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Nel vuoto non c'è traccia


Il mattino dopo non avevamo più certezze su chi eravamo: non saremmo riusciti a trovare nessuna differenza tanto eravamo uguali. Occhi vuoti, polpastrelli irrigiditi dal freddo, la bocca riarsa sulla voragine nera della fame. La nostra pelle era un cencio contenente poche ossa fragili e gengive dolenti.

Quando aprii gli occhi Biancospino si era già alzato. Indossava una maglietta nera e si aggirava per la casa inseguito da Rio, unica nota allegra dell'intero appartamento, che si divertiva a elencare i nomi dei cibi che gli piacevano di più. Rimasi a osservarli una decina di minuti prima di convincermi a vedere le vicende della notte come una specie di "sogno lucido", una visione interattiva stimolata dalla droga.

Una volta tutti svegli decidemmo ordinatamente i turni per la doccia, dando precedenza assoluta a Simona. Il suo lavoro le richiedeva di essere impeccabile e, anche se al Cordoba chiudevano un occhio su piercing e tatuaggi, non le avrebbero concesso di presentarsi sporca o stropicciata.

Subito dopo di lei venne il turno di Rio: era il più piccolo e meritava di essere pulito, almeno nei momenti in cui poteva farlo. Io attendevo in silenzio, occupando il posto del divano che Rio aveva lasciato libero.

Stavo appuntando alcune interessanti visioni della notte e riguardando le poche righe incomprensibili scritte tra un viaggio mentale e l'altro. Mi rendevo conto che il novanta percento di ciò che scrivevo era pura spazzatura, parole e carta straccia buone solo per la differenziata, ma narrare affermava qualcosa di superiore, in me, qualcosa di migliore persino del sesso.

Quando scrivevo ero Dio, un essere onnipotente capace di dare vita a ogni cosa. E quando diventavo Dio avevo la tendenza a estraniarmi, a rinchiudermi in mondi di silenzio in cui ignoravo tutto e tutti. Per questo non mi resi conto dell'arrivo di Simona.

– Cos'è questo? - Esclamò.

– Non lo so. – Risposi, allungando la mano.

– È la tua scrittura? Eh? È la tua cazzo di scrittura?

Guardai. Si, era la mia.

– Ma che cazzo ti dice il cervello?

Non capivo, ma mi resi conto che in quel momento non serviva capire, solo ascoltare attentamente e cercare di arginare il danno, in qualche maniera.

– Piantala di fare casino! - Intervenne il Nero. - Ti sembra il caso?

– Un cazzo! Lo sai cosa ha fatto 'sto depravato? Ci ha spiato e ha scritto tutto, il maiale!

Il Nero si rigirò il foglio tra le mani leggendo appena, distrattamente, qualche riga.

– E tu giustificati, almeno, cazzo! - Continuò, rivolgendosi a me.

Giustificarmi? Ma quale giustificazione. Tutta la narrativa del mondo non mi avrebbe aiutato a trovarne mezza.

La letteratura ti riempie di balle. La letteratura è fatta di balle. Balle su balle su balle. Balle utili e inutili che tentano disperatamente di dare un senso al mondo, al sottile peso del vivere.

Avevo imparato a rifugiarmi lì, nei momenti di difficoltà, tra le pagine di un libro o stendendomi, nero su bianco, sul primo foglio che capitava.

Nell'illusione di voler essere migliore mi ero costruito addosso una trappola, un piccolo castello fatto di carta nel quale rifugiarmi, quando le paranoie sfioravano il cielo. E mi facevano tremare.

– Allora? Ti decidi a rispondermi? Hai proprio bisogno di scrivere anche questo, maledetto cazzone?

Comprendevo la rabbia di Simona, ma le parole non venivano. La guardavo con le labbra asciutte, tremanti. Ero arrivato troppo oltre? Non avrei saputo rispondere. Non sapevo neppure di aver scritto quella roba.

– Vorrei che avessi almeno rispetto per le persone che ti circondano, Cristo!

Ed era vero, forse non li rispettavo. Forse non rispettavo veramente nessuno. Vedevo le persone come personaggi e il mondo come parole. Tutto, in qualche modo, aveva preso la stessa consistenza della carta. Tutti erano diventati storie, personaggi che si muovono in eventi lontani da me.

L'illusione di saper raccontare mi aveva trasformato in una sorta di sociopatico mostro divino.

– Non l'ho fatto... - provai. Ma non dissi nulla. Non avevo una vera giustificazione. E poi quale giustificazione avrebbe mai scusato quella distorta visione che mi ero fatto del mondo?

Dopotutto ero solo un visitatore, nella loro vita, affetto dagli stessi mali ma differente da tutti loro. Prima o poi me ne sarei andato, li avrei abbandonati inseguendo altre strade, altri fatti e eventi, altri personaggi. Ben presto mi avrebbero dimenticato, un capitolo chiuso tra una storia di droga e l'altra.

– Per Dio, Simona, ne stai montando una tragedia nazionale! - Intervenne il Nero accartocciando il foglietto. - È solo un foglio di carta con su scritte quattro stronzate incomprensibili.

– A me sembra una descrizione più che dettagliata. – Ribatté, furiosa. - Pensa a quello e pensa a cosa tiene nascosto lì dentro. – Disse, indicando il mio diario.

Il Nero mi guardò per un lungo istante. Vedevo nei suoi occhi il disagio per quella situazione ma, ancora più chiaro, era il suo dispiacere per ciò che stava succedendo. Credo fosse profondamente convinto dell'innocenza delle mie azioni e che addirittura le comprendesse, in qualche misura, eppure mi sentivo sporco anche per quel suo sguardo, come se rappresentasse una specie di accusa, ma non mi rendevo conto che ero solo io a accusare me stesso. - Avanti, Simona, sono solo quattro parole, non possono fare male a nessuno.

– Allora la prossima volta dagli una macchina fotografica! Magari ti va di culo e finiamo su internet! - Tuonò dirigendosi alla porta.

Il Nero provò a dire qualcosa ma Simona lo zittì prontamente con un "Fanculo!" sibilato a mezz'aria, prima che la porta, sbattendo, portasse un silenzio glaciale nella stanza.

Rio era sulla soglia del bagno, l'asciugamano stretto in vita e i capelli bagnati. Il Nero lo guardò.

– Le passerà?

– Le è già passata, solo che aveva bisogno di sfogarsi. – Rispose Rio. - Biancospino, mi dai una mano a asciugarmi i capelli?

Biancospino annuì e lo raggiunse in bagno lasciandomi solo con il Nero.

– Mi dispiace. – Tentai di scusarmi.

Il Nero scrollò la testa. - Non preoccuparti, non è colpa tua, è un periodo in cui s'incendia per ogni cosa: le passerà. Ora ho solo un gran mal di testa – disse, tornando al divano. - Ho bisogno di crack – sussurrò.

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