
«Lascialo stare! Non vedi che non reagisce?» Le sentii dire.
Il bambino più piccolo stava piangendo. Era stato spinto per terra e gli altri si stavano prendendo gioco di lui.
«Taehyung, Bogum ha detto che preferibbe mille volte che sparissi dalla faccia della Terra. È stato cattivo, mi ha fatto piangere.»
Io e Jungkook eravamo lì, davanti ai miei occhi, alle spalle di papà. Forse le allucinazioni mi stavano venendo veramente. Com'era possibile che fossi lì, e che mi vedessi da un paio di occhi diversi?
«Lascialo, Tae-Hun! Ha un attacco d'asma, lascialo!»
La voce di mia madre era un suono lontano e affuscato. Sentii l'inalatore scivolarmi dalla tasca, poi il suono della plastica che si rompre in mille pezzi. Tossii, cercai di inalare l'aria facendo dei grossi respiri, ma non serviva a niente. Credevo proprio che fosse giunta la mia ora... ma sentii all'improvviso una mano sfilare le chiavi della macchina dalla tasca dei jeans e aprirla con un suono secco. Mio padre mi lasciò bruscamente e io indietreggiai e finii per terra. Mi ricordo solo che qualcuno mi tenne la testa alzata mentre mi aiutava a respirare il farmaco, indispensabile per me. Poi persi i sensi.
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