I coleotteri sono migrati nella zona industriale
Alla televisione non davano niente di interessante. Solo noiosi rotocalchi, telenovelas svedesi e il retrogusto amaro di certi programmi scandalistici.
Per spezzare la monotonia non ci restava che aggrapparci agli elementi del termosifone e guardare dalla finestra, fuori, gli edifici dell'area artigianale inzupparsi di pioggia.
I più furbi di noi intorpidivano il cervello fumando, alcuni giocavano a scacchi o a carte, come attendendo qualcosa.
Mentre gli altri crescevano, frequentando l'università, noi ci trinceravamo nella nostra guerra fredda, sorvegliando un forte solitario, nell'attesa di qualcosa che non sarebbe arrivato mai.
Eravamo rimasti invischiati nella trappola del crescere, in un labirinto temporale dal quale non saremmo usciti che a pezzi. Volevamo credere che le cose importanti fossero rimaste, che la fine dell'adolescenza non ci avrebbe dissolti nel nulla.
Sentivamo il bisogno di inseguire i nostri misteri irrisolti, di scappare, forse, da questa realtà che aveva preso a starci scomoda. Ci rendevamo conto che il mondo non era solo denaro e piacere carnale, c'era qualcosa di più elevato, qualcosa di superiore.
Sapevamo tutto senza riuscire a uscirne, ostinandoci a non capire quale fosse la parte mancante dal renderci completi. Non avevamo stimoli, nessun obiettivo che ci portasse al niente: un lavoro fisso, una bella macchina, il Grande Fratello.
Non riuscivamo. Eravamo uno sputo sulla normalità, un fallimento genetico nella struttura sociale. Anche se, forse, a pensarci bene, eravamo solo più stupidi degli altri.
Lontani dalle stragi del sabato sera, dalle manifestazioni sindacali, dalle tesi di laurea. Lontani dalla vita felice altrui, dai sorrisetti incantati, dai negozi a natale, dai bambini nel passeggino. Tossici, come si può essere tossici solo per scelta, nella vita. Tossici, perché qualcosa, in noi, non aveva funzionato ed eravamo scivolati via dagli ingranaggi ben oliati della società per rifugiarci qui, in un angolo dimenticato di via Volta a non fare nulla se non limitarci, maldestramente, a vivere.
- Basta un niente e la cocaina ti divora l'anima – tuonava Spinone, - ma le difficoltà si affrontano, non ci si nasconde – continuava, imperterrito, - non possiamo sempre scegliere scorciatoie, e tapparci gli occhi con la cocaina non ha senso.
Avevo conosciuto Spinone solo poco tempo prima, ma non ero nuovo a quel genere di discorsi. Per cui lo lasciavo proseguire fingendomi interessato nei passaggi salienti, quando la sua voce saliva di tono cercando inutilmente ulteriore approvazione.
Oltre a me e a Elena, nella stanza c'erano anche il Nero e suo fratello. Loro sembravano essere i meno interessati a quel lungo monologo. Rimanevano in un angolo, l'uno accanto all'altro, in silenzio.
Erano passate già due ore dal loro arrivo e non avevano ancora preso parte a alcun discorso, come se aspettassero malinconicamente qualcosa che non sarebbe mai arrivato. Il futuro, forse.
Elena, dal canto suo, si era barricata dietro le sue occhiaie scure, quasi assente. Scontrosa con me come ogni volta che ci trovavamo insieme.
Avevo appena ripreso a abituarmi ai suoi silenzi ermetici, alle sue occhiate scure e alle frasi strozzate: dopotutto le nostre comunicazioni erano fatte da quello, da lunghi silenzi e grandi distanze. Voragini anche quando eravamo vicini.
- Dobbiamo sbatterci, se vogliamo ottenere qualcosa, e rifugiarci in questa merda non risolve niente, anzi. La gente non ti suona a casa per offrirti una vita, te la devi cercare, devi guadagnartela! La vita è una partita che si deve vincere!
Belle parole, quelle di Spinone, il capo di un branco che viveva solo nella sua testa, tanto vuote e inconsistenti da perdersi nel turbinio del fumo, risucchiate da quella coscienza comune e insensibile che contraddistingueva quasi tutti, nella stanza.
Non che non ci interessassero i suoi discorsi: segretamente ci speravamo in quell'alzata di testa che ci avrebbe regalato delle vite normali, ma avevamo smesso di crederci, ed era proprio questo stato di coscienza a spingerci sempre più a fondo.
- Che si fa stasera? - Domandò il Nero, interrompendolo con una sferzata tagliente di disinteresse, il suo solito disinteresse: il disinteresse dei tossici di professione.
Spinone ammutolì, rendendosi finalmente conto di aver parlato al nulla.
- In tv non danno niente. – Risposi. - Tu che vuoi fare?
- Farsi... - Ribatté debolmente Rio.
Il Nero lo guardò di sottecchi: solitamente adorava il macabro rituale dell'insulto tra tossici, ma erano tempi di magra e la strada non garantiva altro che qualche palliativo chimico al crack che era abituato a fumare con Simona. - Non scherzare. Sono cinque giorni che ho la scimmia.
Rio lo liquidò con un'occhiata malinconica, quasi di pena. Ma era suo fratello e doveva accettarlo.
- Vuoi svoltare del crack? - Domandò Elena degnandolo finalmente d'attenzione.
- Voglio svoltare del crack. – Ribatté, deciso, il Nero.
- Cioè... cosa? - Balbettò, Spinone.
- Con tutto sto parlare di droga mi è venuta voglia di crack. – Rispose, alzandosi. - Voglio trovare del crack.
- E io che cazzo ho parlato a fare finora? - Ringhiò Spinone.
- Sorpresa! Non ti ha cagato un cazzo di nessuno! - Lo schernì il Nero, dirigendosi verso la porta.
Spinone strinse i pugni e si alzò in piedi. Il Nero si limitò a osservarlo. - Dovresti stare a ascoltarmi invece di ragionare da tossico sfigato.
- Fino a un po' di tempo fa eri anche tu un tossico sfigato. – Gli ricordò. - E forse pure peggiore di noi...
- Ma ora non...
- Ma ora hai un lavoro fisso, uno stipendio regolare e una casa, bravo, ti sei inserito e ci inviti da te per farci la morale. – Rispose il Nero dal centro della stanza. - Ma non ti è mai venuto in mente che la tua morale del cazzo può non essere condivisa da tutti e che, anzi, può essere tranquillamente schifata? Magari non ti ricordi più chi eri un po' di tempo fa...
- Ero...
- Eri una merda, come tutti noi! - Ringhiò Rio.
Il Nero guardò Spinone negli occhi ancora una volta. - Andiamocene. – Mi disse. - Non abbiamo bisogno di farci ospitare da questa gente.
Guardai malinconicamente Elena, le sue labbra sottili, i polsi fini, le dita delicate poggiate sulle gambe. Lei sarebbe rimasta, c'erano molte più cose che la legavano a Spinone che non a me. - Ci vediamo. – La salutai, alzandomi.
- Ok – rispose con un cenno del capo, senza scomporsi.
Lungo la strada verso il Cafè Cordoba ripensai al Nero, alla storia che Rio mi aveva raccontato e alle parole di Biancospino. C'era qualcosa, in quella vita orgogliosa e devastata, capace di affascinarmi. Come se tutta l'oscurità che il Nero e il piccolo Rio si portavano addosso celasse, in realtà, qualcosa di buono e di fondamentale che io, in prima persona, avevo bisogno di capire. Per questo lo avevo seguito. Per questo e per un paio di questioni personali che mi portarono a lasciare casa tre mesi prima.
Biancospino mi aveva appena accennato a una "infanzia di guerra", qualcosa che aveva segnato così a fondo entrambi da costringerli a quella vita, ma cosa non aveva avuto il coraggio di dirmelo.
Ora, guardandoli, riuscivo finalmente a capire. Dormire in dormitori pubblici, mangiare alla mensa dei poveri. Lottare per ogni cosa, dal cibo ai vestiti, e ogni notte addormentarsi con la consapevolezza che il domani sarà uguale, scandito dai medesimi problemi e dalle medesime difficoltà. Senza tregua. Senza riposo.
I segni di quella vita ingrata si notavano meglio sul piccolo Rio, nello spazio tra le ginocchia magre, sempre in pantaloni troppo grandi, e in quei pochi sorrisi imbarazzati che nascondevano la disillusione di occhi vuoti e tristi. Era alla soglia dei quattordici anni e non faceva altro che artigliarsi alla giacca del fratello, che differiva da lui per appena qualche chilo di carne e una ventina di centimetri d'altezza.
Camminavano sempre così, se non mano nella mano tanto vicini da potersi toccare in ogni momento.
- Ho freddo – sussurrò Rio.
Mi accesi una sigaretta: - Ora dove andiamo? - Domandai.
- Per adesso al Cafè Cordoba. – Rispose il Nero, stringendosi nel giubbotto. - Almeno lì staremo al caldo e ci risparmieremo una frittata di moralismi del cazzo.
- Vuoi veramente svoltare il crack? - Domandai.
Il Nero guardò Rio, come a volergli silenziosamente domandare se lo avremmo trovato.
- Arriverà – lo rassicurò Rio.
- Bene – sorrise. – A quest'ora Simona è al lavoro, magari riusciamo a scroccarle un caffè. Ci piazziamo lì e aspettiamo che stacchi, intanto sento Biancospino, magari può ospitarci lui.
L'insegna del Cordoba comparve tra il grigio della pioggia e le sue luci ci ricordarono un tepore familiare.
- Simona ci sta già aspettando – disse Rio.
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