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IX



La svolta

Il sabato arrivò più in fretta del previsto. Dopo la scampagnata di Luke e la sua compagnia al Mermaid – e probabilmente grazie al passaparola dei ragazzi – il locale sembrava aver ripreso vita. Era pieno zeppo di gente a qualsiasi ora della giornata, ma soprattutto a colazione. Le vacanze di Natale erano ormai finite da qualche giorno, e decine di allievi avevano deciso di comune accordo di recarsi al bar prima della scuola. Considerando poi che i vari istituti superiori si trovavano nell'area adiacente al centro abitato, raggiungibile tranquillamente a piedi, molti di loro l'avevano ritenuta una scelta ovvia.

Luke doveva aver parlato parecchio bene del Mermaid dato il flusso costante di persone. Anche se, ad essere sincera, ero sicura che fosse stato Michael a convincerne la maggior parte. Aveva un modo talmente naturale di parlare, così allegro e solare, che era impossibile non cedere alle sue parole anche solo per un misero caffè.

Candy aveva invece abbandonato l'idea di farmi sbottonare riguardo alla "questione Luke" – l'aveva definita proprio in questo modo, ma ero stata piuttosto chiara sul fatto che per il momento per me fosse off-limits. Non volevo montarmi la testa prima del previsto o darmi io stessa false speranze.

Più volte avevo provato a lasciarmi andare con qualcuno, malgrado fosse in qualche motel fatiscente lontano dalla città, da mia madre e da Aaron, eppure era sempre finita nella stessa maniera: io che mi rivestivo lenta, la testa che martellava per colpa dell'alcol e delle decine di sigarette fumate una dopo l'altra, e lui che faceva uguale, solo più in fretta. "Sai che non ci rivedremo" dicevo ad ognuno una volta conclusosi l'amplesso, e loro annuivano sollevati perché in fondo non volevano altro che quello da me. Non era nelle loro intenzioni trovare l'anima gemella, men che meno nelle mie. La mattina successiva però veniva a farmi visita il senso di colpa; mi sentivo usata, nonostante fossi stata io a renderlo possibile. Ecco perché dopo un po' smisi persino di uscire quando non lavoravo. A costo di non restare sola, anche soltanto per una notte, ero capace di chiamare "casa" le braccia di chiunque. Avevo perso ogni briciolo di dignità e la cosa peggiore era che me ne rendevo conto, eppure non pensavo di meritare più di questo.

🌺

Si erano già fatte le sette e mezza di sera, Luke sarebbe passato a prendermi di lì a mezz'ora. Fuori il buio ricopriva la cittadina, un manto scuro e privo di stelle. Amavo l'inverno, mi faceva sentire protetta. Le felpe calde e larghe mi arrivavano quasi a metà coscia, proprio come piacevano a me, e in casa il caminetto era sempre acceso e scoppiettante. Per anni avevo desiderato averne uno, e dopo il trasferimento mia madre aveva deciso di accontentare quel mio capriccio. Ero consapevole che fosse solo un contentino, un modo come un altro per farmi tacere la situazione, ma ero comunque felice di potermi rilassare lì davanti quando si faceva sera di ritorno dal lavoro.

Chiamai Candy dopo essere uscita dalla doccia. Ero nervosa, avevo lo stomaco in subbuglio, e mentre frugavo tra i vestiti da mettere provai a ricordare l'ultima volta in cui ero stata così entusiasta all'idea di uscire per un appuntamento. Probabilmente era passato troppo tempo, dato che non avevo la benché minima idea di quando fosse accaduto.

Impostai il vivavoce. Stavo girando la camera in lungo e in largo come una trottola impazzita. Non v'era nulla che potessi indossare; almeno, niente che ritenessi adatto all'occasione. I vestiti accompagnati dalle calze mi sembravano qualcosa di esageratamente elegante e pretenzioso; al contempo, un paio di jeans stretti ed un maglioncino parevano fuori luogo, troppo sciatti. Volevo dare a Luke una buona impressione di me perché Candy aveva ragione da vendere: non è il passato a definire una persona. Non ero più la Bea che si era trasferita a Gold Bay cinque anni prima.

«Non so cosa mettere, Candice» dissi. Avevo persino un po' di fiatone. L'ansia accumulata durante i giorni precedenti stava affiorando nel momento meno opportuno.

«Respira, Bea. È solo una cena» mi rispose piano, a bassa voce, come si fa coi bimbi per tranquillizzarli dopo una brutta caduta.

«Candice... E se non dovessi piacergli?» sussurrai. Avevo le lacrime agli occhi.

«Ci ha messo quasi un mese per trovare il coraggio di chiederti di uscire, credi che questo non significhi niente?»

«E se fossero stati i suoi amici a convincerlo? E se lui non lo volesse davvero?»

«Bea, ti rendi conto di cosa stai dicendo?» ribatté inviperita, poi cambiò discorso. «Dovresti mettere i jeans neri che abbiamo comprato insieme al centro commerciale, il mese scorso, ed il maglioncino bianco. Quello con il fiocchetto nero, hai presente?»

«Sì, penso di aver capito quale intendi.»

«Okay, ora muoviti! Sono già le otto meno dieci. Chiamami quando torni a casa, voglio sapere tutto.»

Non ebbi neanche il tempo di replicare che aveva già chiuso la chiamata.

Misi momentaneamente da parte la sensazione che mi stava facendo attorcigliare lo stomaco e cercai tra il mucchio di vestiti sparsi sul materasso quelli indicati da Candice. Li indossai in fretta, poi gettai un'occhiata di sfuggita all'ora sullo schermo del telefono. Il tempo aveva deciso di scorrere due volte più veloce del normale, tanto per alimentare ulteriormente la mia agitazione. Misi un filo di matita e di mascara; niente rossetto, niente lucidalabbra, niente di niente. Le lancette della sveglia continuavano a ticchettare rabbiose solo per rammentarmi che ero ad un passo dalla felicità assoluta o da una batosta bella e buona.

Udii a malapena il suono del campanello mentre infilavo le scarpe e riponevo il portafoglio e le chiavi all'interno della pochette. Non ero mai stata una di quelle ragazze dai ritardi studiati, per farsi desiderare, quindi di certo non lo sarei stata quella volta. Sapevo che Luke non era il tipo di persona che se ne va dopo aver ottenuto quello che vuole – o, almeno, questo era ciò che speravo. Non ne avevo alcuna certezza.

Avvertii delle voci provenire dal piano di sotto. Probabilmente era stata mia madre ad aprirgli, o Aaron, ed ora si stavano intrattenendo in una conversazione di cui non volevo neanche lontanamente conoscere l'argomento. Pregai semplicemente che non stessero parlando di me e che non fosse stata la mamma ad aprire perché, protettiva e sensibile com'era, in qualche maniera l'avrebbe sicuramente messo in guardia.

«Bea, scendi!» gridò proprio lei dal piano di sotto.

Feci un respiro profondo e mi costrinsi ad andare. Agitazione o meno, avevo desiderato quella serata più di qualsiasi altra cosa per quasi un mese. Non potevo tirarmi indietro, non ora che finalmente la ruota stava cominciando a girare a mio favore. Credevo sul serio che Luke fosse la svolta di cui avevo bisogno per ricominciare.

Scesi le scale con calma per non inciampare, poi raggiunsi la famiglia che mi era rimasta e Luke nell'atrio. Stavano conversando amabilmente, il che mi sorprese, e tra risate e pacche giocose date da mia madre al ragazzo che mi stava aspettando quasi non si accorsero della mia presenza. Erano talmente presi a parlare che mi si scaldò il cuore, e quella fu una conferma per me: avevo fatto la scelta giusta, ne ero convinta.

«Bea, eccoti finalmente» sorrise mia madre.

La guardai con gli occhi lucidi, stavamo pensando entrambe la stessa cosa. Quella era sì una sfida per me, però era anche un nuovo inizio. Aver accettato l'invito di Luke – anzi, averlo invitato io stessa – significava che dopo anni stavo tentando di riprendere in mano la mia vita. Momentaneamente i demoni del passato, tutti gli errori e le delusioni, erano stati riposti in un cassetto remoto della memoria, a debita distanza dal mio presente.

«Andiamo?» esordì Luke. Posai lo sguardo sul suo corpo snello, fasciato da un paio di jeans stretti, strappati all'altezza del ginocchio, a dispetto della temperatura gelida. Annuii.

«Mi raccomando, divertitevi!» esclamò mia madre poco prima che chiudessi la porta d'ingresso alle nostre spalle.

Scendemmo gli scalini uno affianco all'altra, in silenzio, fino a raggiungere l'auto parcheggiata sul ciglio della strada. Mi aprì la portiera, aspettò che salissi e la richiuse. Lo trovai un gesto alquanto gentile, non ero abituata ad essere trattata con tanta cura.

Mise in moto e subito una melodia riempì l'abitacolo. Demons degli Imagine Dragons giunse alle nostre orecchie e Luke iniziò a canticchiarla a fior di labbra.

"I wanna hide the truth
I wanna shelter you
But with the beast inside
There's nowhere we can hide"

Malgrado la radio coprisse quasi totalmente la sua voce, non potei fare a meno di drizzare le orecchie per ascoltarla con maggiore attenzione. Poi, una volta giunti il ritornello, mi unii a lui.

"When you feel my heat
Look into my eyes
It's where my demons hide
It's where my demons hide"

Quasi impercettibilmente, entrambi voltammo la testa verso l'altro e ci guardammo negli occhi. Non saprei spiegare come mi sentii in quell'istante, fu una sensazione mai provata prima. Forse solo con Candy, quando passava a prendermi alle due di mattina per portarmi nel suo posto sicuro a parlare di tutto e di niente.

"Don't get too close
It's dark inside
It's where my demons hide
It's where my demons hide"

Dovetti impormi di respirare. Dio solo sapeva quanto quelle parole fossero vere. Dentro di me avevo talmente tanta oscurità e demoni da scacciare che se ci rimuginavo sopra troppo a lungo mi si mozzava il respiro. Neanche mia madre sapeva quanto dolore ci fosse effettivamente dietro i miei occhi, quanta sofferenza avessi provato quando era stata lei a decidere per me, quando lei aveva messo una virgola proprio nel momento in cui c'era bisogno di un punto bello fermo. Se solo avessi potuto tornare indietro, probabilmente mi sarei fatta valere ed avrei reso la mia vita degna di essere definita tale. Ma no, continuavo a nascondermi, a scappare, a fingere, e avvicinare Luke comportava una scelta non indifferente: essere sincera, raccontargli l'intera verità, o mentire. Nemmeno Candice conosceva l'intera realtà dei fatti.

A canzone finita tirai un sospiro di sollievo. Luke riprese a concentrarsi sulla strada di fronte a sé, io poggiai la testa sul finestrino e fissai lo sguardo su un punto indefinito al di fuori.

«Dove mi stai portando?» gli domandai dopo un po' di tempo. Stava guidando oramai da un quarto d'ora.

«Non aver fretta, voglio che sia una sorpresa» mi rispose, al che io feci spallucce. Nessun ragazzo mi aveva mai trattata come se ne valessi la pena, come se effettivamente meritassi di essere sorpresa, ricoperta di attenzioni, lasciata a bocca aperta dallo stupore. Luke, anche se lo conoscevo da poco, era stato il primo capace di farmi sentire importante.

Avrei voluto insistere, fargli più domande a riguardo, ma decisi di tacere quel punto. Scelsi di provare a conoscerlo un po' di più.

«Sei figlio unico?» gli chiesi. Adesso la radio non era altro che un misero e trascurabile sottofondo. Riuscivo ad isolare il suono della sua voce da tutto il resto.

«Ad essere sincero, sì. Ho sempre voluto avere almeno un fratello o una sorella però.» Una nota di tristezza si fece evidente, ma sembrava finta. «I miei genitori non mi hanno mai fatto mancare niente, sai? Non ho mai avuto nulla di cui lamentarmi. Ascoltavo i miei amici fare i capricci per un'uscita negata o un concerto a cui non erano stati portati, mentre per me è stato sempre facile ottenere un "sì".»

«Dev'essere stato bello.»

«Sì e no. Ciò che mi è mancato in tutti questi anni, più che altro, è stata la figura di un fratello o di una sorella con cui confidarmi. Ci sono cose, durante l'adolescenza, che non si possono dire ai genitori con tanta leggerezza.»

Luke fece una breve pausa. Addirittura il silenzio, in sua compagnia, mi piaceva. Assomigliava ad un momento di riflessione per entrambi, intimo quasi.

«Questo lo posso capire» sorrisi tra me e me, «non potrei mai fare a meno di mio fratello. Mi punzecchia quasi sempre, ma se non ci fosse ne avvertirei l'assenza. È difficile da spiegare.»

«Non pensavo avessi un fratello» disse, «non so, a pelle. So di non avertelo mai chiesto, eppure hai l'aria di una che se l'è sempre cavata da sola.»

«Quanto ti sbagli» replicai. Mi pentii subito di quell'affermazione, ma per mia fortuna Luke mi avvertì che eravamo quasi giunti a destinazione. Sospirai, grata di aver evitato di dovergli spiegare a cosa mi riferissi. Non gli avrei comunque raccontato la verità, neanche se fossi stata messa alle strette. Era troppo presto per farlo.

Ci avviammo verso la tavola calda. L'insegna al neon brillava riempiendo di luce lo spazio antistante e già da lontano potei scorgere decine di figure, tra clienti e camerieri, aggirarsi al suo interno. A primo acchito mi parve un ambiente confortevole.

Data la prenotazione di Luke, ci era già stato riservato un tavolo. Ci fecero accomodare in fondo alla sala, nella parte forse più appartata della stessa, e il medesimo cameriere che ci aveva condotto fino a lì lasciò due menu sul tavolino apparecchiato. Lo sfogliai con disinteresse, la mia attenzione ancora rivolta alla conversazione avuta in macchina. Era stato un viaggio particolare e carico di confessioni, anche se in quegli attimi mi erano sembrate soltanto un mucchio di parole al vento.

Osservai ciò che si trovava attorno a me. L'arredamento era pressoché interamente di legno, dai tavoli alle panchine e alle sedie, fatta eccezione per le luci artificiali che pendevano dal soffitto sopra ogni seduta. Persino il bancone e le mensole erano di legno. Quella vista fece riaffiorare vecchi ricordi: pensai alla mia vecchia casa, alle vecchie abitudini. Mi affrettai a scacciare quelle immagini dalla mente.

«Come ti trovi al Mermaid?» Luke, a differenza mia, scelse un argomento di conversazione più neutrale.

«Molto bene. Non lo cambierei con nessun altro posto al mondo» affermai.

«Anche se la clientela scarseggia?»

«Non più, ormai» risi. «Fa comunque parte del gioco. Il Mermaid è stato aperto parecchi anni fa, una trentina credo, ma a lungo andare la sua fama è andata scemando. Non so come Bob sia stato in grado di sopravvivere alla crisi.»

«Penso sia merito tuo e della tua amica. Bob non ce l'avrebbe mai fatta senza di voi.»

«Forse. Mi piace credere che sia così, però a volte basta non perdere la speranza. Bob non l'ha mai persa, nemmeno quando è stato quasi costretto a chiudere. Se l'è cavata anche se tutti gli dicevano di mollare, perché un posto come quello non gli avrebbe permesso di guadagnarsi da vivere.»

«Già, hai ragione» sorrise.

In quel momento, un altro cameriere ci raggiunse con i nostri ordini. Li poggiò con delicatezza dinnanzi a noi e ci augurò un buon appetito. Lo ringraziammo in coro.

La cena proseguì normalmente, nonostante il silenzio che aleggiava sopra le nostre teste. Non c'era bisogno di parlare, alcuna necessità di affrettare le cose. Mi bastava la sua presenza, tranquilla e rilassata, cosa che in fin dei conti gli invidiavo. Avrei voluto vivere con la sua stessa leggerezza.

Quella sera mi sentii una persona diversa. Non so se accadde grazie a lui, all'incredibile capacità che aveva di farmi sentire a mio agio nonostante ci conoscessimo a malapena, o al mio cuore che aveva smesso di battere furioso e si era abbandonato all'equilibrio che regalava la sua compagnia. Fatto sta che ero stata bene con lui, molto bene, e glielo confessai mentre stavamo tornando all'auto.

«Anche io» ammise. «Sapevo di aver preso la decisione giusta.»

«A cosa ti riferisci?» ribattei. Dopotutto ero stata io ad invitarlo ad uscire, non il contrario. Lui aveva semplicemente proposto di andare a cena assieme.

«Cercarti, trovarti. Sapevo di doverti rivedere.»

Le guance, ne sono certa, mi si dipinsero di un acceso color porpora. Persino le orecchie mi stavano andando a fuoco.

«Oh.» Fu tutto ciò che uscì dalle mie labbra.

«Sei davvero bella stasera» cambiò discorso. «Non so perché non te l'abbia detto prima.»

I complimenti mi mettevano in soggezione. Riportavano a galla istanti che avrei desiderato cancellare dalla testa. «Grazie» ribattei con freddezza, poi aumentai l'andatura e in un paio di passi mi piazzai davanti alla portiera della macchina.

«Ho detto qualcosa di sbagliato?» mi domandò aggrottando le sopracciglia. Sembrava sinceramente dispiaciuto e confuso.

«No, non ti preoccupare» risposi atona. Si avvicinò a me e mi accarezzò una guancia. Fu allora che la mia vista si annebbiò e le gambe divennero improvvisamente molli. Mi parve di fluttuare nel vuoto, poi il respiro venne meno e il cuore riprese a correre furioso. Un vortice di immagini mi coprì la visuale.

«Bea! Bea!» gridò. Mi accasciai tra le sue braccia, gli occhi stretti a fessura. Avvertii a malapena il click della portiera che veniva aperta.

🌺

«Respira, con calma» udii una voce.

«Non mi toccare» biascicai, la bocca impastata.

«Va bene, ma bevi un po' d'acqua. Bea, per piacere» mi pregò Luke.

Afferrai la bottiglietta che teneva tra le dita e bevvi un paio di sorsi. Era calda. Chissà, probabilmente si trovava in quell'auto da qualche tempo.

«Stai meglio?»

«Sì, io... Ehm, grazie.»

«Mi vuoi spiegare cos'è appena successo? Sono stati cinque minuti orribili anche per me, nel caso te lo stessi chiedendo.»

«Non mi va di parlarne adesso, scusami» dissi con una sicurezza che non mi era mai appartenuta. L'unica cosa di cui ero certa era una sola: non doveva essere messo al corrente della verità, del mio passato. Perlomeno, non ancora. Non potevo permettermi un simile passo falso.

«Aspetterò tutto il tempo di cui avrai bisogno.» Fece per appoggiare la mano sulla mia spalla, ma all'ultimo si ritrasse e strinse il labbro inferiore tra i denti, come se si fosse appena ricordato di non dovermi toccare.

«Adesso ti porto a casa, andiamo.»

Salì dal lato del guidatore dopo aver chiuso la portiera dalla mia parte. Non feci neanche in tempo ad ascoltare le prime note della canzone trasmessa alla radio che mi addormentai, con la testa che ciondolava tra il sedile ed il finestrino, completamente priva di forze.

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