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XIII



Tenerezza

Mi trascinai letteralmente in casa. Avvertivo le gambe molli, come se fossi ubriaca, non più in grado di stare in equilibrio.

Una serata tranquilla in compagnia di Candice si era trasformata in un incubo. Un incontro non proprio spiacevole ma quasi, un ultimatum che mi aveva messa alle strette.

Sbattei la porta alle mie spalle. Il rumore fece svegliare mia madre di scatto, tanto che si tirò a sedere sul divano nel giro di un nanosecondo.

«Bea, stai bene?» mi domandò guardandomi con gli occhi assottigliati e stanchi per via del sonno che io stessa avevo interrotto.

Annuii e, senza una parola di più, salii le scale. I gradini sembravano infiniti tanta era la fatica che stavo impiegando per arrivare al piano superiore. Volevo soltanto lasciarmi cadere a terra, smettere di combattere soltanto per rimanere in piedi qualche secondo di più. Non ero capace di reagire, non quando era stata la persona su cui facevo più affidamento a trattarmi da estranea.

Nell'esatto momento in cui finalmente raggiunsi la camera, mi abbandonai sul letto di peso e mi coprii con la coperta che era stata precedentemente piegata ed appoggiata in fondo allo stesso.

Non riuscivo a pensare ad altro se non allo sguardo accusatore che Candy mi aveva rivolto scaricandomi davanti a casa, uno sguardo che non avrei mai immaginato di ricevere da parte sua. Mi rannicchiai in posizione fetale e mi addormentai quasi subito.

🌺

Mi svegliai dopo un sonno privo di sogni. Morfeo non mi aveva dato pace neanche tra le sue braccia, non mi aveva donato quel poco di felicità che desideravo.

Mi alzai dal letto e, prima di andare il bagno, controllai l'ora. Erano le sei e mezza, il che significava che la sveglia sarebbe suonata almeno mezz'ora dopo.

Feci spallucce e aprii il cassetto della biancheria, dato che era comunque troppo tardi per tornare a dormire. Presi ciò che mi sarebbe servito una volta fuori dalla doccia e, trascinando i piedi sul pavimento, raggiunsi la stanza.

Mi spogliai con lentezza, ma al contempo con facilità. Avrei voluto poter esporre il mio passato alla medesima maniera, però vedere il mio corpo e quella parte di storia che avevo nascosto con ostentazione erano due cose ben differenti. Il primo avevo imparato ad accettarlo, l'ultimo no. Era una battaglia che continuavo a perdere, ancora e ancora; sapevo che l'avrei vinta soltanto parlandone con qualcuno.

Girai la manopola della doccia e un fiotto d'acqua iniziò a scendere dal soffione posto in alto. Attesi qualche attimo, fintanto che l'acqua fu calda, ed entrai nel box. Il vapore aveva già appannato una delle due ante, così mi misi a disegnare un cuore su di essa. Era tutta lì, la mia storia: in un cuore stanco di pulsare, di soffrire, di lottare. Chiedeva solamente una tregua.

L'acqua ora era bollente, così con un balzo mi scansai dal getto. Bruciava sulla pelle, ma quel pizzicore non era nemmeno lontanamente paragonabile al pensiero di Candice, il quale mi aveva assalita non appena avevo socchiuso gli occhi nella penombra della camera da letto. La regolai.

Mi voltai di spalle ed appoggiai la schiena alle piastrelle. Mi presi la testa tra le mani, con tanta voglia di piangere ma nessuna intenzione di farlo. Se solo avessi permesso alle mie emozioni di prender vita, di sfogarsi in tal modo, probabilmente non avrei avvertito quel dolore lacerante nel petto, il sapore amaro della delusione in bocca.

Scossi il capo e mi lavai in fretta. Non avevo idea di quanto tempo avessi perso lì, ferma in quella posizione con la mente completamente svuotata, però di una cosa ero invece sicura: il Mermaid non si sarebbe aperto da solo. Malgrado volessi evitare di incontrare Candice a tutti i costi, almeno quel giorno, non potevo volontariamente far venire meno la fiducia che Bob riponeva nei miei confronti. Continuavo a ripetermi come un mantra che era grazie a lui se io e mia madre avevamo un tetto sopra la testa, se avevo trovato lavoro dopo soli pochi giorni dal mio arrivo proprio nel suo locale. Era merito suo se io, mia madre e mio fratello ci eravamo potuti concedere il lusso di ricominciare altrove.

Spensi la sveglia prima di vestirmi.

Il silenzio che aleggiava al Mermaid placò almeno in parte l'ansia che provavo perché consapevole che avrei rivisto Candice, volente o nolente. Per un attimo, una sola frazione di secondo, pregai che non si presentasse e inventasse invece una scusa qualunque pur di saltare la giornata lavorativa. Era passato troppo poco tempo e ancora non ero stata capace di accettare ciò che era accaduto la sera precedente. Mi sembrava tutto così assurdo, lo spezzone di un film di cui ridi per l'esagerazione adottata nella rappresentazione. Forse quella che stava gonfiando le cose ero io, forse avevo soltanto frainteso il sincero interesse che invece stava tentando di dimostrarmi. Mi sentivo la testa scoppiare, quei pensieri mi stavano facendo impazzire.

Salutai Bob sventolando la mano in aria. Mi disse che era passato solo per appurare che stesse andando tutto bene e che le scorte fossero sufficienti per la settimana, ma prima che se ne andasse lo bloccai. «Mia madre ha detto che verrà a farti visita un giorno di questi.»

«Oh, che pensiero gentile» mi sorrise. «Andrò io da lei, mi sa. Devo essere in città per le undici per incontrare un nuovo fornitore.»

«Allora buona fortuna!» esclamai.

Mi piaceva pensare che il cambiamento che era avvenuto all'interno del locale si fosse in qualche modo riversato su di noi. Bob sembrava aver riacquisito la gioia degli inizi, gli brillavano gli occhi ogni volta che parlavamo del Mermaid.

«Ah, Bea» mi richiamò mentre con una mano teneva la porta aperta. Faceva freddo e c'era un po' di vento. «Candy oggi comincia alle due di pomeriggio.»

«Va bene» blaterai. Avrei preferito udire altro.

Sistemai alla bell'e meglio la sala, anche se fortunatamente non c'era altro che un po' di polvere accumulatasi sulle superfici del locale nel corso della notte. I bicchieri erano lindi e brillavano sotto la luce artificiale che avevo appena acceso. Odiavo stare con le mani in mano, ma non c'era molto altro da fare. Presi allora uno sgabello e lo posizionai dietro il bancone; non mi avrebbe intralciato la strada, dato che sarei stata l'unica a dovermi muovere lì dietro. Mi ci sedetti sopra e appoggiai i gomiti sul bordo del lavello, mentre la mia mente viaggiava nella speranza che qualcuno mi venisse a fare compagnia.

Il freddo aveva ormai allontanato gli studenti dal Mermaid. Gran parte di loro preferiva uscire di casa mezz'ora più tardi piuttosto che venire da noi a fare colazione ogni giorno. Erano poche le persone che invece facevano tintinnare i campanelli della porta dandomi l'occasione di rendermi utile. Se non avessimo organizzato una nuova festa o qualche altro evento a breve, i guadagni sarebbero precipitati ancora una volta. Quel pensiero mi diede una spinta in più a chiarire con Candy non appena ci saremmo incontrate.

Servii prima il postino della cittadina, Anthony, poi un uomo d'affari, vestito di tutto punto, presumibilmente soltanto di passaggio. Mi chiesi cosa tenesse nella ventiquattrore che aveva posato sullo sgabello accanto a sé, che lavoro facesse, cosa l'avesse portato da noi.

Mi concentrai su tutto e niente a costo di distrarmi. Le lancette dell'orologio ticchettavano scandendo i secondi, la radio trasmetteva canzoni degli anni ottanta in sottofondo, i clienti avevano cominciato a conversare tra di loro solo per occupare i cinque minuti di un caffè, ma mi sembrava comunque di essere avvolta dal silenzio più vuoto e al contempo pesante che avessi mai sentito.

La porta, d'un tratto, venne nuovamente spalancata. Quando Anthony e quell'uomo di cui non conoscevo l'identità se n'erano andati, mi ero ormai arresa all'idea che avrei trascorso le restanti ore in solitudine. Questo almeno finché non fosse arrivata Candy, ma non avrei saputo dire quale delle due cose preferissi. Il pensiero di doverle raccontare chi fosse Lia e perché fossimo tanto legate, nonostante il tempo e la distanza che ci avevano separate, mi spaventava a morte, anche se lei non aveva nulla a che fare con ciò che in passato mi aveva riguardato. Come tante altre persone, aveva conosciuto l'accaduto solamente più tardi.

Sollevai la testa e guardai dritto verso l'entrata. Quattro ragazzi avevano fatto il loro ingresso al Mermaid, e non mi ci volle molto per capire chi fossero: Luke ed i suoi amici. L'orologio appeso alla parete segnava l'una e mezza del pomeriggio ed in una muta preghiera m'illusi che Candy sarebbe arrivata presto permettendomi di scampare il discorso che Luke mi avrebbe fatto da un momento all'altro. Un assurdo controsenso, certo, eppure in cuor mio ero consapevole di quanto la presenza della mia amica fosse per me un calmante più che efficace.

Mi salutarono uno dopo l'altro; l'unico a non proferire parola fu proprio il ragazzo da cui mi sarei aspettata almeno un "ciao". Avrei dovuto essergli grata per l'indifferenza che stava mostrando nei miei confronti, in fondo era ciò che volevo; questo, almeno, finché non aveva varcato la soglia ed i suoi occhi avevano incontrato i miei.

Mi sentivo una marionetta nelle mani di altri, sballottata a destra e a sinistra a piacimento, come una bambola che si può trattare male o bene a seconda del proprio umore. Ero stanca di non prendere posizione, di star zitta pur di non ferire nessuno, di non deludere, di non soffrire io stessa. Ero convinta di essere cambiata in meglio, di essere diventata qualcuno che la gente avrebbe potuto prendere da riferimento se solo avesse saputo la verità, ma la realtà era una sola ed era tremendo esserne perfettamente consapevole. Ero ancora la ragazzina che aveva lasciato il caos di una metropoli come New York per fuggire alle occhiate, per la paranoia di vedere per strada, anche in mezzo a milioni di sconosciuti, qualcuno che invece sapeva chi ero e cosa avevo dovuto affrontare. Ero la stessa ragazzina spaventata ed immersa nella vergogna, nel senso di colpa, che non era capace di dare una svolta alla propria vita.

«Bea!» esclamò uno dei ragazzi. Capelli ricci, sorrisino impertinente... Non ricordavo come si chiamasse.

«Sì?» mormorai.

«Oh, finalmente» gli diede man forte un altro.

«Sì, ehm... Cosa vi porto?» domandai. Dovevano aver ripetuto un bel po' di volte il mio nome per essere così stizziti. Solo uno, quello biondo, sembrava capire cosa stavo provando in quell'istante, perché mi fossi assentata tanto a lungo dalla realtà, persa in chissà quali considerazioni.

Luke si alzò dalla sedia e si avvicinò al bancone prima che gli altri potessero rispondermi. Appoggiò entrambi i palmi delle mani sul metallo lucido e, dopo aver preso un respiro profondo, mi chiese: «Stai bene?»

Non dissi nulla a riguardo; avevo un lavoro da svolgere e avevo già fatto fin troppe figuracce per essere soltanto le due del pomeriggio. Era inconcepibile un comportamento del genere.

«Cosa vi porto, allora?»

«Bea, ti ho fatto una domanda e vorrei che tu mi rispondessi» ribatté secco.

«Ragazzi, cosa volete?» alzai la voce in modo tale da farmi sentire dagli altri.

Quello con i capelli un po' ricci diede una leggera gomitata al biondo, il quale finalmente mi diede i loro ordini. «Tre cappuccini e...»

«Un macchiato» terminò Luke, il quale era ancora in piedi davanti a me.

Gli diedi le spalle e mi diressi verso la macchina per fare il caffè. Vi armeggiai per qualche attimo, finché il latte non fu pronto. Avevo la sensazione che Luke non mi avesse tolto gli occhi di dosso nemmeno per un secondo, e ne ebbi la conferma quando, spostandomi di qualche passo per prendere le tazze, voltai di poco il viso. Negai impercettibilmente col capo, supplicandolo di lasciar perdere, però questo servì soltanto a dargli l'opportunità di fare qualcosa di concreto per me. Ero pronta a battere i piedi a terra come una bambina, frustrata, ma quando lo ritrovai a soli pochi centimetri da me ogni certezza venne meno.

Posò entrambe le mani ai lati del mio collo e, ancora una volta, i suoi occhi incontrarono i miei dopo avermi alzato il mento con due dita. Voleva che lo guardassi, che vedessi quanto dolore e impotenza ci fossero nel suo sguardo spento. Trattenni a stento le lacrime, dopotutto gli era servito così poco per inquadrarmi, per capire di che pasta fossi fatta. Il crollo che avevo avuto durante la nostra uscita gli aveva dato più risposte di quante io fossi disposta a darne.

Dietro di me la macchina del caffè sbuffava, probabilmente avevo combinato un disastro e il liquido invece che finire nelle tazzine era finito ovunque. Non riuscivo neanche a ricordare quali fossero state le mie azioni negli ultimi dieci minuti.

Tutto ciò che per me contava era dinanzi a me, che mi toccava, il cui respiro sbatteva contro la mia pelle. Appoggiò la fronte alla mia e quasi mi commossi per quella tenerezza, per l'incredibile attenzione che dimostrava sempre nei miei confronti. La rabbia era svanita, avevo scordato i giorni trascorsi lontani, la finta indifferenza che mi aveva mostrato poco prima, l'essere ignorata per un tempo che mi era parso interminabile.

Si abbassò un po', quel tanto che bastava per mettersi alla mia altezza, finché le sue labbra non aderirono alle mie. Mi baciò dapprima piano, lentamente, come volesse assaporare ogni secondo, poi con più foga approfondì. Mi parve di essere diventata leggera come una piuma, di appartenere quasi ad un'altra dimensione, di non essere la stessa Bea stanca di vivere già a vent'anni.

In sottofondo non c'erano altro che i fischi di approvazione dei suoi amici, quei «Finalmente ce l'hai fatta!» attutiti dagli schiocchi dei nostri baci. Non avrei mai pensato che il nostro primo bacio potesse avvenire in una circostanza simile.

Infatti, ovviamente, qualcosa doveva per forza andare storto.

«Cos'è quel disastro?»

Non osai nemmeno girarmi per vedere cosa avevo combinato, ma sapevo che Candice era furiosa.

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