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Credevo solo di conoscerti

Avevo imparato a conoscere le loro abitudini. Di giorno girovagavano per la città, cercando di mettere insieme soldi o droga, la sera si rifugiavano all'Intercambio 39, presso un vecchio parcheggio sopraelevato, dove si incontravano sempre in gruppi di cinque o sei a fumare skunk e a discutere sulla notte.

L'accompagnarmi al Nero e al piccolo Rio mi rendeva ben accetto in quelle riunioni di lunatici, e la cosa, in qualche modo, riusciva a onorarmi.

Il Nero attendeva il tramontare del sole, come facevano tutti i "Primi", e non appena il rosso del cielo si spegneva nell'abbraccio della notte, qualcuno prendeva a suonare una musica violenta e devastante. Di solito era uno dei ragazzi del Paradiso, ma c'erano anche membri delle bande che si divertivano a sfoggiare le proprie macchine truccate. Solo i Lupi e gli Orfani non si facevano mai vedere anche se, con la presenza del Nero, quest'ultimo gruppo poteva dire di avere almeno un esponente, al rave.

Molti dei ragazzi si occupavano di corse clandestine, o almeno così si diceva. Di solito le facevano a tarda notte, volando sull'asfalto della tangenziale nord ancora in costruzione, l'unico posto in cui le pattuglie non potevano prenderli. Qualcuno mi aveva spiegato che erano proprio stati loro a inventare quest'usanza, come saluto alla morte di ogni giorno.

La gente iniziava a radunarsi verso le otto e per le dieci si ci poteva già muovere tra un considerevole numero di corpi sudati e eccitati. I ragazzi del Paradiso, di solito, se ne stavano rannicchiati dietro i fari delle auto, facendo ben attenzione a non mostrarsi troppo. Difficilmente si mescolavano con le altre bande. Loro si autodefinivano l'Ausla, nome che, per qualche insolito motivo, mi è sempre stato familiare, mentre il loro simbolo era la testa di un coniglio, come un jolly roger, dal volto aggressivo, quasi ghignante e l'orecchio destro mezzo mozzato. Alcuni l'avevano disegnato sulle auto altri direttamente tatuato addosso.

Biancospino, a modo suo, era uno di loro. E se non lo era ora il tatuaggio che portava sulla spalla dimostrava che lo era stato, in passato. Lo accettavano come uno del branco, salutandolo cordialmente e parlandogli come se fosse un amico o una persona importante di qualche genere.

I membri delle bande dell'Ausla erano persone violente, che rispondevano a strani codici, ma quasi tutti con principi morali giusti che, in qualche mondo meno ipocrita, sarebbero anche potute essere comprese.

"Vite differenti portano a filosofie differenti." Mi aveva suggerito Ettore, in un oscuro passato che non avevo voglia di ricordare. "Noi Apostoli non siamo cattivi, se facciamo quel che facciamo è perché sappiamo fare solo questo, perché la vita ci ha insegnato a comportarci in questa maniera". Aveva sorriso. "Magari puoi obiettare che si può sempre cambiare stile di vita, ma secondo me non è così, puoi controllare solo qualcosa, il resto te lo mette in testa l'esperienza e se vivi come noi, una vita costellata di brutte esperienze... be'... sono poche le cose a cui ti puoi aggrappare".

Il sabato sera la festa si prolungava tutta la notte, o almeno finché le sirene non li costringevano a sgombrare. Si trattava di veri e propri rave abusivi montati nel cuore della città. Feste di musica e cocaina, corpi sudati che si strusciavano alle luci dei fanali delle auto.

Quella sera era sabato, giorno che, secondo il Nero, era ideale per un po' di sano divertimento.

– Ora che abbiamo le tasche piene di crack nessuno ci impedisce di fare un salto all'Intercambio per vedere che aria tira. – Aveva tuonato, baldanzoso, usciti da casa dell'Arconte.

– Secondo me si può fare. – Aveva detto Biancospino, guardando l'ora.

Io non mi ero opposto e Rio era rimasto in silenzio, un insolito silenzio che si trascinava dietro come una zavorra da che avevamo lasciato l'Arconte.

Per tutto il viaggio si limitò a artigliarsi alla giacca di Biancospino guardandosi malinconicamente alle spalle, nascondendo i suoi turbamenti dietro un timido sorriso, ogni volta che si rendeva conto che lo stavo osservando.

Mi vennero in mente i pensieri morbosi fatti nel salotto dell'Arconte, alle parole rassicuranti del Nero e poi alle parole di Eva, sussurrate all'orecchio mentre facevamo l'amore.

"Non è nulla di ciò che puoi pensare." Aveva detto. "Riguarda solo una particolare dote di Rio". Ma quale particolare dote poteva avere un mucchietto d'ossa come lui? Quella di provare terrore?

Una cosa era certa, Rio era importante. Era il passepartout del Nero. Ovunque si presentasse, Rio otteneva il meglio: cibo, acqua calda, alloggio, droga. Sempre gratis. Tutti lo conoscevano e lo accoglievano bene, tutti lo aiutavano, tutti gli garantivano qualcosa. Rio era il cocco della strada, da lei otteneva qualsiasi cosa e il Nero giocava su questo fatto.

In quel momento li vidi per ciò che erano, ma non sentii il bisogno di rimproverarli, mi rendevo perfettamente conto che non facevano altro che sopravvivere, giorno dopo giorno, difficoltà dopo difficoltà.

Arrivammo all'Intercambio che la festa era già iniziata. Decine di teste si muovevano sotto il cielo stellato di quel sabato notte, scacciando il gelo a suon di urla, alcol e ketamina. Qualunque perversione poteva essere regolarmente comprata, in un mercato del genere, e qualsiasi deviazione, anche la più assurda, era ben accetta. In un ballo di diversi tutti sembravano uguali, folli sognatori, cavalieri di ventura, con le mani levate al cielo e le bocche riarse in cerca di aria, oltre il calore liquido della festa.

Qualcuno mi mise qualcosa in mano e mi spinse nella mischia. Mi trovai avvolto da un'immensità aliena, incandescente. Bevevo. Fumavo. Mi perdevo. Lasciavo che l'alcol cancellasse i pensieri a uno a uno, liberando la lucidità dell'ira. E in quel momento la vidi, unico istinto capace di cancellare tutti i miei istinti.

Era lì e in uno sguardo mi aveva annullato.

Rimasi qualche istante immobile, incredulo, osservandola nel riflesso delle luci delle auto, nel vibrare del rombo della musica.

Trassi un lungo respiro, tanto lungo che mi sembrò durare un'eternità, e mentre il respiro mi si condensava di fronte al volto il tempo subì una brusca virata e la luce parve abbassarsi di qualche tonalità.

Un attimo dopo non potevo far altro che assistere impotente a ogni mia azione, a ogni passo, a ogni movimento, a ogni parola.

– Sonica è un figlio di puttana! - Le gridai all'orecchio.

Così mi baciò, la prima volta dopo anni. Elena.

C'era qualcosa che mi stavolgeva in lei, quella sera, qualcosa di malcelato che le luci del rave mettavano in risalto. Forse era quel suo scheletro interiore, così maturo e sofferente, quel punto di lei che la legava stretta al purgatorio. Era bella per quella sofferenza profonda, quel vivere malamente la propria femminilità, quell'abusare di se stessa sino allo spasmo. Vedevo il suo dolore nelle occhiaie scure, negli occhi spenti, in quei riflessi che le leggevo nel volto quando diventava nostalgica. Ma forse era una mia illusione quella di trovare qualcosa di più nel ventre di una donna che ha sofferto.

Era ubriaca e sudata. Sentivo la sua pelle rovente sotto i vestiti, i suoi muscoli tesi, l'odore sensuale dei suoi capelli.

– Vieni! - Mi urlò all'orecchio.

– Dove? - Domandai.

– Vieni e basta!– Sorrise lei prendendomi la mano.

Scappammo insieme oltre la folla, tra quel mare caldo e sudato che si accalcava attorno ai fari delle auto. Scivolammo giù dalle scale antincendio di metallo, superando le luci del supermercato per scendere lungo il viale, mano nella mano. Lei ridacchiava, ebbra e eccitata, nella follia della notte, mentre i suoi capelli si accompagnavano al suono del vento che portava un po' dell'odore delle foglie umide d'autunno e un vago sentore di salsedine, come misterioso contorno alla sua figura.

In un istante ci abbandonammo sul cofano di un'auto, tanto distanti dalla festa da non sentirne il rumore, e solo allora iniziammo a capire quanto fossimo diventati l'uno per l'altra.

La baciai con foga, stringendole le mani al volto, cercando sulle sue guance magre quelle lentiggini che avevo imparato a amare, ma incontrai solo l'umido delle sue lacrime e capii che stava piangendo.

– Cosa succede? - Le domandai.

Elena mosse appena la testa, senza rispondere.

– Cosa c'è? - Ripetei, preoccupato.

Elena stavolta fece per guardarmi, le lacrime brillavano alla luce dei lampioni.

Sentii il suo respiro caldo invitarmi un'altra volta e volontariamente lo seguii. La strinsi al petto, avvinghiato a lei come alla mia stessa vita, godendo dei suoi fianchi morbidi e della curva della sua schiena. Il suo corpo trepidava, su di me, e le sue mani prendevano a toccarmi il petto.

Ci spogliammo in fretta strappandoci di dosso le magliette sudate per tirarle in strada e tornare insieme, persi nell'universo del cofano di un'auto.

Mi misi su di lei e presi a farmi strada sul suo collo, scendendo lentamente verso il basso. Erano baci e morsi, la mia voglia di amarla e distruggerla. Sfioravo con le labbra i suoi piccoli seni immergendomi nella pelle del suo ventre piatto. La sentivo ansimare nel buio del vicolo, allungando le braccia per cercarmi le spalle e la testa.

La baciai ancora, prima di entrare dentro di lei, seguendo attentamente i suoi sospiri a ogni mio movimento. Provavo un piacere intenso, qualcosa di proibito, torrido. Sentivo la sua stretta farsi più rovente attorno al mio bacino e non riuscivo a fare altro che muovermi e morderle la pelle bianca, assaporarne ogni lembo, ogni centimetro, inebriarmi del profumo dei suoi capelli e dei suoi sospiri di piacere. Fino allo svenimento. Avrei voluto estendere quel singolo momento all'infinito, inebriarmi di quella sfacciata passione giovanile fino alla fine dei miei giorni.

Crollai stremato accanto a lei dopo un tempo incalcolabile. Avevo esaurito le parole, io, che sulle parole ci avevo costruito una vita, non trovavo mezza frase per descrivere ciò che provavo in quel momento.

La notte si incendiava in giorno e noi ci amavamo ancora, nudi, distesi sul cofano di una vecchia Punto, lasciandolo sbocciare tra gli alti palazzoni di cemento armato, nello skyline della città che ci aveva partoriti. La amavo, forse l'avevo amata così tanto, in segreto, da illudermi che anche lei, prima o poi, avrebbe potuto provare qualcosa nei miei confronti. L'amavo di un sentimento che non riuscivo a accettare, la amavo da esserne ciecamente indipendente.

Rimanemmo abbracciati a lungo, nudi, nascosti dalle giacche poggiate dal mio ventre ai suoi fianchi. Le nostre ginocchia si incontravano nel silenzio, così come avrebbero dovuto fare le nostre labbra. Invece non accadde nulla. La magia andava lentamente dissolvendosi mentre le sue mani smettevano di aggrapparsi a me e iniziavano a frugare nelle tasche della mia giacca.

– Cosa stai cercando? - Domandai.

– Il crack! - Esclamò.

– Il crack?

Mi lanciò uno sguardo che non ammetteva replica e chiariva tutto.

Li avevo immaginati tante volte, quegli occhi, che mi cercavano nel buio, che mi laceravano di passione, che ardevano di gioia. Invece li trovavo freddi, vuoti di qualsiasi foga d'amore. Elena si era abbandonata al vizio molto tempo prima di quanto potessi immaginare e ne era stata travolta. Riconobbi la stessa folle tristezza del giorno in cui lanciò i suoi disegni dal vecchio ponte, ma stavolta erano pieni di un vuoto più intenso, di un disprezzo superiore.

Mi sarebbe bastato stringerla al petto ancora per poco, giusto i pochi minuti dell'alba, forse qualcosa di più, per innamorarmene perdutamente, per lasciar cedere di nuovo il cuore.

A volte basta poco per resuscitare, qualche carezza, lunghi istanti di silenzio nel calore di un abbraccio, nudi, sotto le lenzuola. Avevo abbandonato il mio mondo per un cuore ferito destinato a diventare freddo come il ghiaccio. Avevo cercato nella droga l'annullamento di ogni pensiero. Mi ero rifugiato nell'odio per sfuggire al dolore delle ferite. E ora ero punto a capo.

Mi aveva solo sfruttato. Non c'era nessun sentimento in lei, solo la voce della scimmia che annulla ogni coscienza, cancella ogni altro desiderio, rende tutti schiavi e automi, seguaci della stessa bestia, incendiati dalla stessa ira, affamati dello stesso desiderio.

Mi aveva usato e io mi ero lasciato usare, illudendomi che in quel corpo magro e perfetto si nascondesse ancora un'anima, sognando che avrei potuto strappargliela dal ventre e farla mia, finalmente, per sempre.

Allungai una mano e presi il crack dalla tasca interna. Le lasciai l'intera dose che mi aveva consegnato il Nero, non avevo voglia di fumare.

La sentivo immergersi nel suo piacere chimico e, senza neppure guardarla, compresi che per lei quello era l'unico destino. Avrebbe passato ogni notte così, tra sesso e crack, finendo per scambiarlo con l'amore, odiando se stessa nella maniera più amara: donandosi a chiunque, senza esclusione.

Mi rivestii in silenzio, lasciando a Elena il piacere di divertirsi con la sua pipa, di concedersi quei cinque minuti di quiete dalla stretta della scimmia.

- Noi due, insieme, siamo solo due bestie nella stessa solitudine. – Sussurrai, allacciandomi i pantaloni. - Ti avrei potuta salvare, forse.

Non sapevo se Elena mi osservasse o meno, dubito che mi prestasse la minima attenzione. Così mi infilai le scarpe e me la lasciai alle spalle, insieme all'alba.

- Scriverai anche questa storia, quando diventerai famoso? - Mi domandò, mentre mi allontanavo.

Mi fermai, volgendomi qualche istante a guardarla, il corpo gracile coperto solo dalla giacca e la pipa di vetro in mano, sporca. Era la più bella Dea drogata che avessi mai visto. Pensai alla notte, ai suoi piccoli seni nelle mie mani, alle sue labbra morbide, alla carezza dei suoi capelli sul mio petto. Avrei potuto darle tutto il mio amore, esserle fedele in eterno, assecondare ogni suo istinto e proteggerla, anche da se stessa, fino alla morte. La guardai nella luce di quel pallido mattino, certo di perdere qualcosa di importante, eppure pensai, con arroganza, che sarebbe stata lei a perdere qualcosa.

Sì, sarei diventato un grande scrittore, un giorno. Avrei spiegato la vita con le parole, in maniere e modi da dare l'orgasmo. E avrei anche vinto un Nobel, se solo avessi voluto.

– Forse - risposi.

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