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Stanza 221B

Finalmente il piccolo gruppo giunse alla Baker. Sherlock varcò per primo la soglia della locanda, quasi senza guardarsi intorno, la busta stretta in mano, la mente preda di una grande confusione. Poteva essersi sbagliato?
Ma quella calligrafia era inconfondibile...
-Caro Sherlock!-La voce improvvisa della signora Hudson, che gli era andata incontro, interruppe il flusso dei suoi pensieri.-... E John! Rosie! Caspita, sei più grande ogni volta che...!
-Scusi, signora Hudson, ma adesso non abbiamo tempo per chiacchierare!-la interruppe però lui, brusco. -Ci serve subito la solita stanza.
La donna non sembrò particolarmente stupita o offesa da quel tono: dopo tanti anni, era abituata agli sbalzi d'umore di quell'uomo.

Si affrettò dunque a prendere, da un cassetto dietro al bancone, la chiave di una stanza in particolare, riservata apposta per lui. Sherlock la afferrò, poi le fece un brevissimo ma comunque sincero sorriso.
-La ringrazio. E se fosse anche così gentile da prepararci cinque tazze di tè, le saremmo infinitamente grati...-aggiunse, ben sapendo che la donna non sapeva resistere a quel suo tono lusinghiero. La Hudson, infatti, scosse appena la testa, sorridendo.
-Mhm... va bene. Ma non sono la sua governante personale, giovanotto, se lo ricordi! Ho anche altri clienti da servire, qui!
Ma Sherlock quell'ultima parte del discorso non la sentì: aveva già imboccato le scale che portavano al piano superiore. Gli altri gli andarono subito dietro, sempre più confusi e straniti da quella fretta.
Una volta davanti alla porta della stanza, però, John non potè esimersi dal commentare.
-Ehm... Sherlock... posso chiederti perché tutte le porte delle altre stanze hanno solo il numero, mentre questa ha pure una lettera vicino?
-Mi distinguo dalla massa, John...-rispose il capitano, spiccio, mentre tentava maldestramente di infilare la chiave nella serratura. A quanto pareva, l'effetto dell'oppio non era del tutto svanito.-L'ho modificata personalmente.
Essa, in effetti, si distingueva da tutte le altre: prima di tutto, il legno era stata dipinto di nero, e spiccava sulle altre; inoltre, vi erano state inchiodate delle cifre di bronzo, dorate, e una lettera. La stanza, quindi, era la "221B".
Finalmente, dopo qualche altro tentativo, Sherlock riuscì ad aprirla.

Rosie, una volta varcata la soglia insieme agli altri, rimase stupefatta: era la prima volta che veniva lì; in verità, lo zio non le aveva mai parlato di avere una stanza personale alla Baker, sino a quel momento.
Più che una stanza, pareva una vera e propria abitazione: vi era un piccolo tavolo quadrato, di legno di cedro, al centro, con quattro sedie, una finestra che dava direttamente sul mare, alcune poltrone e un lungo sofà appoggiato a una delle pareti.
Fu una di esse, in particolare, a colpirla: a meno che non si sbagliasse di grosso, era crivellata di colpi.
Si ritrovò a sorridere: a quanto pareva, lo zio non aveva quel vizio solo a casa loro...
Notò, poi, presso la finestra, un leggio di metallo nero, con appoggiati sopra degli spartiti: probabilmente, era lì che Sherlock amava comporre gran parte delle sue melodie.
Vide poi una grande libreria, un caminetto... ovunque volgesse lo sguardo, notava nuovi dettagli.
Avrebbe voluto guardarsi ancora intorno, ma la voce del padre la riportò alla realtà.
Infatti, passato il momento di crisi dovuto al suo salvataggio, questi era ancora palesemente in collera con lo zio. Gli si rivolse dunque con rabbia, mentre lei ed Henry, non sapendo che fare, si erano accomodati sulle poltrone, in attesa.
Cordelia, invece, aveva preso posto su una sedia, tormentandosi le mani, preda dell'agitazione
-Capitano, ora vuoi deciderti a spiegarmi cosa sta succedendo?? E soprattutto, perché non mi hai detto che eri ricaduto in questo stramaledetto vizio??-sibilò, gli occhi stretti.

Sherlock crollò sul divano, senza rispondere, lo sguardo chino sulla busta.
-... È stata adottata, non è vero?-chiese a Cordelia, ignorando completamente le domande poste da John, che alzò le braccia al cielo, esasperato.
Evidentemente, finché il suo capitano non avesse risolto ciò che aveva in mente, non gli avrebbe dato alcuna spiegazione.
La ragazza, intanto, annuì, sorpresa.
-Come ha fatto a...??
-Elementare. Solitamente, un'informazione di questa portata viene resa nota al raggiungimento della maggiore età. E il fatto che mi stesse cercando per "scoprire il mio passato"-parole sue-mi fa dedurre che i suoi genitori non ne siano a conoscenza in alcun modo. Perciò, ovviamente, non possono essere i suoi. Ho dimenticato qualcosa?
Cordelia fece solo un leggero segno di diniego, sopraffatta dalle deduzioni del capitano.
-Perciò, secondo la lettera, io sarei l'unico in grado di aiutarla, signorina...? Mi sembra che Rosie l'abbia chiamata... Cordelia?
-Sì, esatto. I miei genitori-adottivi, come ha giustamente intuito-mi hanno raccontato che è stata l'unica richiesta di mia madre naturale.

Sherlock aggrottò la fronte, e con un gesto della mano la invitò a proseguire.
-Venni abbandonata davanti alla porta di un convento a Nassau-spiegò la ragazza, giocherellando assorta con un medaglione che portava al collo.-La suora che mi ha trovato ha detto che nella cesta c'era una copertina con sopra ricamato, per l'appunto, il mio nome. In più, c'era un biglietto dove si chiedeva che venissi affidata ad una buona famiglia e che mi venisse dato questo nome. Se guarda, nella busta c'è anche quel biglietto.
Stette un momento in silenzio, attorcigliandosi una ciocca di capelli intorno a un dito.
-Nella lettera viene citato anche il nome di un uomo, affermando che costui è mio padre. Ma per quanto abbia nell'ultima settimana cercato informazioni su di lui, non sono approdata a nulla. Alla fine, sebbene i miei genitori adottivi non ne fossero del tutto convinti, ho deciso di partire alla ricerca dell'unico uomo che, secondo la lettera, poteva aiutarmi. Lei.

Sherlock, durante tutto il discorso della ragazza, era rimasto in silenzio, le mani a piramide sotto al mento, gli occhi chiusi, la lettera ora posata sul tavolo, ancora sigillata.
-Lei sapeva che il suo nome è lo stesso della figlia del re Lir, divinità del mare irlandese?-le chiese improvvisamente, gli occhi nuovamente aperti.
Cordelia, sorpresa, scosse la testa.
-... No, non lo sapevo.
John e gli altri aggrottarono la fronte, non capendo il senso di quell'affermazione.
-Credo di sapere chi sia sua madre. E anche suo padre, molto probabilmente. Ma, per averne la certezza, devo leggere la lettera.
La ragazza annuì.
John si avvicinò al suo capitano, mentre la apriva e la stendeva davanti a sè.

La lessero entrambi in silenzio, finché John non emise un respiro strozzato, portandosi poi una mano nei capelli.
-Non è possibile...-mormorò, lanciando di sottecchi un'occhiata a Cordelia.
-Non probabile, John... Non "impossibile"...-lo corresse Sherlock, ma senza la consueta ironia.
La ragazza, a quel punto, si decise a parlare.
-Sentite, è evidente che a voi il nome di mio padre è familiare. O lo conoscete, quantomeno. Allora perché io non sono riuscita a scoprire nulla, su di lui?
Sherlock si voltò a guardarla, in volto una strana espressione. Quasi... dispiaciuta.
-Perché negli anni si è cercato di cancellare la sua stessa esistenza da qualsiasi documento, signorina. Questo a causa di certi particolari e terribili crimini di cui si è macchiato: troppo lunghi ed efferati per essere raccontati in una sola volta.

Tirò un piccolo respiro.
-Perchè il nome di suo padre è James Moriarty...

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