L'epoca delle manifestazioni studentesche
Usciti da casa di Biancospino formavamo una bella comitiva: un accattone, un ragazzino, un pugile e uno scrittore fallito. Non c'era da sorprendersi che, di fronte a una compagnia del genere, la gente si sentisse in diritto di squadrarci inorridita.
A vestiti scarseggiavamo: terminata la roba pulita ci eravamo adattati al guardaroba di Biancospino. Vestiti immensi, per noi, che diventavano addirittura mastodontici per il piccolo Rio, costretto a infilarsi una felpa che gli arrivava alle ginocchia e un vecchio paio di pantaloni da sostenere per la cintura.
– Troveremo dei vestiti della tua misura. – Lo rassicurava il Nero, di tanto in tanto, con un tono di voce a metà tra il dispiacere e lo scherno.
– Tanto lo so che vi state divertendo a guardarmi. – Protestava Rio, sfoggiando un sorrisetto ironico e compiaciuto.
– Questa volta hai la precedenza tu! – Lo consolava Biancospino.
– Vorrei ben vedere! - Protestava. - Ho la taglia più piccola, ci mancherebbe che mi fregaste anche la roba migliore!
– Già, te lo immagini Biancospino con una tua maglietta?
E poi scoppiavano a ridere, tutti e tre insieme, consanguinei di strada come io non sarei mai potuto essere. A me bastava guardarli, strappando un po' della loro felicità per farla mia, tentando di capire dove trovassero la forza di sorridere ogni giorno in faccia a una vita che gli ha voluto così male.
Stavamo andando alla Caritas, l'unico posto in cui recuperare qualche vestito pulito e scroccare il giusto per sopravvivere. Ci accolsero bene, trattando Rio con il solito occhio di riguardo. Lo rivestirono con tanta cura da rimandarlo in strada con l'aspetto di un ragazzino borghese.
Anche io e il Nero ce la cavammo bene. Solo Biancospino rifiutò i vestiti della Caritas, disse di non averne bisogno, ma sapevamo che non era così. Ci aiutò comunque a impacchettare tutta la roba e si offrì volentieri di portare le cose più pesanti.
– Siete troppo smilzi, voi tre – disse, caricandosi le scatole sulle spalle. Marciava in testa a tutti, sempre affiancato dal piccolo Rio, come il gigante buono di un libro che avevo letto da bambino.
Il Nero non sembrava infastidito da quel comportamento, non era geloso del loro rapporto fraterno, anzi, sembrava quasi alleviato da un peso. Il ruolo di genitore non è mai facile, figurarsi a quell'età in quella condizione.
In giro avevo sentito dire che il Nero si era presentato in quartiere così, un giorno, bussando alla porta del convento di via Cernaia con questo fagottino di tre anni tra le mani. Ne aveva dodici, all'epoca.
Si capì subito che i due non erano fratelli, benché entrambi smilzi e ossuti era chiaro a tutti che Rio non avrebbe mai raggiunto le vette del fratello. Rio era quasi albino, occhi azzurri, capelli cenere e una carnagione pallida, quasi malaticcia, l'esatto opposto del Nero, mediterraneo fino in fondo, occhi nocciola, scuro di capelli così come di carnagione e, anche d'inverno, sembrava non perdere mai l'abbronzatura. Due opposti con l'unico legame di essere cresciuti insieme.
Provai a immaginare quei nove anni di difficoltà, quei nove anni a crescere per forza. Capivo il Nero, lo comprendevo in ogni sua stanchezza.
Biancospino, nel ruolo di padre part-time, ci si trovava bene. Sembrava tagliato apposta, per quella parte. Nonostante i lineamenti duri e le spalle alte e massicce, era capace di gesti così dolci e cordiali da riuscire a far dimenticare il suo passato violento. "Con Rio è un'altra persona" aveva commentato, una volta, Elena. "Non so cosa gli faccia quel bambino ma sembra un raggio di sole, nella vita di quel tipo".
"Maghetto", lo chiamava, di tanto in tanto. "Maghetto". E un po' poteva essere scambiato, per un mago, il piccolo Rio, con quei suoi lunghi silenzi e gli occhi che sembravano vedere sempre lontano. Ma era solo un ragazzino e quell'aria trasognante era la maschera con la quale cancellava i dolori della crescita.
Iniziammo a incontrare le prime, rade pattuglie di carabinieri avvicinandoci a via Marconi.
Una fila di volanti inseguiva il centro città, mentre le macchine sembravano volerlo abbandonare. I passanti si facevano via via più radi e, alla folla di pensionati e casalinghe, si sostituivano disordinate comitive di adolescenti con zaini colorati e vestiti firmati. Realtà nuove, realtà che nessuno di noi sembrava poter ricordare.
Eravamo ancorati in quell'età incerta, in quello schifo, come se con quell'identità ci fossimo nati. Adolescenza, infanzia, giovinezza, maturità. Erano tutti passaggi persi, un percorso spianato da lsd e tristezza, cammini congelati da quell'inverno che ci portavamo dentro. Ma forse questo era solo il nostro destino, quello dei nati d'inverno: vivere con il cuore sommerso dalla malinconia della neve.
Prima ancora che ce ne rendessimo conto ci finimmo in mezzo, paralizzati come gatti abbagliati da un'auto in corsa, colti da un terrore che non conoscevamo, che non avremmo saputo definire.
Ci eravamo barricati dietro una muraglia di oppiacei e cemento armato illudendoci che quello fosse l'unico modo per lenire la paura, per cancellare l'angoscia di una vita di stenti, di un percorso di dolore e fatica incapace di portare alcuna gloria.
Qualcuno, in passato, doveva aver spiegato la stessa cosa a ciascuno di noi. Qualcuno, in passato, doveva averci detto di non gareggiare, di non sognare alcuna gloria, alcun successo.
E noi zitti, ubbidienti, abbassando la testa lungo la salita del tempo, avevamo finito per fermarci, per lasciar passare gli altri, permettendo a tutti di precederci. Consumavamo il tempo ingoiando l'ennesima dose, illudendoci che avrebbe lenito qualcosa, riempiendo il vuoto e cancellando i sogni. Hashis, cocaina, crack, colla da calzolaio. Qualsiasi cosa andava bene. Ogni dose era un colpo inferto al vuoto. A ogni colpo ci riposavamo nell'assenza di dolore, nell'inconsapevolezza di non aver futuro.
Poco alla volta abbiamo preso a disinteressarci di ogni cosa, la vita reale non ci apparteneva più, alla lenta agonia dei contratti a ore avevamo sostituito la disperata ricerca della prossima dose, del prossimo oblio.
Chiudevamo ogni giorno in un gorgo nero che ci rendeva inesorabilmente vuoti, come bambole di cartone, privati di ciò che ci rendeva vivi.
Ed eccolo arrivare all'improvviso, forte come la realtà: un cordone compatto che scandiva slogan, gridava libertà, agitava cartelloni e bandiere. Una marea lenta e inesorabile che inghiottiva i chioschi dei giornali, scavalcava le auto parcheggiate e assorbiva i passanti. Una camionetta bianca ci superò a poca distanza dal corteo, mentre uno dei giovani che lo guidava mi fece cenno di seguirli. Osservai attentamente lo sguardo degli altri: Rio era quello più spaventato, ma tutti avevamo paura.
– Che facciamo? - Lessi sulle labbra di Biancospino.
– Andiamocene! - Esclamò il Nero, attraversando la strada .
Senza pensarci lo seguii, spinto da una specie di panico cieco che attutiva ogni suono. Mi sembrava di fuggire da un campo di battaglia, di subire lo spostamento d'aria delle granate e il sibilo dei proiettili. Ma erano solo voci e musica di qualcuno che aveva ancora il coraggio di lottare.
Fu solo vicino al vecchio ponte che rallentammo. Rio era sconvolto, stringeva i pantaloni di Biancospino come fossero l'unica ancora di salvezza. Avrei voluto dirgli che tutto era finito, che ora era al sicuro, ma non avevo idea né di ciò che era iniziato né di che genere di pericolo avessimo corso. Ci eravamo mossi come topi, spinti da una paura irrazionale che, ora, stavamo affrontando tutti insieme.
Guardai il profilo del vecchio ponte stagliarsi sul fiume e sulla città. A quell'ora del pomeriggio la strada era deserta e neppure un passante varcava la sua lenta gobba. Ricordai l'epoca in cui conobbi Elena, quel febbraio gelido, immerso in una quiete senza tempo e mi rifugiai lì, in quell'autunno di foglie secche e di piedi trascinati lungo le sponde del fiume, tra Cordoba e Pamplona.
Il viale sovrastava le imbarcazioni, intente a dondolare sotto il cielo nuvoloso, mentre un tempo freddo e angusto scandiva uno zaino pieno di momenti che non dimenticherò mai.
Elena si distingueva dagli altri per la sua grande cartellina da disegno e un cappellino colorato. Amava la vita e sorrideva sempre, eppure aveva già preso a appassire, lentamente, come se il tramonto dei suoi diciassette anni la trovasse in qualche modo stanca di vivere.
Guardavamo malinconicamente la città insieme, respirando la sua aria frizzante, mentre la luce sanguinava dietro l'orizzonte, discutendo dei romanzi di Pascal o delle fantasie di Magritte. Mentre gli altri studiavano per la maturità, noi rimanevamo nascosti a leggere, nel mio garage. E quando i camion, sullo svincolo sud, facevano così rumore da non lasciarci pensare, lei apriva la sua cartellina e prendeva a mostrarmi i suoi disegni, uno dopo l'altro.
"E questo chi è?" Avevo domandato.
"Sonica." Aveva risposto.
Rividi quel disegno una sola volta, mentre scivolava lentamente tra le lacrime di Elena che, furiosa, scagliava i suoi disegni giù dal vecchio ponte.
Istintivamente guardai il cielo, riflesso nel letto del fiume. Tutto era calmo, ora, eppure non mi sembrava passato neppure un secondo, da quel giorno.
Vedevo ancora le sue dita macchiate di grafite allungarsi verso le mie, i suoi occhi verdi restringersi nella luce del pomeriggio e i suoi capelli lunghi perdersi in una brezza di muschio bianco e polvere.
"Tu odori di inchiostro" sorrideva, avvicinandosi a me.
"È normale, voglio fare lo scrittore" rispondevo.
Ero sempre stato un maestro nel lasciar andare il meglio a rotoli.
Di tanto in tanto mi baciava su una guancia; lo faceva di rado, quasi con timidezza. E io la amavo così tanto da non riuscire a amarla.
Legavo quei luoghi solo a lei, alle sue membra distese su una panchina, lungo il fiume, in una notte d'inverno quando, ubriachi, stavamo cercando di andare all'Intercambio 39. Oppure al giorno in cui mi trascinò, ridendo, sul ponte della stazione domandandomi, per scherzo, se mi sarei mai buttato nel fiume con lei.
– Magari sei solo tu a credere di essere fatta male – le avevo detto.
– Magari sei solo tu a credere di essere fatto bene.
– Forse – avevo risposto.
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