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I lunghi silenzi dei conducenti di tram

Era il nostro odore, più di tutto, a infastidirli, quel puzzo che la televisione non lascia trasparire.

Noi eravamo la prova concreta che esiste un mondo, infilato tra i silenzi delle pubblicità, che vive e respira, nonostante tutto. Noi eravamo l'eccezione visibile, la crepa nella realtà, il segnale che qualcosa stava cambiando, che doveva cambiare, che gli occhi non possono restare chiusi per sempre.

Forse ci crogiolavamo un po' nel nostro ruolo di disagio giovanile. Dopotutto, cercate di capirci, era l'unica cosa di cui potevamo fare sfoggio.

Respiravamo lentamente, guardando lo scorrere della strada umida, un incrocio dopo l'altro, fermi in piedi alla testa del tram.

Il conducente guidava con calma, mentre un'anziana signora gli domandava se quello fosse il tram giusto per via Cormano. Gli altri si limitavano a fissarci, qualcuno commentando la presenza di Rio, visibilmente troppo piccolo per frequentare gente sporca come noi.

Il Nero aveva imparato a non darci peso, si limitava a osservare il suo orizzonte lontano, stringendo Rio per proteggerlo dagli scossoni. Solo Simona sembrava sentirsi a disagio sotto la morsa di quegli sguardi.

Trovammo Biancospino a attenderci alla fermata, la sua mole enorme torreggiava sulla gente garantendogli un buon numero di sguardi spaventati e diffidenti.

Rio si fiondò verso di lui, aggrappandosi al suo petto muscoloso, per lasciarsi scaraventare in aria senza fatica sotto lo sguardo spaventato di un'anziana signora dai capelli bianchissimi.

Biancospino sorrise: - allora, come sta il mio maghetto preferito?

- Benissimissimooooooooo! - Urlò Rio ridendo di gioia.

- Ed è contento, il mio maghetto, di venire a vivere con il vecchio Biancospino?

- Sììììììììììì!!!

Biancospino lo posò a terra che la sua fronte era imperlata di sudore.

- Mi insegni qualche altra mossa di pugilato? - Domandò Rio, mettendosi in guardia.

- Magari dopo cena – sorrise Biancospino.

- Vedete di non farvi del male come l'altra volta – commentò il Nero. - Che si dice, Bianco? - Allungò la mano.

Biancospino lo salutò con un colpo ben calibrato: - Niente di che, ho preso un'altra inculata.

- Grossa?

- Quanto basta – sorrise Biancospino. - Sono cose che capitano.

- Sono sempre cose che capitano – sorrisi. - Ti ha beccato con una puttana?

- Si è fatta il figlio del suo titolare e si è resa conto che il figlio di un imprenditore, per quanto piccolo, vale di più del un figlio di un cane.

Il Nero lo guardò: - Hai ragione, sono cose che capitano.

Biancospino viveva in periferia, aveva affittato un decadente monolocale in nero al secondo piano di una palazzina anni settanta. L'appartamento era composto di una stanza principale e un bagno microscopico. Al centro della stanza c'era un divano, di fronte al quale era stato posizionato un tavolino di legno che, ora, giaceva ricoperto di cartacce. A destra dell'ingresso c'era una piccola cucina intasata di pentole e piatti sporchi mentre, dall'altra parte della stanza, un materasso buttato a terra doveva fungere da letto.

Tra le buste di carta dei fast food e le ciotole di alluminio dei ristoranti cinesi, trionfava una pila di cartoni della pizza alta quanto il piccolo Rio, se non qualche centimetro in più, in cima alla quale era stato depositato un bicchiere di cola ancora mezzo pieno. Biancospino l'aveva ribattezzato "il colosso" , attribuendogli il titolo di nona meraviglia del mondo.

- La merda – la battezzò il  Nero sentendo quella spiegazione.

Rio si era limitato a ridere e Biancospino lo aveva subito imitato.

Da ottimo padrone di casa ci invitò a accomodarci dove potevamo, ma Rio fu l'unico a sedersi accanto a lui, sul divano. Il Nero poggiò la schiena sull'unico termosifone della stanza e fece posto a Simona, accanto a lui. Io mi misi in disparte, su uno sgabello, accanto al tavolino.

- Hai qualche novità tra le mani? - Domandò il Nero.

- Qualcosina che vi piacerà – ridacchiò. - Era da un po' che non la trovavo buona così. Non è tanta ma dovrebbe bastare.

Biancospino aprì la scatola da scarpe e estrasse un paio di bustine. Erba e cocaina, abbastanza per una notte di montagne russe.

Il Nero scrollò le spalle: - Non è il crack ma può andare...

- Per me va benissimo – disse Simona inginocchiandosi accanto a Rio, sul bordo del tavolo.

Io mi limitai a accendermi una sigaretta: Biancospino mi conosceva abbastanza da sapere già la mia risposta. Non ero ansioso come gli altri ma ero sicuramente il più interessato.

In quel momento stavo pensando ossessivamente a Elena, ancora a casa di Spinone a sorbirsi le sue morali di cartongesso. Chili e chili di ottima filosofia che non trovava nessuna applicazione in questo genere di vita. Un po' la compativo, così offuscata dalle bugie di quel mondo, così confusa. Eppure l'idea di saperla lì, in quel momento, mi incendiava il sangue.

Tutti i ricordi del mio passato, di quel prima che era la normalità, li legavo a lei, Elena, e a quel sentimento profondo che mi scuoteva al solo pensarla.

Biancospino frantumò e stese cinque righe sul tavolo ma lasciò a Rio il piacere di iniziare. Tirò subito dopo di lui e passò il cd sporco di polvere a Simona, la quale lo diede al Nero e infine a me, mentre Biancospino e il Nrto prendevano a rollare un paio di canne d'erba. Senza parlare.

Fumavamo e tiravamo. Tiravamo e fumavamo. Dopo ogni eccitazione arrivava la calma, dopo ogni calma altra eccitazione. Ci mantenevamo stabili così, strappando il silenzio ai pensieri e facendo il vuoto attorno a ogni sentimento.

Volevamo accanirci con chi ci aveva strappato il cuore, tappato gli occhi e violentato l'anima. Ma l'unica cosa sensata che riuscivamo a fare era solo accanirci su noi stessi.

Ci pugnalavamo in quelle stanze vuote, sorprendendoci di quanto fosse rosso il sangue che vomitavamo in grosse chiazze, tra i giornalini porno impolverati e gli avanzi del mcdonald. Lo facevamo per sentirci migliori, per superare quel dolore che ci soffocava a ogni istante di lucidità. Volevamo sapere chi eravamo, dove andavamo, quando e come avremmo potuto trovare un posto al mondo, ma non sapevamo a chi domandare. Chi incolpare per quel nostro fallimento.

Sapevamo che in tutto ciò non avremmo trovato risposte, eppure ci nascondevamo in quel torpore, esplorandolo, autolesionisti di professione, nel tentativo di sbrogliare quella matassa che ci intrappolava nel presente. Ci impolveravamo la faccia e poi fumavamo, senza sosta, per ore.

Non eravamo persone, non eravamo una generazione, non eravamo niente. Eravamo i soli, gli esclusi, gli orfani del purgatorio. Senza madri, senza padri, senza fratelli e sorelle, cani slegati nelle praterie della vita che hanno ribattezzato verità ciò che invece non è altro che solitudine.

Biancospino si alzò dal divano senza dire una parola, abbandonando il piccolo Rio in un sogno chimico che gli faceva sussultare le labbra. Io scrivevo, come al solito, mentre il Nero e Simona facevano l'amore, in silenzio.

Mi addormentai con la penna in mano, senza preoccuparmi per l'assenza di Biancospino, e mi risvegliai a notte fonda.

Biancospino era ancora in bagno. Il neon dello specchio sibilava debolmente, nel silenzio del piccolo appartamento addormentato, e i rumori del traffico, fuori, erano così attutiti da sembrar parte di un mondo a sé.

Sentivo solo il battito del mio cuore, nelle orecchie, mentre un passo dopo l'altro mi avvicinavo alla soglia del bagno.

Biancospino stringeva ancora la lametta tra le dita mentre il sangue, grondandogli dal petto, gli macchiava la cintura dei pantaloni. Si era addormentato sul water, congelato in una posa scomposta. Il braccio sinistro gli pendeva di lato mentre il destro, imbrattato di sangue fino al gomito, era poggiato sulle gambe. La testa era caduta a sinistra, e poi indietro, sino a poggiare contro le mattonelle azzurre del bagno.

Pensai che probabilmente aveva pianto. Di sicuro non aveva sentito dolore.

Ogni persona possiede questo istinto, questo odio profondo che lo porta a uccidersi lentamente, un giorno alla volta. Solo che qualcuno riesce a sfuggirvi, a trovare un rifugio da qualche parte, lontano, tra le pareti di una felicità che noi non avremmo mai conosciuto. Anche se a volte capita di trovarla, questa felicità. Ma sono parentesi di pochi mesi, brevi libere uscite che si concludono sempre così, tornati al punto di partenza, a morire e sanguinare come abbiamo sempre fatto.

- È tanto grave? - Mi sussurrò Rio comparendo da dietro al divano.

- Che cosa? - Domandai, cercando di fare finta di niente.

Guardai Rio per un lungo istante, con aria interrogativa. - Biancospino – continuò. - Sanguina molto?

Mi volsi nuovamente verso Biancospino. Sicuramente non era la prima notte che faceva una cosa del genere.

- Abbastanza.

- Ogni persona possiede questi istinti. – Mi disse Rio, avvicinandosi. Aveva ancora gli occhi pieni di sonno e se li sfregava a ogni passo, come se tentasse ulteriormente di svegliarsi, ma più si avvicinava e più riconoscevo quel profilo adulto che avevo intravisto al Cordoba. - È una forma di odio profondo che lo porta a uccidersi lentamente, un giorno alla volta. In questo, qui, siamo tutti uguali, speriamo sempre di sfuggire al nostro dolore, a questa mania folle di autodistruggerci. E a volte a qualcuno capita pure di trovarla, questa via di fuga, ma sono parentesi di pochi mesi, brevi libere uscite che si concludono sempre così, tornati al punto di partenza, a morire e sanguinare come abbiamo sempre fatto.

In quel momento dubitai nuovamente della mia sanità mentale: Rio aveva di nuovo azzeccato la precisa dinamica di un mio pensiero, ma prima di chiedergli chi o che cosa fosse per poter fare questo gli domandai qualcosa che avrei voluto domandare a me stesso. - Era questo che significava Katia, per lui?

Rio mi guardò per un lungo istante e nei suoi occhi vidi una distesa di pensieri tanto grande da farmi rabbrividire. - Ne troviamo tutti qualcuna, prima o poi... - Rispose. - Per te era Elena, per lui Katia, ma alla fine ci riduciamo sempre così: soli. È questa la cosa che fa più schifo del diventare adulti, no?

Tornai a guardare il corpo sanguinante di Biancospino. - Penso proprio di sì... - Risposi.

Il mio cesso era diventata la strada mentre la mia lametta era una pipa di vetro, ma non mi sentivo differente da quel gigante ferito.

- Mamma mia! - Esclamò Rio. - Che pasticcio!

Guardai Rio. Il suo sguardo era tornato al solito azzurro ingenuo e infantile.

- Ti sarai fatto tanto male, povero Bianco – disse entrando in bagno.

- Ti do una mano? - Domandai.

Rio si volse e mi guardò pensieroso: - Non credo che Biancospino sarebbe contento, a lui lo mettono sempre in imbarazzo queste cose – sorrise. - Vai a dormire, non è successo niente di grave.

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