Capitolo 3
Riley si chiese per quale motivo quell'uomo l'avesse seguita.
Il cuore le batteva all'impazzata ripensando a quello sguardo macabro ed in preda all'agitazione continuava a voltarsi per vedere se fosse ancora dietro di lei.
«Ahi!» disse un uomo che si era fermato all'improvviso davanti a lei «stai attenta e guarda dove vai» le disse in tono scortese allontanandosi.
Con il cuore in gola decise di sedersi su una delle panchine disposte lungo la metro, prese il telefono in mano e senza pensarci scrisse un messaggio a Travis.
Sorrise quando pochi minuti dopo vide che la stava chiamando.
«Cos'è successo?!» le chiese con voce tesa.
«Scusami, spero di non averti svegliato» le uscì con voce flebile «potrebbe comunque essere una mia immaginazione Trav» l'imbarazzo nella sua voce la fece arrossire.
«Riley, non è normale essere seguiti da un uomo» disse in tono fermo «ti ha fatto del male? Lo conoscevi? Descrivimelo!» la sua voce trapelava sempre più apprensione per quello che era successo alla sua amica.
«Non lo conoscevo Trav, ma non è successo niente» cercò di rincuorarlo mentre la sua ansia iniziava a lenire il panico e l'angoscia che aveva provato. Si sentì grata di avere un amico come Travis, aveva la capacità di farla sentire protetta.
«Sembrava che mi volesse solo mettere paura, e anche se ci è riuscito non credo che mi farà del male» ripensò allo sguardo freddo come il marmo dello sconosciuto e un brivido ghiacciato l'abbracciò.
«Se aspetti venti minuti posso raggiungerti in stazione...» il tono dolce di Travis la fece sciogliere. Aveva sempre avuto la capacità di farla sentire al sicuro e protetta. Dall'altro capo del telefono si sentirono dei tonfi, come se l'amico avesse appena lasciato cadere qualcosa di molto pesante.
Bevve l'ultimo sorso di caffè appoggiando la borraccia alla panchina. La stazione ormai era deserta, e non era molto distante dal locale in cui lavorava.
«No tranquillo, non serve» sorrise rincuorata.
«Non mi sembra una cosa da nulla! Potrebbe essere ancora lì... Auguste non può venirti incontro?» l'idea che lo sconosciuto fosse ancora lì la fece sobbalzare.
«Così non mi aiuti Trav! Mi fai venire ancora più ansia!» gli urlò al telefono guardandosi attorno con attenzione.
Sentì l'amico sospirare pesantemente «proprio perché sono preoccupato vorrei venire lì.»
Ci fu una breve pausa dove Riley prese in considerazione l'idea di dirgli di sì, invece fece un grosso respiro ed obbligando le sue gambe a camminare disse «non serve che vieni fino qui, mi basta che restiamo al telefono finché arrivo al le petit» salì i gradini della metro mentre Trav sbuffando le ricordava quanto incosciente e testarda era «e poi mi sentirei troppo in colpa se ti costringessi ad interrompere i tuoi allenamenti» sogghignò più serena, consapevole che se avesse avuto bisogno di aiuto lui sarebbe accorso senza indugiare.
Chiacchierarono per tutto il tempo, salutandosi quando arrivò sana e salva davanti alle serrande del le petit. Entrò lasciando giacca e borsa nell'armadietto, scrisse a Travis per ringraziarlo e si diresse a salutare Auguste intento a infornare una teglia di croissant.
«Hai delle occhiaie tremende questa mattina! Hai dormito o hai passato la notte a guardare serie tv??»
«Buongiorno anche a te principino. Sai che adoro dormire, è sempre un trauma alzarmi alle 4.30 del mattino» disse alzando gli occhi al cielo in modo teatrale.
«Io mi sono alzato molto prima, eppure la mia pelle è più radiosa della tua...» disse lui toccandosi il volto.
Riley sorrise divertita, Auguste era una delle persone più pragmatiche e calcolatrici che conosceva. Sapeva che non poteva tenergli nascosto nulla.
«Prima mi è successa una cosa che mi ha fatto accapponare la pelle...» Riley notò l'espressione di Auguste mutare man mano che il discorso andava avanti.
«Questa è decisamente strana come cosa...» disse meditabondo quando ebbe finito di ascoltare «...non capisco perché mai una persona dovrebbe seguirti e lasciarsi vedere così palesemente? Se avesse voluto farti del male ti avrebbe colto di sorpresa, in un momento in cui sapeva che non lo avresti notato».
Riley si chiese se i suoi amici si rendevano conto che quel tipo di interventi le facevano venire la tachicardia ogni volta. «Bhe, che tatto Auguste!» gli disse guardandolo torvo. «Non hai tutti i torti però...»
Riley rimuginò sulle sue parole scuotendo la testa «ma lui non era semplicemente strano Aug, sembrava che sapesse quello che volevo fare e dove sarei andata...»
«E a quell'ora del mattino dove si può dirigere qualcuno, se non in metropolitana? Il tuo abbigliamento non sembra adatto a fare jogging» le rispose lui sorridendole. «ma se ti rassicura ti posso fare da chaperone!» le diede un buffetto sulla guancia.
«Senza offesa, ma sei troppo mingherlino per fare da guardia del corpo» gli diede un pugnetto sull'esile braccio facendogli la linguaccia.
«Bel modo di ringraziare... comunque, la cosa che più mi sconvolge in tutto ciò e che tu abbia perso di nuovo la borraccia. Stai tentando di battere un record e non me lo dici??»
Riley scoppiò a ridere. Nel loro gruppo di amici l'avevano rinominata nuvola perché era sempre distratta con la testa tra le nuvole. Eventi simili a quello non facevano che alimentare quel nomignolo...
Riley si era resa conto di aver dimenticato la borraccia nel sedile solo mentre stava raccontando tutto ad Auguste «se lo racconti a Travis...»
«Ti prenderà in giro per sempre» la anticipò lui sorridendo divertito.
Alzò gli occhi al cielo divertita «sarà meglio che vada a pulire prima che arrivino i clienti e trovino tutto sottosopra» disse saltando giù dal tavolo.
«A dopo nuvola!» la salutò ridendo Auguste.
Sbuffò ripromettendosi di fare più attenzione aprendo il locale e lasciando entrare i primi pendolari. Assopita dagli ordini dei clienti non si rese conto che una voce profonda la stava chiamando. Lo vide solo quando si voltò e per lo spavento quasi fece cadere l'ordine del cliente.
Sgranò gli occhi rendendosi conto che quell'uomo l'aveva seguita fino a lì.
Attonita com'era, Riley non era riuscita a capire cosa le avesse chiesto.
«Quindi? Se non sbaglio questa dovrebbe essere la tua...» le disse tenendo in mano la sua borraccia blu sorridendole in modo freddo.
Il panico si fece strada nella sua mente quando il corpo le urlava di scappare. Cercava disperatamente con lo sguardo Auguste sperando nel suo supporto, ma quando si accorse che l'amico era impegnato tornò a voltarsi verso lo sconosciuto facendoli un flebile cenno del capo.
Decise di prendere tempo servendo gli altri clienti e cercando di convincersi di essere al sicuro, e che quello sconosciuto non avrebbe potuto farle niente nemmeno se avesse voluto.
«Ordini qualcosa o sei venuto qui solo per vedere dove lavoro?» disse prendendo coraggio e parlando con malcelata stizza.
«Oh Riley, io sapevo già dove lavoravi. So pure dove abiti se questo ti consola. La borraccia mi ha solo fornito un motivo per vedere da vicino se Mike aveva ragione. Comunque, già che ci sono prendo un caffè macchiato.» la nonchalance con cui disse quelle frasi la fece infiammare.
«Perfetto, se vuoi dirmi pure come ti chiami mi renderesti più facile segnalarti alla polizia» appoggiò le mani sul bancone fissando lo sguardo nel suo. Quei pozzi neri che aveva al posto degli occhi la risucchiarono mentre i clienti si tesero dopo aver sentito quelle parole.
«Enzo» disse sorridendo e mettendo in mostra i suoi denti bianchi quanto la sua carnagione, in netto contrasto con il nero che aveva addosso. «e vorrei un macchiato, grazie.»
Era sul punto di maledirlo quando vide i clienti dietro di lui che iniziavano a sbuffare. Gli lanciò uno sguardo torvo voltandosi. Lo guardò di sottecchi per imprimersi ogni dettaglio del suo volto nella mente. Era sicura di non averlo mai visto all'università, avrebbe sicuramente catturato la sua attenzione.
Vide che i sotto i suoi occhi c'erano profonde occhiaie segnate di nero. La mascella squadrata era spolverata da una leggera barba incolta.
Quando si girò di nuovo verso di lui notò che un tatuaggio gli si intravedeva alla base del collo, che assieme al piercing che aveva tra le sopracciglia gli conferiva un'aria elegante ma temibile.
Gli porse il caffè «non mi hai ancora detto come ti chiami» usò un tono inflessibile, non avrebbe accettato altre risposte fuorvianti.
Lui la fissò intensamente, e Riley vide in quel pozzo senza fondo una scintilla divertita. Si portò la tazzina alle labbra sorseggiando con calma il caffe.
Seguitò a servire i clienti ormai impazienti e quando stava per perdere le staffe si voltò bruscamente. La stava fissando con la testa leggermente inclinata e un ghigno nel volto.
«Sono Enzo, tuo padre mi ha detto di salutarti» disse simulando una cordialità inesistente.
Per Riley fu come ricevere una sberla che stordendola, le aveva fatto perdere il senso della realtà. Non lo vide allontanarsi, ne sentì i clienti che la stavano chiamando.
Aveva immaginato di tutto, tranne che potesse essere un creditore di suo padre.
Il sangue le scivolò via dal corpo e mille pensieri le vorticarono nella mente. Sentì un ronzio nelle orecchie e si afferrò al bancone prima di cadere a terra.
"Come hanno fatta a trovarmi? Non è possibile che papà gli abbia dato il mio indirizzo... non si sarebbe mai permesso di mandarmi quella gentaglia, per riscattare i suoi debiti oltretutto... Non ci voglio credere, non ci posso credere..."
Sobbalzò all'improvviso sentendo una mano che le stringeva la spalla. Si voltò e vide lo sguardo interrogativo di Auguste mentre iniziava a prendere gli ordini al suo posto. I suoi occhi erano colmi di preoccupazione e capì che qualcosa l'aveva stravolta, anche se non riusciva a capire cosa. Quella rivelazione aveva messo Riley completamente fuori gioco, facendole dimenticare dove fosse e cosa stesse facendo.
«Vai in pausa Riley.» disse guardandola di sfuggita allontanarsi. Non l'aveva mai vista così sconvolta, e non aveva idea di che cosa potesse essere la causa di tanto sgomento.
Riley si diresse verso lo spogliatoio, ma non riusciva a levarsi di dosso quella sensazione di pericolo che le aveva trasmesso Enzo.
Sapeva di essere stata messa con le spalle al muro, ed ora l'unica cosa che voleva fare era seguire il proprio istinto e scappare.
Quando riuscì a raggiungere l'uscita d'emergenza che usava per fumare si accasciò contro il muro con il fiato corto. Avrebbe solo voluto buttarsi a terra e non rialzarsi più.
Le sembrava che il terreno sotto ai piedi si fosse sgretolato e che tutto stesse cadendo nel vuoto trascinandola con sé.
In quell'istante realizzò di essere da sola.
Aveva sempre tenuto i suoi amici lontani dal suo passato sviando e mentendo.
Si prese il volto fra le mani e gli occhi si riempirono di lacrime quando un rombo in lontananza annunciava l'arrivo di un temporale.
Le prime gocce di pioggia iniziarono a bagnare l'asfalto davanti a lei quando le lacrime le stavano ricadendo dal viso.
Aveva sempre camminato sul filo del rasoio, cercando di allontanare la realtà scappando e sperando che il passato non tornasse a tormentarla. Nel suo profondo però aveva sempre saputo che la realtà sarebbe tornata a bussare alla porta, e non aveva importanza se lei fosse stata pronta o meno.
Alzò lo sguardo verso il cielo guardando le gocce che continuavano a cadere bagnando il suolo. Pianse assieme al cielo con i ricordi che si facevano strada inesorabili nella sua mente.
... SETTE ANNI PRIMA ...
Quel giorno aveva iniziato a piovere all'improvviso quando lei ed i suoi fratelli erano a giocare in giardino.
Nemmeno la pioggia era riuscita a frenare il loro entusiasmo. Richard aveva undici anni e si impegnava con tutte le sue forze per riuscire a tenere il passo delle due sorelle maggiori. Rebecca aveva quattordici anni e Riley sedici, entrambe si erano accorte che da quando la madre era scomparso il loro fratellino era diventato molto nervoso e tendeva ad isolarsi spesso. L'unico modo in cui riuscivano a distrarlo era giocare assieme a lui e coinvolgerlo il più possibile nelle loro attività.
«Che ne dite, rientriamo?» disse la sorella maggiore tremando.
«No dai, giochiamo ancora! Adesso tocca a me!» il tono supplichevole fece stringere il cuore a Riley.
«Dai Ric, dobbiamo rientrare prima di prenderci un raffreddore» Rebecca gli mise la mano sulla spalla e si diresse verso l'entrata di casa «sta sera giochiamo un po' con la play, che dici?»
Riley guardò i suoi fratelli minori allontanarsi con il cuore stretto in una morsa. Erano passati dieci mesi ormai, e la quotidianità della sua famiglia era sulle sue spalle.
Il padre per tutti quei mesi non aveva fatto altro se non cercare la moglie scomparsa. Aveva provato ovunque: nel bosco al limitare del paese, in tutti i corsi dei fiumi, nei campi e perfino in tutti gli hotel della regione.
Era come se si fosse dissolta nel vuoto, senza lasciare tracce e senza portarsi via nulla. Li aveva lasciati da soli, senza rendersi conto della voragine che avrebbe lasciato all'interno della loro famiglia. Il padre era stato maggiormente colpiti da quella perdita, ritrovandosi a gestire i tre figli da accudire. Sembravano essere la fotocopia della madre: avevano ereditato i suoi stessi riflessi ramati che donavano ai loro volti rosei un calore coinvolgente. Avevano tutti e tre gli occhi nocciola del padre, ma i figli minori avevano le iridi cosparse da delle scaglie dello stesso verde del colore degli occhi della madre.
Sentiva una fitta al cuore ogni volta che li fissava perché non poteva fare a meno di vedere in loro il riflesso di Alice. Quel tormento lo aveva spinto a rincasare sempre più tardi, giorno dopo giorno.
Si sentiva in colpa, ma sapeva che i ragazzi non erano soli. Potevano farsi forza l'un l'altro. Aveva deciso di restare in quella casa solo per l'amore che provava verso di loro ma quell'enorme casa non faceva altro che ricordargli che sua moglie ormai non era più lì ad aspettarlo.
Ogni giorno quella consapevolezza lo faceva rientrare un po' più tardi. Ogni sera aveva una scusa per giustificare il ritardo, ogni sera una menzogna diversa da raccontare alla figlia maggiore che si prendeva cura dei fratelli al posto suo..."
Riley con l'amaro dei ricordi in bocca spense la sigaretta e ne accese una nuova, una rabbia cieca le pervase il corpo. La frustrazione che provava quando ripensava alla tragedia che aveva condizionato la sua vita aveva la forza di distruggerla. Ormai erano passati quasi sette anni da quando sua madre era scomparsa. Con il dorso della mano si asciugò una lacrima mentre il cielo si era fatto cupo.
La pioggia era cessata.
Tutt'ora s'incolpava per il modo in cui aveva lasciato che suo padre annegasse nel suo stesso dolore. Era rimasta a guardarlo mentre pian piano stava andando a picco.
Serrò i pugni conficcandosi le unghie nei palmi. Un calore improvviso le divampò in tutto il corpo mandando in fervore tutto il suo corpo.
Si alzò in piedi, spense la sigaretta nel posacenere e si pulì la divisa con le mani. Fece un respiro profondo consapevole del fatto che ora le conseguenze di tutte quelle pessime decisioni stavano bussando alla porta, ed avevano il volto di Enzo.
Con il fuoco che le scorreva nelle vene decise di rientrare.
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