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III

Speranza

Era facile perdersi nel pensiero di quel nome: Luke. Da quando l'avevo sentito il mio cervello si rifiutava di focalizzare la propria attenzione su altro. La sua voce rimbombava nella mia mente facendomi attorcigliare e srotolare lo stomaco come un nastro da regalo sistemato ad arte.

Candice, quella mattina, mi passò più volte una mano davanti al viso per riportarmi alla realtà. Ogni suo tentativo fu vano, però, perché non ne volevo sapere di abbandonare quella voce, quelle poche lettere messe una accanto all'altra a formare un nome così corto eppure quasi melodioso alle mie orecchie.

Ancora non riuscivo a riconoscere l'emozione che divampava nelle mie vene, e che mi faceva arrossire, quando Candice mi lanciava qualche frecciatina a riguardo.

Ero stata estranea all'amore per gran parte della mia adolescenza, precludendomi un gran passo avanti che invece avrei dovuto fare come tutti i miei coetanei. Non mi credevo adatta a quel sentimento così forte, non ero pronta ad affrontare l'impegno di rendere felice qualcuno o la consapevolezza di essere una sorta di punto di riferimento per un'altra persona. Io stessa non ero in grado di bastarmi, quindi in che maniera avrei potuto aiutare, amare, proteggere un altro essere umano? Non era cosa da poco, e già da tempo avevo avuto la sfortuna di vivere sulla pelle gli esiti fallimentari di un rapporto simile. I pianti, le urla, la disperazione, il sapere di non essere riusciti a superare le difficoltà... Tutto ciò si era riversato su di me, spettatrice inerme di una storia che non potevo né scrivere né migliorare. Avevo convissuto col dolore di un abbandono talmente a lungo da pensare che fosse il mio unico e solo destino.

Candice mi afferrò le spalle e mi portò a sedere. Ero forse più scossa di Luke la volta in cui mi aveva seguita nel retro tra scorte e vestiti di ricambio.

«Non ti ho mai vista così,» mi sussurrò pensosa. «Non sarà mica a causa di quel Luke?»

«Non lo so,» sospirai poi, e ad essere completamente sincera non lo sapevo davvero.

Non c'era spiegazione razionale al mio comportamento, all'atteggiamento di una persona che per vent'anni era scappata ed ora invece desiderava restare, guardare i giorni scorrere sul calendario e le foto accumularsi tra i ricordi. Adesso volevo la vita, quella vera, e non la bolla in cui mi ero rifugiata per sfuggire alle lacrime, alla delusione di un'amicizia finita male o all'illusione di un amore di cui non c'era mai stata neanche lontanamente traccia.

Chiusi gli occhi e li riaprii poco più tardi. Candy era ancora lì, di fronte a me, con le mani tese fino a raggiungere le mie guance. Avvertii le sue dita sulla pelle; si muovevano piano, bagnate e leggiadre. Stava asciugando le lacrime che mi avevano solcato le gote, silenziose e invisibili come la lama del nemico che ti trafigge alle spalle.

«Perché?»

Candice mi sorrise e appoggiò una mano sul mio braccio. «Sei umana anche tu, mia piccola Bea.»

Certo, come se questa fosse una giustificazione sufficiente.

Luke, Luke, Luke... Quel nome era sempre lì, marchiato a fuoco nella mia mente, pronto a bruciare ogni qualvolta iniziassi a sentirmi meglio, più normale, meno spaventata. Era tutto così complicato e sconosciuto per la vecchia me. Quelle sensazioni mi stavano logorando dall'interno facendo mancare la stabilità che tanto avevo lottato per conquistare.

«Comunque bando alle ciance,» Candice rise un poco, «abbiamo pur sempre un locale da portare avanti.»

Detto fatto, scese dalla sedia e si diresse rapida verso il bancone del Mermaid, i polpastrelli premuti sulle tempie per dare l'aria di essere più concentrata di quanto apparisse. Mi fece ridere lì, così, fissa in quella posizione per cinque minuti abbondanti.

«Allora?» la istigai. Lei, però, con un gesto stizzito mi intimò di pazientare ancora qualche istante.

«Potremmo organizzare qualche serata a tema, che ne dici?» propose speranzosa con un gran sorriso poco più tardi.

«Non sarebbe una cattiva idea,» concordai, «ma non verrà comunque nessuno finché il tempo sarà questo.»

Puntai il dito indice verso le grandi vetrate e spalancai gli occhi, meravigliata dai fiocchi che leggeri volteggiavano fino a depositarsi al suolo, come se fosse stata la prima volta a cui assistevo a quello spettacolo straordinario. Non avevo mai visto così tanta neve in vita mia. Era una sorta di miracolo, quello, un periodo che avrebbe fatto la storia del nostro paesino sperduto.

«E se organizzassimo una festa per Capodanno? Con questo tempo sarà impossibile andare a festeggiare in città,» buttai lì quell'idea, convinta che non se ne sarebbe fatto niente e che fosse impossibile da realizzare concretamente.

«Sei un genio!» esclamò Candice euforica ed entusiasta come non l'avevo mai vista. «Sai quanti soldi prenderemo se tutto andrà a buon fine?»

Lei prendeva sul ridere la questione "guadagni mancati", ma conoscevo bene quello sguardo vacuo e spento a fine mese, le labbra che si alzavano costrette in un sorriso per non far sentire in colpa Bob, l'uomo che ci aveva accolte come figlie nonostante il futuro non proprio roseo del Mermaid. Glielo dovevamo. Risollevargli il morale e convincerlo che non aveva sprecato cinquant'anni di vita per mandare avanti un posto come quello solo per ritrovarsi pieno di debiti era diventato un bisogno quasi fisico.

«Ho qualche amico che ci potrebbe aiutare,» m'informò lei increspando le labbra. «Totalmente gratis.»

Battei allora le mani come una bambina e corsi ad abbracciarla, gesto che mi scaldò il cuore come ogni volta, come la prima.

In fin dei conti quella fu una giornata strana, ricolma di eventi inusuali, ma eravamo finalmente riuscite a scappare dalla routine che ci teneva segregate nelle solite, noiose abitudini. Tutto sommato si rivelò facile evadere dalla prigione di un'esistenza sempre uguale.

«Cominciamo?» le domandai agitata e felice allo stesso tempo. La festa di Capodanno mi avrebbe perlomeno permesso di distrarmi dal chiodo fisso in cui si era trasformato il ragazzo del parco.

«Subito!» Emise un gridolino così stridulo che provai una gioia sconosciuta nel vederla animata nuovamente dalla felicità.

Forse davvero non era tutto perso, forse potevamo sul serio salvare il Mermaid e riprendere a vivere come due ragazze di poco più di vent'anni. Potevamo ancora divertirci, ridere e scherzare, ballare, innamorarci. Avevamo la possibilità di cambiare le cose e ricominciare.

Dopotutto ci era bastata una spinta così lieve per riprendere il volo: la speranza.

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