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XXIV

           

Mermaid

Alla fine del turno al Mermaid, quel giorno, mi ricordai di aver rimandato fin troppo la fatidica chiamata a Bob. Il brutto presentimento che avvertivo ormai da qualche giorno era diventato più persistente e pesante da sopportare. Temevo di ricevere brutte notizie premendo quel maledetto tasto verde. Decisi che, in fondo, farlo dieci minuti prima o dieci minuti dopo non avrebbe cambiato le cose, quindi indossai gli auricolari e impostai la riproduzione casuale.

La luce fioca dei lampioni illuminava abbastanza chiaramente il tragitto che stavo compiendo, ma non potevo fare altro che sperare che la primavera arrivasse presto. L'inverno stava cominciando a starmi stretto, rendeva cupo ciò che invece avrei voluto veder splendere. La stagione in corso faceva a botte con il mio umore finalmente gioioso ed era una cosa che, stupidamente, m'infastidiva. Avrei voluto che tutto intorno a me fosse altrettanto radioso, perché Gold Bay e tutti i suoi abitanti meritavano la stessa felicità che stavo provando io. Era un pensiero in parte egoista, ma Gold Bay mi aveva pur sempre dato una casa e regalato un nuovo inizio lontano dai demoni del passato.

Pensai a questo e a mille altre cose mentre rincasavo. Ero stata scostante e sempre fuori ultimamente; la mancanza di Lia, di mia madre e di Aaron era ora più viva che mai. Avrei tanto voluto passare del tempo con loro, ma Luke mi aveva nuovamente chiesto di uscire a cena e io avevo accettato senza rimuginarci troppo sopra. Mi diedi un leggero schiaffo sulla fronte, maledicendomi, perché loro erano sempre stati lì per me e io invece stavo dando per scontata la loro presenza.

Nel momento in cui stavo infilando la chiave nella toppa della serratura, il cellulare vibrò nella mia tasca. Mi affrettai a sfilarlo e a rispondere. Non controllai neanche chi fosse, tanto ero presa ad aprire la porta e cercare rifugio al caldo. Incastrai il telefono tra l'orecchio e la spalla per semplificare le azioni che stavo compiendo, poi finalmente entrai.

«Bea, oh mio Dio» disse la voce all'altro capo del telefono.

«Candice?» chiesi con le sopracciglia aggrottate. Ci eravamo appena salutate.

«Ho chiamato Bob e... e...» balbettò.

«E...?» la esortai.

«Ha avuto un infarto» mi spiegò veloce, «ma ha detto che si riprenderà.»

«Cosa?!» esclamai. «Perché nessuno ci ha detto niente? Sono passate più di tre settimane dall'ultima volta che è stato al Mermaid, Candy.»

«Sua figlia credeva che ci avesse avvertito lui stesso» sospirò. «Avrei dovuto chiamarlo prima, porca miseria.»

Il senso di colpa traspariva dalla sua voce, e io ero sicura di suonare alla stessa maniera. Bob non c'era spesso e volentieri, si occupava perlopiù dell'amministrazione e dell'organizzazione del Mermaid, quindi nonostante la preoccupazione non ci eravamo allarmate più di tanto.

Mia madre uscì dalla cucina e mi rivolse un'occhiata confusa. Le feci segno che le avrei spiegato più tardi ciò che era accaduto, così mi diede le spalle allontanandosi.

«Non potevamo saperlo.»

«Lo so, ma...»

«Candy, non è colpa di nessuno» insistetti. «Però potremmo andare a fargli visita domani, alla fine del turno.»

«È una buona idea» accettò, e parve tranquillizzarsi almeno in parte grazie a quella proposta.

«Ci vediamo domani» la salutai in fretta mentre con lo sguardo cercavo Lia in cucina e in salotto. «Ti voglio bene.»

«Ti voglio bene anche io.»

Chiusi la chiamata e lanciai il cellulare nella borsa che mi era scivolata fino al gomito. La appoggiai a terra, sotto la mensola, e mi tolsi la giacca. Mi passai distrattamente le mani nei capelli al ricordo delle parole di Candice – "Bob ha avuto un infarto" – e al sollievo che era sopraggiunto nell'attimo in cui mi aveva rivelato che si sarebbe ripreso.

Raggiunsi la cucina, dove ero certa di trovare mia madre. Dall'altro lato del tavolo, accomodata su una sedia e con le gambe accavallate, c'era anche Lia. Sorrisi nel vederla con uno chignon disordinato e improvvisato, in leggins e con una felpa grigia enorme a coprirla. Mi fece rammentare le nostre domeniche pomeriggio a New York quando, troppo stanche per uscire e vestirci decentemente, passavamo le ore distese sul divano a guardare un film dietro l'altro.

«Bea!» esclamò non appena entrai. «Mi sembra di non vederti da una vita.»

«Lo so, e mi dispiace tanto» ammisi. «Ma stasera sono tutta tua. Vostra» mi corressi poi.

Mia madre mi sorrise raggiante quando udì quelle parole e io ricambiai con il cuore un po' più leggero.

«Torno subito» dissi e sparii diretta alla mensola vicino alla porta, dove sul pavimento avevo lasciato la mia borsa. Estrassi il cellulare e inviai rapidamente un messaggio a Luke, disdicendo l'appuntamento che ci eravamo dati spiegandogli il motivo della mia decisione. Sperai che capisse, ma ero abbastanza certa che non avrebbe fatto scenate.

Stavo ancora cercando di trovare un equilibrio, in quella situazione, che desse eguale importanza a ogni persona che componeva la mia quotidianità. Avevo da lavorarci ancora un bel po' sopra, però stavo facendo del mio meglio per riuscirci e far diventare una priorità ognuno di loro. Era incredibile constatare che la presenza della mia vecchia amica aveva dato forma a più cambiamenti, e non solo nella mia vita. Il viso di mia madre era più rilassato, le occhiaie meno marcate, e una fitta mi colpì lo stomaco al pensiero che io non ero mai stata in grado di placare la sua ansia. Ero finalmente al sicuro, mi stavo riprendendo, ma quello non era comunque sufficiente a farla stare tranquilla.

«Cos'è successo?» mi domandò facendo riferimento agli sprazzi di conversazione che aveva ascoltato poco prima.

Scelsi di partire dal principio e le raccontai anche della preoccupazione mia e di Candice precedente alla chiamata che avevo ricevuto. «E poco fa Candy mi ha telefonato dicendomi che Bob ha avuto un infarto» conclusi.

Gli occhi di mia madre si spalancarono, esattamente come i miei. «Ma sta bene?» mi chiese con la voce tremante.

Annuii. «Sì, hanno detto che si riprenderà. Domani dopo il turno andremo a fargli visita per vedere come sta.»

🌺

Finalmente, dopo la cena, ci accomodammo tutti quanti sul divano. Aaron era esausto, aveva passato tutto il pomeriggio a fare i compiti con uno dei suoi compagni di classe ed era rincasato soltanto pochi minuti prima di cena. Mi aveva spiegato velocemente che si trattava di una ricerca per scienze, un progetto da svolgere a coppie, ma avevo notato uno strano luccichio nei suoi occhi mentre mi parlava del suo amico.

Averlo strappato da New York era forse stato più difficile per lui che per chiunque altro, anche se all'epoca aveva poco meno di sette anni. L'avevamo portato via nel momento in cui stava cominciando a costruire amicizie reali e, una volta a Gold Bay, aveva dovuto ricominciare da capo. Cosa complicata per lui, soprattutto a causa del suo carattere simile al mio: chiuso, introverso e a tratti persino arrogante se si sentiva a disagio. Quello era probabilmente il suo primo vero amico da quando ci eravamo trasferiti.

Mia madre invece aveva ancora lo sguardo perso, proprio come durante la cena. La notizia dell'infarto di Bob doveva averla scossa non poco. Sapevo che si conoscevano, ma al contempo non ero al corrente di quale fosse il rapporto che li legava o perché si fosse preoccupata a tal punto. Allontanai temporaneamente quel pensiero, curiosa e un po' allarmata. Scelsi di parlargliene più tardi, quando Lia sarebbe salita in camera e Aaron sarebbe andato a dormire.

Anche Lia era stanca, malgrado in quegli ultimi giorni non avesse dovuto badare a me più di tanto. Immaginai che avesse approfittato della mia assenza per andare a fare un giro, magari al mare, e farsi un'idea più chiara della cittadina che mi aveva accolta a braccia aperte. Doveva raccontare molto il luogo in cui vivevo, la tranquillità che vi si respirava in ogni angolo e vicolo. Teneva la testa appoggiata sul mio grembo, rannicchiata in posizione fetale, e le mie carezze sui suoi capelli dovevano avere un effetto ninna nanna perché ben presto le sue palpebre diventarono più pesanti e si chiusero.

«Lia, forse è meglio se vai in camera» mormorai al suo orecchio. Lei si stiracchiò e mi fece un cenno d'assenso col capo prima di alzarsi. «Io arrivo fra poco» le dissi con un sorriso. «Devo parlare un attimo con mia madre.»

«Va bene» annuì e mi diede un abbraccio veloce prima di sparire lungo le scale.

«Anche tu Aaron, è ora di dormire» disse mia madre, perentoria, rivolta a mio fratello.

Lui mise il broncio per qualche istante, dopotutto erano solo le dieci e mezza di sera; tuttavia il film non era stato dei più coinvolgenti e gli eventi che si erano susseguiti durante la giornata stavano cominciando a farsi sentire. Scomparve anche lui dalla nostra visuale, poi mia madre e io restammo finalmente sole.

«Mamma, posso farti una domanda?» le chiesi risedendomi sul sofà.

«Certo» rispose, nonostante l'occhiata perplessa che mi rifilò. Capitava di rado che avessi voglia di fare conversazione a quell'ora.

Si accomodò al mio fianco e posò i gomiti sulle ginocchia. «Dimmi pure.»

«Vuoi bene a Bob?»

La mia domanda la colse di sorpresa, tanto che non riuscì a nascondere lo stupore. «Sì.»

«Perché ci tieni tanto?» indagai.

«Perché non dovrei?» ribatté.

«Mi sono espressa male» gesticolai. «Quale rapporto vi unisce?»

Non fui capace di non sembrare stupida o di non farle fraintendere le mie parole. Non intendevo dire che c'era qualcosa di amoroso tra loro due, ero semplicemente curiosa. Quella era una parte di storia di cui io ero all'oscuro, d'altronde.

«Ci siamo incontrati la prima volta a New York, era in vacanza con la moglie» iniziò. «Siamo sempre rimasti in contatto e, quando abbiamo deciso di trasferirci, lui mi ha proposto di venire a Gold Bay. Me lo descrisse come un posto tranquillo, lontano dai pettegolezzi, e mi convinse ad accettare. Lui, inoltre, aveva un lavoro da offrirti che ti potesse aiutare a guadagnare autonomia e qualche soldo.»

La fissai bramando altre informazioni. Mai avrei creduto che Bob fosse tanto coinvolto in quella che era la nostra situazione familiare ai tempi. Eppure era stato, in tutto e per tutto, grazie a lui se avevamo potuto ricominciare da capo.

«Sua moglie morì quell'anno e lui aveva bisogno di un'amica – me – e di una distrazione, il Mermaid» mi spiegò.

«A quanto pare, noi lo abbiamo aiutato più di quanto abbia fatto lui. Senza di noi – di me, di te e di Candice – si sarebbe letteralmente lasciato andare.»

Bob era un brav'uomo, aveva un cuore grande e aveva passato la sua intera esistenza a rendere felici gli altri. Così facendo, anche lui stesso era felice. I suoi occhi parlavano da sé, non l'avevo mai visto triste. Mai, nemmeno una volta, nonostante avesse perso la moglie e il suo punto di riferimento.

«Sai perché il suo locale si chiama "Mermaid"?» mi domandò.

Negai con la testa. In effetti, quel pensiero non mi aveva neanche mai sfiorato la mente.

«Sua moglie adorava cantare. Diceva sempre che, la prima volta, era stato come ascoltare il canto di una sirena. L'aveva ipnotizzato, e quella sera si rese conto di volere quella donna a qualunque costo. Ha dedicato questo nome al bar per poter rendere il suo ricordo eterno, in qualche modo. Ecco perché non si è mai arreso né ha mai lasciato perdere ciò che aveva costruito con tanta fatica insieme a lei. Non avrebbe permesso a nessuno di portargli via l'unica cosa che gli era rimasta di sua moglie.»

Mi asciugai furtiva la lacrima che mi stava solcando lentamente una guancia. Un amore così, mi ripetei, non desideravo altro. Un amore che andasse oltre le circostanze, la distanza e addirittura la morte. Amare ed essere amata fino in fondo, fino alla fine.

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