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Capitolo Uno

«I know you can hear me.»

30 ottobre; 4:25pm

"Lettera I

A Mrs Saville, Inghilterra.

San Pietroburgo, 11 dicembre 17**

Sarai lieta di sapere che nessuna sciagura ha accompagnato l'esordio di un'impresa alla quale hai sempre guardato covando presentimenti tanto sinistri. Sono arrivato qui soltanto ieri, ma prima di ogni altra faccenda mi sono proposto di rassicurare la mia cara sorella intorno alla buona salute di cui godo tuttora e alla crescente fiducia che nutro nel successo della mia missione."

L'adolescente sbuffò, forse per la quinta volta nell'arco di quell'ora, portando gli occhi grigi lontani dalla sua copia di Frankestein, celebre e immortale opera di Mary Shelley. Pubblicato nel 1818, modificato dall'autrice per una seconda edizione e bla bla bla.

Evan, era questo il nome del giovane, non riusciva a immaginare un altro modo altresì noioso di passare quel caldo pomeriggio autunnale.

Odiava leggere, se poi la lettura proposta, poiché di questo si trattava: un mero compito universitario con l'obbiettivo finale un dibattito, portava i capisaldi di un genere gotico, o fantascientifico che fosse, inspiegabilmente era pure peggio.

Non si trattava unicamente di quello specifico romanzo, tutto sommato anzi gli risultava il più godibile, ma di tutti quei racconti su mondi, creature mistiche, magia, mostri e quant'altro. Qualsiasi cosa narrasse di enti astrali al di fuori della realtà oggettiva che viveva ogni giorno, gli risultava incredibilmente noiosa, oltre che infattibile.

Non che disprezzasse chi invece vi credeva, chiaramente, ma le sue opinioni e in seguito gli eventi della sua vita, come anche la storia dell'umanità stessa, avevano prodotto in lui l'unica certezza che non esisteva alcun dio superiore.

Chiuse di scatto il libro e lo lanciò rabbiosamente sul letto, convinto che se avesse continuato con quella linea di pensieri sarebbe irrimediabilmente finito in un girone di lamentele, producendo solo disprezzo e la malinconica certezza che avrebbe volentieri passato quel pomeriggio giocando a basket.

Così, rotolando sul morbido materasso dalle coperte arancioni, recuperò il suo cellulare e si stupì di trovarlo spento, non ricordando di averlo fatto.

Ma non vi badò molto, capitava spesso che dimenticasse particolari o eventi vissuti durante la giornata, e inoltre c'era sempre la possibilità che si fosse spento da solo, dunque si strinse nelle spalle e premette il pulsante di accensione.

Nel frattempo, si trascinò fino al MacBook posto all'angolo opposto al suo precedente di quel letto matrimoniale, aveva lasciato la pagina YouTube aperta con la riproduzione casuale della discografia di una band che aveva scoperto da poco, sembrava producessero perlopiù rock e qualche sfumatura vicina. Lo trovava piuttosto in linea con il suo umore, così cliccò sul "play" e lasciò che la cuffia Bluetooth collegata riproducesse le note aggressive di una canzone rimasta in sospeso.

Ma era accanto al pc che stava il vero oggetto del suo desiderio: un taccuino totalmente nero, anonimo. Lo prese, recuperò una matita e sfogliò le pagine fitte di scritture, scarabocchi infantili, riflessioni o persino poesie, fino a trovarne una libera, su cui iniziò a scrivere ciò che provava riguardo al compito assegnatoli.

Scriveva su un diario da che ne avesse memoria. Ormai da anni soffriva di amnesie e gli capitava frequentemente di avere dei vuoti nei rammenti della sua giornata, quindi aveva preso l'abitudine di scrivere su carta ogni cosa gli capitasse o qualsiasi pensiero passeggero, così da poterlo rileggere ogni sera, ricostruendo un piano più o meno dettagliato.

Sperava di poter tenere il segreto ai molti, poiché non era affatto certo che questo particolare rendesse giustizia alla sua immagine, ma lo aiutava parecchio nella gestione della sua vita, gli dava la certezza di non dimenticare nulla di importante e lo faceva sentire un po' meno un disastro.

Prese il cellulare, che nel frattempo aveva ripreso vita, e compose la sequenza di sblocco. Si sorprese di trovare tre chiamate perse e cinque messaggi, tutti inviati da due sole persone: Dylan e Michael, due persone che considerava tra le più importanti della sua vita.

Dylan era il suo migliore amico, l'aveva conosciuto grazie ad una noiosa lezione di nuoto impostagli dai genitori. Ricordava che tra i bambini annoiati, lì al solo scopo di imparare a nuotare, lui era l'unico dall'espressione davvero interessata, ed era per quello che gli aveva rivolto la parola. Scoprendosi subito in sintonia non c'era voluto molto per fare amicizia, diventando inseparabili in breve tempo.

Lo erano ancora, a distanza di diciassette anni, era la sua persona di riferimento più di chiunque altro, l'unica vera certezza e porto sicuro, con lui sapeva di poter essere se stesso senza filtri e riserve. Situazione un po' diversa invece era per Michael.

Michael era... Michael. Inutile, lo lasciava senza fiato e senza parole ogni volta che lo vedeva. Evan non conosceva l'amore, ma sperava con tutte le sue forze che quel qualcosa che c'era tra loro lo fosse.

L'aveva incontrato il trimestre scorso in uno dei corsi dell'università che frequentava e ne era rimasto stregato fin dal primo istante, da allora si frequentavano. Era poco più basso di lui ed aveva una folta capigliatura rossa, nella quale amava affondare le mani, un temperamento pacato, una mente brillante ed una serie di qualità straordinarie che a volte gli provocavano un senso di soggezione. Era terrorizzato di non essere alla sua altezza, ma ancor di più dall'idea che lui potesse scoprire il suo segreto e rigettarlo, era per questo che si ostinava a nasconderglielo nonostante gli incitamenti di Dylan a fare il contrario. La sola idea di deluderlo e perderlo gli provocava una sensazione di vuoto devastante.

Scosse la testa, per costringersi a non pensare, e lesse velocemente i messaggi: Michael gli aveva chiesto di vedersi e gli aveva proposto una data, mentre Dylan gli imponeva di chiamarlo all'istante, e la cosa lo preoccupò, così avviò in fretta e in furia la chiamata.

Mentre aspettava, durante uno dei classici "tu-tu" da squillo, decise di alzarsi per sgranchirsi le gambe e prese a passeggiare per la stanza. Alternò lo sguardo dai poster di band, cantanti e film cult appesi un po' ovunque, alla libreria ricolma di saggi di letteratura, libri universitari e romanzi di vario genere, fino a soffermarsi dinnanzi alla scrivania disordinata, piena di fogli e post-it, senza osservarla davvero; il suo sguardo puntava fuori dalla finestra, lì sopra posizionata.

Osservava una coppia di bambini giocare a pallone in mezzo alla strada, priva di macchine, mentre il padre di uno, o forse di entrambi, li osservava sorridente. Sentì una morsa al cuore ma non ebbe tempo di rifletterci, dato che la voce profonda e scocciata di Dylan interruppe ogni linea di pensiero che si stava formando.

«Oh, sei vivo» commentò con stizza

«Il telefono era morto, mi dispiace. Che è successo?» chiese preoccupato, l'altro sospirò grevemente prima di parlare.

«Alfred ne ha combinata un'altra delle sue,» qui sentì una voce urlare "non fare il tragico!" e Dylan si prese un secondo di pausa, prima di riprendere con lo stesso tono «vieni da me, ti spiegherò meglio quando arriverai.»

Questo bastò per metterlo sull'attenti, aveva funzionato come codice d'innesco e il messaggio di fondo era piuttosto chiaro: se Alfred avesse tramato qualcosa, quello sarebbe stato incredibilmente problematico per tutti loro.

Lo pregò di non ucciderlo fino al suo arrivo e chiuse la chiamata con un "esco subito". Ben felice di potersi sottrare dai suoi doveri, recuperò la giacca e la copia delle sue chiavi ed uscì dalla stanza.

Scese le scale di fretta e furia, guardandosi attorno per constatare che non ci fosse nessuno, e così era: la casa era completamente vuota. Se non fosse stato per i rumori degli elettrodomestici che aveva vagamente sentito passando davanti la cucina, avrebbe regnato il silenzio.

Ebbe giusto il tempo di fiondarsi verso l'ingresso e posare una mano in avanti per afferrare la maniglia, che il rumore delle chiavi inserite nella toppa precedette l'arrivo di suo padre prima del previsto.

Non se l'era aspettato, e non riuscì in tempo ad infilarsi in qualche stanza per nascondersi, che se lo trovò davanti, in tutta la sua statura e con il peso del suo sguardo che, dopo un attimo di sorpresa, ora lo stava fissando con freddo astio, mista a quella tristezza di cui si riempiva sempre quando lo osservava. Nonostante questo, l'adulto parlò.

«Stai uscendo» non era una domanda.

«Sì, vado da Dylan» si sforzò di sembrare il più tranquillo possibile, come se il semplice fatto che stessero conversando non lo riempisse di gioia e terrore nello stesso istante.

«Gwen è in casa?» chiese allora l'altro, abbandonando la figura del figlio per posare la sua attenzione alternativamente in una zona o nell'altra all'interno delle stanze immediatamente visibili, cercando la ragazza prima ancora di una risposta affermativa o negativa.

Non rispondere, non pensare, ripeteva una voce nella sua testa.

«No, non è tornata a pranzo» qui abbassò lo sguardo, faticando già a sostenere quell'incontro.

Gwen era sua sorella maggiore, ricordava che da piccolo la chiamava Abbie, usando quel suo secondo nome che lei non permetteva a nessuno, lui escluso. Nella loro routine lei tornava a casa per pranzo e cucinava per entrambi, dato che il terrore irrazionale di Evan per qualsiasi fiammella, anche la più piccola, gli impediva di cucinare qualsiasi cosa. Di solito si sedevano assieme a tavola e si scambiavano qualche parola di circostanza, dopo di che ognuno tornava alle proprie occupazioni senza prestare tropo interesse all'altro. A pensarci bene, non era raro che non tornasse per pranzo e usasse scuse come "lavoro", "studio", "l'ho scordato, non ci arrivo".

«Ho capito» fu la risposta di suo padre, prima di sorpassare il figlio e riprendere il suo cammino verso la camera da letto.

Il castano non si mosse, nemmeno per prendere aria, finché non lo sentì chiudersi lì dentro, solo allora riprese a respirare e si concesse di alzare lo sguardo, verso la porta d'ingresso che nel frattempo si era chiusa. Si prese un minuto, appena il tempo per permettere al suo cuore di calmarsi dal battere all'impazzata in quel modo.

Okay, ti ha parlato, ma cercherà sempre Abbie, non illuderti, ricordò a se stesso, più volte, finché non riacquistò la calma. Così, finalmente aprì la porta, uscendo da quella casa con la voglia di non tornarci fino al giorno dopo.

Il cielo era sereno, non una nuvola intaccava quell'enorme distesa azzurra, così accesa da sembrare viva. Attraversò il piccolo giardino, ormai così trascurato che poteva notare molte erbacce sparse in quello che una volta doveva essere uno splendido prato. Inalò parecchia aria fresca prima di uscire dal cancello e mettersi in cammino, lo attendevano tre isolati fino alla casa del suo migliore amico e voleva percorrerli il più in fretta possibile.

***

«Ti dico che è l'idea del secolo!»

«Come fa questa ad essere l'idea del secolo se dieci minuti fa ne hai proposto un'altra con la stessa premessa?!»

Dylan era esausto, semplicemente sfinito. Osservava quei due ragazzi fatti e finiti ed aveva l'impressione di guardare solo due bambini troppo eccitati per parlare normalmente e sul punto costante di litigare.

Si trovavano nel suo salotto. Evan era di fianco a lui, seduto nella poltroncina accanto, con lo sguardo fisso su un punto indefinito nel pavimento, con una delle sue espressioni che ormai aveva coniato con l'appellativo: "non da Evan". Il moro, semplicemente guardandolo, riusciva a figurarsi le rotelle che giravano così velocemente da fumare, quindi aveva preferito non richiamarlo e lasciarlo assimilare le informazioni con calma. Ma allo stesso tempo sperava facesse in fretta, poiché aveva bisogno del suo supporto per gestire la scena che si trovava davanti.

Un ragazzino esile e bassino, dai capelli biondissimi, che rispondeva al nome di Afred, stava discutendo animatamente con un ragazzone alto quasi il doppio di lui, dai capelli rosso fragola. Era Wayne, il suo ragazzo. Era surreale, ma il rosso riusciva a esprimere i pensieri che condivideva con Dylan con un tatto decisamente migliore di quest'ultimo e una minuziosa scelta di parole per confrontarsi con uno che a stento gestiva il suo ciclo di sonno, pasticche e psicologo in maniera quasi decente.

Tutto questo era dovuto ad una folle idea di Alfred, che aveva ben pensato di trascinare tutto il gruppetto in un'adorabile gita all'interno della Sanderson House, proprio nella notte di Halloween. Con la scusa del: "hey, è il mio compleanno! Adoro Halloween! Festeggiamolo assieme in una casa infestata!", il moro era così sconcertato dal riuscire a malapena a collegare tutto.

«Ricapitolando,» si fece sentire, ponendo le mani di fronte a sé, interrompendo la discussione tra i due, ottenendo l'attenzione di tutti «tu vuoi portarci in una delle ville più infestate degli ultimi secoli, luogo architettonicamente instabile e con la tendenza ai crolli, fonte di numerosi crimini, o avvistamenti, se preferisci, con l'intenzione di starci un'intera notte, per lo più in pieno Halloween?»

«Tutto sembra terribile, detto così,» si imbronciò il biondo «si tratta solo di poche ore, non faremo nessun rito a Satana sacrificando animali, alla minima cosa che andrà male saliremo in macchina e torneremo a casa. Ho pensato a tutto, non corriamo nessun pericolo» annunciò entusiasta.

Wayne fece per parlare, ma Evan fu più svelto.

«Perché vuoi vedere dov'è morto Benedict?»

Fu allora che calò il gelo.

Alfred si fermò, perse di colpo il suo entusiasmo al sentire quel nome ed incassò il colpo, fissò intensamente il suo interlocutore, che lo ricambiava con gelida compostezza.

La tensione stava diventando sempre più palpabile e non si stupì, Dylan, quando notò il suo ragazzo abbassare lo sguardo e rifugiarsi accanto a lui, prendendogli d'istinto la mano, come faceva ogni volta che qualche emozione negativa lo investiva. Lui, dal canto suo, si occupò di lanciare un'occhiataccia al castano, non osando però rimproverarlo, lo conosceva fin troppo bene per capire di non dover intervenire in quel nuovo scontro, sperò solo che si ricordasse delle condizioni precarie del suo avversario.

«Non è solo il luogo in cui... Non è quello il motivo.»

«Non è l'unica villa infestata dell'Irlanda.»

«Lo so... Ma voglio vedere quella.»

«Perché, Al? Non solo è lontana, probabilmente dopo quel fatto attira ancor di più gente poco raccomandabile.»

«"Quel fatto", come se ci fossi stato per lui...»

«Alfred

Dylan non riuscì a reprimere un brivido lungo la schiena, dallo spasmo che aveva avuto la mano del suo ragazzo capì che neanche Wayne era tranquillo. Quando si voltò per guardarlo lesse subito l'agitazione, nonostante cercasse di non mostrare il suo disagio, aveva la mascella serrata e gli occhi neri tremavano leggermente mentre li spostava da una figura all'altra.

Come biasimarlo. Evan era rimasto seduto, con le braccia posate sulle ginocchia e la schiena in avanti, ma il tono di voce aveva subito un radicale cambiamento, assumendone uno molto più grave e autoritario. In più, non staccava mai lo sguardo dal biondino, che evidentemente doveva aver capito cosa comportasse quel brusco atteggiamento, perché lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, arrendendosi.

«Quella è speciale, Ben mi ha raccontato la storia, voglio vederla con i miei occhi» ammise infatti con gli occhi puntati sul pavimento.

Il castano allora smise di parlare. Studiò ogni movimento, espressione e respiro dell'altro, finché non sospirò e acconsentì con un "per me va bene", subito dopo si rilassò sulla poltrona, tornando ad un'espressione più tranquilla, seppur distante.

Quello era un particolare bizzarro, rifletté il moro, ed avrebbe voluto assicurarsi all'istante se fosse tutto a posto, ma decise di tenere da parte i suoi dubbi per un momento più opportuno.

Alfred, nel frattempo aveva spostato la sua attenzione nella sua direzione, in una muta supplica. Scambiò un'occhiata con l'uomo al suo fianco, Dylan non era molto convinto e Wayne forse lo era fin troppo, ma quando gli sorrise con quel suo modo di fare, così dolce e gentile, cedette ed acconsentirono in sincrono.

«La prima cosa che non va torniamo qui, e in ogni caso dopo quella sera non vorrò più sentir parlare di quella villa, ne siete tutti troppo ossessionati» volle comunque precisare il moro, già stanco del particolare interesse, che tutti avevano, nei confronti di quella leggenda metropolitana.

«Fantastico!» esultò Alfred «allora, organizziamoci subito. Io mi prenoto per le bevande, voi portate il resto?»

Per la successiva mezz'ora ne seguì un dibattito piuttosto acceso sull'organizzazione interna nelle piccole cose, più volte dovettero bocciare le idee di quello scalmanato biondino, che avrebbe volentieri fatto un rituale per parlare con i defunti nel bel mezzo della notte e che cercava di infilare il materiale per farlo tra le cose che poteva procurarsi.

Alla fine, dopo interminabili compromessi, decisero che Evan avrebbe messo a disposizione la sua macchina ed eventuali giochi da tavolo, nel caso si fossero annoiati. Wayne e Dylan avrebbero pensato ai sacchi a pelo e al cibo, mentre Alfred avrebbe portato le bevande e qualche spuntino.

Una volta concluso il loro programma, il biondo si alzò soddisfatto.

«Benissimo, sono contento di poter passare la mia festa preferita con voi e di poter fare questa gita fuori casa. Adesso però devo scappare, ho un milione di cose da preparare per domani» e annunciato questo, si avviò verso l'ingresso. Dylan lo accompagnò, aprendo per lui la porta e salutandolo con un bacio sulla guancia, dopo di che tornò dagli altri due.

Li trovò già a confabulare e sospirò stanco.

«Va bene, belve, scatenatevi: che ne pensate?» chiese loro.

Si sedette nel divano a tre posti accanto a Wayne e si spinse un po' verso di lui, che capì e non esitò ad allungargli un braccio intorno alle spalle. Evan invece si era alzato e stava in piedi di fronte a loro, ogni tanto faceva qualche passo avanti e indietro.

«Ammetto che l'idea mi piace e se avesse proposto un altro luogo infestato avrei detto subito di sì, ma questo... è rischioso. Non ha ancora concluso l'ultimo ciclo di pillole ed è lì che ha perso il suo migliore amico» spiegò il rosso.

«Credi non riuscirà a sopportarlo?»

«Al è forte. In questi sei mesi ha lavorato duramente per superare tutto. Sappiamo tutti quanto sia stato difficile per lui andare avanti e finalmente ci sta riuscendo. È la prima volta, dopo aprile, che propone qualcosa e si mostra entusiasta di farla» rifletté Evan.

«E se questo lo riportasse dentro l'abisso? Non si esce da una depressione così in fretta.»

«Ma l'hanno seguito attentamente in ogni passo, ogni settimana. È vero che gli è stato proibito vedere la villa, perché si temeva questa ricaduta, ma nemmeno lui ha mai pensato di farlo. Conoscendolo, per arrivare a questa proposta, avrà torturato lo psicologo fino ad avere il permesso di andare con la certezza di non correre rischi.»

«Dylan» lo richiamò Wayne «lo conosci meglio di chiunque altro tra noi, che ne pensi?»

Dylan si prese un paio di minuti, pensieroso.

«Onestamente? Al non è stupido, conosce le sue condizioni meglio di noi e sta cercando in ogni modo di uscirne. Se l'ha proposto, è perché sente che deve affrontarlo, immagino sia una sorta di "passo finale" per voltare pagina» spiegò.

Sentì il rosso stringerlo un po' di più a sé e, quando lo guardò incuriosito, questo gli stampò un dolce bacio sulle labbra, soddisfatto.

«Mi hai convinto,» sorrise «oltretutto abbiamo già acconsentito alla sua idea, tornare indietro adesso sarebbe strano, no? E poi, sono sinceramente curioso riguardo quella casa, ha una storia davvero particolare.»

«Più che particolare, direi confusa» si intromise Evan «ci sono milioni di testimonianze diverse a riguardo, diverse versioni della storia. La gente si è divertita a ricamarci su nel corso dei secoli, ci hanno persino scritto una ninna-nanna. Terrificante, ora che ci penso.»

Risero tutti e tre.

«Mi ero dimenticato della tua ricerca sulle leggende metropolitane, l'anno scorso. Ricordi perché ai tempi scegliesti proprio quella?» gli chiese Dylan

«Come sei riuscito a dimenticartene? Si è lamentato per così tanto tempo che il mio cervello, per protesta, ha smesso di immagazzinare informazioni a riguardo!»

«Divertente, Wayne» lo rimbeccò, indispettito, il castano «in realtà no, comunque» fece una pausa e si accigliò, richiamando a sé i ricordi dell'anno precedente, solo dopo qualche minuto riprese a parlare.

«Ricordo solo la sensazione di essere richiamato da quel posto. Come una specie di istinto primordiale, non sono sicuro di riuscire a spiegarlo, ma è stata l'unica leggenda in grado di affascinarmi davvero. E la vita della piccola Iris Sanderson... è come se fosse simile a me, in certi aspetti la sento vicina, quando mamma è morta ho sperimentato una solitudine così grande che mi sembrava di sentire il peso di tutto il mondo sul petto. Quando penso a lei, immagino facilmente cosa possa aver provato vedendo morire tutta la sua famiglia tra le fiamme. Dev'essere stato terribile.»

I due ragazzi lo ascoltarono, uno apprendendo informazioni e studiandone il volto, l'altro con le lacrime agli occhi. Aspetto che finisse per rispondere, ma quando Evan finì, si rese conto di non avere parole a riguardo, solo un immenso senso di tristezza.

«Ad ogni modo,» decise dunque di cambiare argomento «stasera ceni qui?»

Evan parve cadere dalle nuvole. Si agitò sul posto e si torturò le mani, un po' a disagio.

«Uhm... sì, te ne sarei grato. Mio padre è tornato prima del previsto, Abbie non c'è e non voglio cenare con lui da solo.»

«Non hai fatto nessun progresso con lui?» gli chiese Wayne, con dolcezza. Evan negò con la testa.

«Sento che il solo guardarmi lo disgusta, ma non capisco perché e cosa stia sbagliando. Sono passati anni, ma non è più l'uomo che era prima. In più, non tratta Abbie come fa con me, con lei si ricorda di essere un padre, mentre io sembro un'estraneo.»

Dylan si spostò dalla sua posizione per prendere la mano del castano, carezzandola. Non gli disse nulla, non ce ne fu bisogno.

Furono interrotti dal rumore della porta di casa che si apriva e da una voce femminile che parlava velocemente, quasi in maniera incomprensibile, già dal pianerottolo. Poco dopo, la madre di Dylan, uguale a lui nell'aspetto ma con i capelli neri lunghi fino a metà schiena, apparve nel salotto.

Osservò il terzetto per qualche secondo, inespressiva, poi spostò la sua attenzione sul figlio.

«Potevi dirmi che rimaneva anche Evan, dovrò dire a tuo padre di portare una porzione di carne extra» gli disse, incrociando le braccia al petto, ma la sua voce non aveva alcun tono di rimprovera. Infatti poco dopo sorrise, dichiarando che avrebbero aggiunto un posto a tavola più che volentieri e chiedendo direttamente al castano se preferiva rimanere anche per la notte, dato che era tramontato da un bel pezzo.

E questo sorrise, genuinamente felice, accettando l'invito. Era sempre così, lì dentro: si sarebbe sempre sentito ben voluto e apprezzato, come un figlio.

***

31 ottobre; 6:42am

La flebile luce di una lampadina illuminava artificialmente il tavolo di legno, la sua area di lavoro improvvisata. L'orologio ticchettava incessantemente, producendo in lui il desiderio di romperlo con il primo oggetto a portata di mano, eppure si tratteneva: i suoi genitori dormivano ancora e non poteva rischiare di svegliarli.

Quattro bottigliette d'acqua erano l'una accanto all'altra, come a sfilare di fronte al ragazzo. Poco distante, erano stati posizionati due pacchetti di patatine classiche e una bustina di polvere bianca aperta. Ogni tanto ne prendeva un po' e la versava in una delle bottiglie aperte, ammirando, sempre più incuriosito, come si sciogliesse in acqua e non lasciasse tracce visibili.

Aveva faticato come un matto per procurarsi un po' di quella roba, aveva dovuto chiedere favori a gente con cui non avrebbe voluto avere davvero a che fare e aveva dovuto promettere cose che non avrebbe fatto con allegria, ma ne era valsa la pena.

Gli avevano assicurato che quella bustina di allucinogeni fosse stata lavorata da pochissimo e che avrebbe certamente garantito l'effetto desiderato in poco tempo, ma non aveva capito benissimo quanta dose dovesse diluire per ognuno.

Sperava solo di non esagerare per errore, non voleva rischiare di mettere i suoi "bersagli" in uno stato d'animo negativo. Voleva solo movimentare le cose.

Sì, perché già convincere quegli scettici di Evan e Dylan era stata un'ardua impresa, ma nella remota possibilità che non fosse riuscito a comunicare con qualche spirito, voleva almeno avessero creduto alla loro presenza.

Si era ormai convinto che la scomparsa di Benedict non fosse stata dovuta a qualche misero ubriacone di passaggio, ma ad un disegno troppo complesso, molto più di quanto la sua misera mente umana potesse comprendere. Sì, doveva per forza essere così, non avrebbe mai accettato un'altra versione.

Il problema stava dunque nel convincere gli altri di quella sua teoria. L'unica volta che aveva provato a nominare il fantasma della bambina aveva ricevuto un secco "no" come risposta, mista a teorie scientifiche su teorie scientifiche, un'ondata di nozioni logiche senza capo né coda, che servivano solo a riempire la testa di parole e "funziona così, così e cosà".

«Sì, certo, come no» borbottò a se stesso, adirato, prendendo un pizzico di polvere e buttandolo dentro un'altra bottiglietta, le guardò nell'insieme e giudicò il suo lavoro concluso. Quindi ripulì tutto il più in fretta, ma silenziosamente, possibile e lo infilò dentro un vecchio zaino scolastico.

Avrebbe voluto nascondere la bustina incriminante dentro il suo studio, poiché era l'unica stanza totalmente inaccessibile agli altri membri della casa. Però questo si trovava dall'altro lato della casa e aveva già percepito una serie di rumori sospetti dalla camera dei suoi genitori, segno che iniziavano a muoversi, così si convinse a nasconderla in camera sua.

Camminò in punta di piedi fino ad infilarsi nella stanza, quasi interamente giallo-arancio. Vi girò un po' agitato, non trovando un luogo che ritenesse adatto e infine mise la droga sotto il materasso, ripetendosi che una volta tornato a casa, il giorno dopo, l'avrebbe nascosta meglio.

Era solo una notte, poteva farcela. Si era ripromesso che li avrebbe convinti, a qualsiasi costo.


Note dell'autrice

"No, certo, pubblico il prologo perché ho il capitolo quasi pronto, giusto il tempo di finirlo e revisionarlo e lo pubblico."

Quattro mesi dopo.

Mi dispiace, davvero, ma questo capitolo è stato un parto difficile. Ci sono stati bordelli, una volta ho perso l'intera prima stesura e ho dovuto ricominciarla, gente che entra gente che esce, insomma. Però finalmente è qui, in tutto il suo splendore xD

Parlando di cose più serie: finalmente conosciamo li altri quattro scemi personaggi, personaggi, sì. In realtà li amo da morire, nonostante siano innegabilmente degli idioti. E si cita anche Michael! Non dimenticatevi di lui, ci servirà ancora quel piccolo muffin.

Piccolo Evan, vive la sua vita un trauma alla volta💔, ho preferito concentrarmi su di lui per questo capitolo perché la sua storia è particolarmente intricata, e fondamentale per il continuo di questa long, ma presto verranno fuori anche gli altri.

Quindi vi lascio qui, spero sia valsa la lunga attesa. A presto!

Ymirjeannie.

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