VII
Nel posto giusto
Un padre l'avevo avuto, comunque. Più di uno in realtà. In qualche modo mia madre era riuscita ad accantonare il ricordo di Dean per il mio ed il suo bene.
Non era andata come aveva sperato, però. Dal secondo matrimonio nacque Aaron, colui che ho sempre considerato un fratello a tutti gli effetti. Essendoci qualche anno di differenza tra di noi ho provato in tutte le maniere ad aiutare mia madre a crescerlo, a consigliarlo quando la sua figura si faceva distante, a fare i compiti con lui cosicché non restasse indietro col programma.
Aaron è un tipo sveglio. Aveva capito sin da subito che c'era qualcosa di diverso nel mio sguardo quando era rivolto a suo padre e quando invece a nostra madre, ma avevo cercato di non fargli pesare la situazione. Non facevo altro che paragonare Robin e Dean, anche se il mio termine di paragone era un fantasma, qualcuno a cui non sapevo attribuire né un profumo né un gesto particolare. Niente che lo caratterizzasse mi saltava alla mente al suo pensiero, tranne i racconti di Cassandra in dormiveglia.
Per la prima volta avevo desiderato di sbagliarmi, di non avere ragione. Volevo a tutti i costi che mia madre fosse felice, volevo che la vita che tanto aveva lottato per ricostruire fosse all'altezza delle sue aspettative, che la soddisfasse come meritava. Non mi dispiaceva più di tanto che accanto a lei ci fosse un altro uomo, questo probabilmente perché io il mio papà non l'avevo mai conosciuto. Ogni discorso iniziava e finiva in quel punto, quando il suo ricordo si faceva sbiadito in assenza di altri momenti da attribuirgli.
Le litigate cominciarono purtroppo a diventare più frequenti. Io ed Aaron scappavamo come due bambini impauriti – in quel periodo lui aveva quasi cinque anni, oramai; io il doppio – e ci chiudevamo nella sua cameretta finché le urla non si trasformavano in grida strozzate e silenzi pesanti. Non potevo fare nulla per cambiare le cose, non potevo far sì che Robin diventasse una persona migliore, che amasse mia madre, me e Aaron come una figura paterna dovrebbe fare. Robin era incappato in una vedova depressa e sola e se n'era approfittato, aveva finto che ci fosse amore nelle sue parole, la speranza di un futuro insieme che andasse ben oltre una semplice frequentazione. Mia madre ci era cascata con entrambe le scarpe, esattamente come noi figli.
Rannicchiata sotto le coperte, strette fino al collo, scossi la testa. Quello era un argomento non proprio leggero di cui avevo parlato ben poche volte, persino con mia madre, e l'ora tarda di certo non stava contribuendo ad allontanarlo. Sentii gli occhi pizzicare e le lacrime pronte a scivolare lente verso il cuscino.
Fu allora che feci qualcosa di totalmente inaspettato: chiamai Candy. Era passato molto tempo dal giorno in cui mi ero concessa una debolezza del genere. Nonostante fossero ormai quasi le due – erano trascorse almeno tre ore mentre mi rigiravo nel letto in attesa che Morfeo realizzasse le mie tacite preghiere – rispose dopo pochi squilli.
«Bea?» Potevo sentire dalla sua voce quanto fosse preoccupata.
«Candy...» sussurrai.
«È successo qualcosa?» mi domandò subito.
«In effetti-» cominciai, ma fui immediatamente interrotta dalla mia amica.
«Dammi dieci minuti, passo a prenderti.» Secca, categorica, non mi diede nemmeno il tempo di rifiutare, cosa che avrei sicuramente fatto se non avesse chiuso la chiamata.
Mi alzai piano dal letto e raggiunsi lo specchio. I capelli spettinati spiccavano più di qualunque altro mio tratto insieme alle occhiaie scure e profonde. Gli occhi erano leggermente gonfi e arrossati. Ero uno straccio, il mio riflesso parlava chiaro, ma ero certa che Candy mi accettava così com'ero: piena di difetti e con un carattere che spesso neanche io stessa ero capace di comprendere. Lei, che mi aveva capita ancor prima che aprissi bocca.
Mi arrivò un messaggio da parte di Candice non appena parcheggiò l'auto sotto casa. Mi affrettai a scendere le scale e nel silenzio più assoluto, dopo aver lasciato un misero biglietto sul letto a mia madre dove le dicevo di non preoccuparsi della mia assenza, raggiunsi l'uscio. Arraffai in fretta il cappotto e la borsetta, appoggiata di fianco all'entrata, e mi avviai.
Malgrado la temperatura fosse quasi sotto lo zero, Candice aveva il finestrino completamente abbassato.
«Dai, muoviti!» m'intimò. «Si gela.»
Salii sull'auto dopo aver percorso il vialetto a grandi falcate. Una volta all'interno dell'abitacolo, il tepore del riscaldamento mi fece rilassare i muscoli ed aderire la schiena al sedile.
«Grazie di essere qui,» mormorai torturandomi le mani strette in grembo.
Candy mise in moto ed ingranò la prima. Stava guidando senza meta, lo dedussi dalla totale disattenzione con cui osservava la strada di fronte a sé.
«Era il minimo che potessi fare,» rispose pochi istanti più tardi.
Vidi la sua mano dirigersi verso il pulsante di accensione della radio e subito una melodia lenta si propagò nell'aria. Ondeggiai il capo a destra e a sinistra, fallendo miseramente nel tentativo di seguirne il ritmo, e permisi al mio sguardo di riposare, di poggiarsi sugli edifici che scorrevano al di fuori della macchina. Ad un certo punto posai la testa sul finestrino e tesi la mano verso Candy, la quale venne afferrata da lei prima che potessi ripensarci. La strinse forte, senza fare domande o chiedersi il perché del mio gesto.
Avevo tutto ciò di cui avevo bisogno in quel momento: una persona che mi stesse vicino non per capriccio, non per solitudine, ma perché mi voleva bene. Una persona che, pur non potendo capire, stava provando a comprendere i miei silenzi senza mai invaderli o interromperli.
«Dove stiamo andando?» le domandai più tardi. Stava guidando da ormai una buona mezz'ora e non avevo la benché minima idea di dove mi volesse portare. Avevo scorto un lieve cambiamento nel suo sguardo, una consapevolezza tutta nuova.
«Manca poco,» disse soltanto per farmi stare tranquilla.
Fu di parola. Meno di dieci minuti più tardi si fermò in uno spazio ristretto, su una piccola collina. Da lì era possibile vedere gran parte della città ai nostri piedi, con le sue luci e colori vivi, ma mai come noi in quell'istante.
«Vengo qui quando ho bisogno di pensare,» mi spiegò. «So che il mare non è molto distante, ma preferisco stare qua. La notte, le luci, la città che dorme... Tutto questo riesce a calmarmi anche durante i giorni più brutti.»
Era la prima volta che Candice si confidava con me. Non mi stava nascondendo un brutto ricordo per far sì che io non lo scorgessi mai e poi mai, non stava fingendo di essere felice solo per non farmi preoccupare. Mi stava mostrando la Candy umana e sensibile, ossia ciò che aveva tentato di farmi capire quando mi aveva detto "Sei umana anche tu, mia piccola Bea". Eppure non avevo immediatamente afferrato il paragone con lei. Eravamo – siamo – molto più simili di quanto credessimo. Forse è vero che certe battaglie è più facile vincerle con qualcuno di fidato affianco, anche se l'orgoglio ci impedisce di ammetterlo.
La radio adesso era diventata solo un mero sottofondo alle nostre parole, spesso illogiche, parte di un discorso più ampio e profondo che solo a livello subconscio eravamo in grado di pronunciare.
«Ogni volta che esco di casa ho paura di non tornare,» sospirai, «non tanto per me, ma per mia madre. Mi si chiude lo stomaco quando la saluto perché non posso prometterle che mi vedrà per cena o per pranzo oppure semplicemente perché sarà a casa che andrò a dormire. Papà faceva lo stesso, le dava un bacio prima di uscire dicendole che si sarebbero visti la sera, ma un giorno non è più stato così.»
Presi un lungo respiro prima di continuare. «Se dovesse succedermi qualcosa, non riuscirebbe a sopportarlo. Ed io non sarei capace di perdonarmi né ora né mai. Se esiste un aldilà o un Paradiso, so che se accadesse vivrei l'eternità immersa nel senso di colpa.»
Candy mi accarezzò dolcemente la gamba prima di replicare. Avevo gli occhi grandi e gonfi, perché inconsapevolmente avevo cominciato a piangere mentre parlavo e non sapevo più come smettere. Le lacrime scesero copiose, bagnandomi il cappotto e la pelle, e non ebbi la forza di raccoglierle o fermarle.
«Non è stata colpa tua, Bea,» mi sorrise, «e purtroppo non si può avere il controllo su tutto. A volte le cose accadono e basta ed io ci credo, al destino intendo. Ci credo perché, forse, quel qualcosa è successo per impartirci una lezione, per renderci delle persone migliori, persone che sanno volersi bene e sanno apprezzare ogni istante che viene loro regalato.»
Non avevo mai creduto al destino, mai. Però, in quel momento, in quel contesto, in quelle condizioni, le sue parole ebbero su di me un effetto calmante. Anche se non volevo dar retta a quel discorso, un po' ci vedevo del vero: se tante cose non fossero accadute nel corso della mia esistenza, non sarei neanche stata a bordo della sua auto quella notte, seduta accanto a lei mentre era il cuore l'unico a parlare.
Mi offrì la sua spalla, avvicinandosi anche se di poco, ed io misi la testa proprio lì lasciando che lei mi accarezzasse i capelli. Dopo un po' il suo capo aderì al mio e ci trovammo a guardare le stelle, insieme, con le luci sotto di noi.
Mi sentii finalmente giusta. Non bene, non felice, non priva di quel peso che mi faceva mozzare il respiro quando le giornate diventavano difficili da affrontare. Solo giusta, nel posto giusto, con la persona giusta accanto.
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