0.9 "I vicini"
"Isabel!" gridò una voce dall'altra parte della casa, ma nessuno avrebbe potuto sentirla, nemmeno chi era dietro la cornetta.
"Mamma!" esclamò Dustin, mettendo la testa fuori dalla sua stanza, "dilli di smetterla, cazzo!" urlò a sua volta, mentre sua madre si sporgeva nuovamente lontano dal telefono.
"Chiama tua sorella!" disse, vedendo il ragazzo, ma non sentendo le sue parole. Di sicuro, se avesse potuto udirle, non sarebbe mancato un bel rimprovero per le parolacce che "il suo bambino" aveva iniziato a dire più frequentemente.
"Una scodella?! Mamma, che c'entra!"
La musica risuonava in tutto il quartiere, sempre le stesse canzoni, quando meno te lo aspettavi. I "Queen" accompagnati da un miscuglio di imprecazioni e minacce. Eppure, nonostante le lamentele, quei concerti improvvisi continuavano a riempire l'aria, partendo da un piccolo garage.
Era colpa dei nuovi vicini, un giovane ragazzo e la madre. Si erano trasferiti lì da ormai un anno, ma nessuno li aveva mai presi in considerazione. Forse per le storie che circolavano sul loro conto, alla fine non erano delle migliori.
Non di rado, Isabel era stata obbligata a portare diversi dolcetti, fatti da sua madre, in quella malandata casa. Ogni volta che varcava il cancelletto dell'edificio si guardava sempre intorno con la sua solita curiosità: era stato tutto abbastanza ristrutturato, eppure agli occhi della ragazza restava sempre la "Casa Infestata".
Spesso lei e Dustin, quando ancora erano piccoli, si divertivano a vederla come un edificio pieno di spiriti e maledetto da qualche strana magia. Non ricordava di averlo mai notato con dentro della vita, con dentro uomini veri.
La proprietà era sempre stata della Signora Wilkinson, nonostante fosse sparita nel nulla. E poi, eccoli balzare fuori all'improvviso.
Una strana questione quella dei Wilkinson. Curiosa.
Per Isabel, però, restava sempre quella casa vuota e piena di ratti. Solo poco tempo prima, aveva scoperto da sua madre che l'abitazione non era stata venduta, che quelli che erano arrivati erano i veri e scomparsi proprietari.
Anni e anni senza sapere nulla, ma a nessuno era mai importato veramente. L'indifferenza è sempre sovrana in questo mondo.
Alle parole della donna, Isabel si era ricordata di qualcosa: una massa indistinta di ricci neri e un sorriso timido. Sì, quello doveva essere Sam, il bambino dei Wilkinson, se non ricordava male.
Aveva giocato diverse volte con lui insieme a Dustin, ma ricordava poco. Era un piccolino simpatico e un po' strano, come lei del resto.
Il tempo, però, aveva portato via il suo ricordo e nella mente della ragazza era solo rimasta un'immagine sbiadita di quel bambino riccioluto. Era tutto confuso, un foglio bagnato di cui restavano solo i contorni di una vecchia persona.
Isabel era tranquilla, seduta alla sua scrivania. Non le importava della musica; di solito non ci faceva molto caso, anzi, era un modo per sentirsi meno sola. Anche quella sera a lei non interessava molto: chiusa nella sua stanza aveva finito di registrare e ora stava proseguendo con la scrittura silenziosa e concentrata.
"I want to break free..." canticchiò, aggiungendo qualche nota alla fine della pagina, "I've fallen in love... for the first time"
"Isabel!" gridò Dustin, bussando con forza alla sua porta, "Isabel!" disse con più durezza, sbuffando ogni volta che apriva bocca. Non si poteva stare mai in pace!
Al secondo tocco, la ragazza sentì un lieve toc toc all'anta e si voltò, mentre ancora la musica inondava tutta la via: "Che c'è?!" gridò di risposta e la canzone si abbassò, come se l'avesse udita.
"Grazie al cielo!" borbottò burbero Dustin, aprendo la porta della camera, "un giorno di questi giuro che, giuro che..." strinse di più i pugni, avvicinandosi alla finestra da cui si vedeva la casa dei vicini, "faccio un'invenzione per bloccare il volume di quello stereo!"
"Non sarebbe più semplice rubarlo...?"
chiese ridacchiando un po' Isabel, mentre poggiava la sua penna sulla sua scrivania. Dustin tirò di nuovo la tenda nervosamente, come per nascondere la casa frutto dei suoi problemi: "Sì, forse! Fatto sta che non voglio più sentire quelle dannate canzoni, il mio genio non riesce a concentrarsi..."
"Mhm... sì, il tuo genio" esclamò, con una risata divertita la ragazza, "e il tuo genio perché è venuto qui?" chiese, appoggiandosi con la schiena alla seggiola.
"La mamma... dice che qualcuno ti vuole al telefono, ammiratori che non conosco?" domandò Dustin, incrociando le braccia sul suo petto, mentre guardava la sorella con un punta di gelosia.
"Sì, troppi Dustin, ho perso il conto sai..." si alzò, dirigendosi verso la porta, divertendosi un mondo a stuzzicarlo in quel modo.
"Isabel!"
"Che c'è? Non sarai geloso se la tua sorellina ha iniziato ad avere degli ammiratori..." disse, poggiandosi all'anta della porta, "ma ora devo andare, il dovere mi chiama" formulò prima di sgusciare fuori dalla porta, senza attendere una risposta del ragazzo.
Mentre Isabel prese la cornetta che sua madre le passò, Dustin si riavvicinò alla finestra. Con un lento movimento della mano scostò la tenda di un bianco ormai giallastro e guardò verso il garage. Un ragazzo, dell'età di Isabel, uscì fuori, chiudendo poi la salacinesca alle sue spalla. I suoi movimenti erano calmi, tinti da una stanchezza, che talvolta Dustin rivedeva in sua sorella. Era come una silenziosa rassegnazione e quel giovane sembrava incarnarla alla perfezione. Ma non si lasciò trasportare da quella commiserazione, non gli era mai piaciuto quel vicino, non riusciva a capire come avesse fatto a sopportarlo quando era piccolo. Preferiva quella casa vuota, magari per sempre.
Il ragazzo, appostato alla finestra, sollevò una mano e, dal profondo del cuore, alzò il dito medio verso quel tizio che aveva osato isturbare il suo "genio" intoccabile.
"Ehi, Max, ciao, come mai q-"
"Perché non sei venuta?" chiese subito la rossa dall'altra parte del telefono, mentre lanciava uno sguardo un po' preoccupato nella direzione di Undici.
Quella era la chiamata che Isabel aveva ricevuto, un po' inaspettatamente ad essere sinceri. Non si aspettava di sentirle.
"Venuta do-... ah, giusto, il pigiama party" sospirò la ragazza, quando tutto le ritornò in mente. Era proprio una stupida, pensò mentre si appoggiava alla parete, rigirandosi tra le dita il filo del telefono. Come aveva fatto a dimenticarsene? Continuò a ripetersi nella mente, mentre si passava una mano fugace sugli occhi, stanca.
"Allora?!"
"Allora... beh, non me lo sono ricordata" borbottò, triste e dispiaciuta, ricordandosi anche dell'appuntamento che Jake le "aveva imposto" il giorno prima: aveva saltato anche quello. Può una persona avere così tanto per la testa da dimenticarsi ben due promesse? Sì, quella ne era la conferma.
"E perché?" chiese Max, mentre la sua voce si fece meno frettolosa, come se avesse intuito la stanchezza silenziosa della ragazza.
"Perché..." emise una una lieve risata, frutto del pensiero di sentirsi così stupida, "perché... non ce la faccio più, ecco la verità"
Max fece per rispondere, ma Undici poggiò una mano sulla sua bocca, facendola tacere. Sentiva che quel momento doveva essere solo di Isabel, dovevano entrambe ascoltare, nonostante tutto.
"Sono stanca di litigare, di respingere la gente, perché... perché sono troppo orgogliosa e non riesco, non riesco a dire "mi dispiace". Perché sento di aver sbagliato e non riesco a dire nulla, a fare nulla. Eppure vorrei tanto che tutto tornasse come prima e voi direte che basta questo, ma non basta solo pensare, bisogna anche avere il coraggio di fare. E, e io non lo ho, faccio schifo in fatto di coraggio" sospirò, alzando gli occhi verso il soffitto, mentre la sua schiena, carica di brividi, si calava giù lungo la parete, "non ci capisco più nulla, ci sono troppi problemi. Troppe cose. Ragazzi, Nancy e... altro. Soprattutto ragazzi e pensare che fino a un anno fa avevo solo Dustin come ragazzo... buffo" rise leggermente, mentre in realtà il suo animo piombava sempre più in basso: il peso era troppo.
Max, in quel momento, spostò la mano di Undici dalla sua bocca e usò il suo di coraggio per iniziare a parlare: "Isabel" disse subito, con una voce ferma, ma con quella nota di dolcezza per catturare l'attenzione, "io non so cosa tu stia provando, posso, possiamo solo immaginarlo, ma non basta lo stesso. Però, ascoltami bene, so che non ti sono mai piaciuta, che non siamo mai andate d'accordo ma... vorrei darti un consiglio, un consiglio da amica. Anche se non lo sono forse"
Isabel non rispose, c'era anche quello di problema, non sapeva come considerare Max. Ma bisognava per forza etichettare tutto sotto uno stupido nome? Doveva per forza chiamarla "amica" ogni volta, affinché lo fosse? Isabel credeva piú nei gesti, meno nei soprannomi. Li odiava.
"Io voglio dirti di lasciar perdere qualcosa, qualcosa che non ha molto senso da tenere per ora. Un problema in meno, forse, può alleggerire il peso. Chiudere una cosa potrebbe farne chiudere altre e poi... poi ti sentirai sicuramente meglio" sorrise lievemente dietro a quella cornetta, tenuta vicino alle sue labbra rosse. Voleva davvero aiutarla, farle sentire che non era sola, che nonostante la differenza di età poteva contare su di lei, "ecco, prova a chiudere con i 'ragazzi', insomma, portano troppi problemi inutili. Basta ragazzi, si può vivere anche senza. E poi, beh, quando starai meglio ne troverai di altri. Ma io per ora chiuderei questa porta, non si meritano la nostra attenzione. Diciamoglielo: 'cari, ce la caviamo anche da sole, siamo più forti di quanto possa sembrare!'; ciao, ciao stupidi eroi bugiardi"
In quel momento risero tutte e tre, mentre, quasi magicamente, la schiena di Isabel si risollevò da terra, come tutta quella giornata.
Sí, basta ragazzi.
***
Il silenzio della notte è qualcosa di pacifico, come una melodia lenta che ti entra dentro, che ti calma nonostante il nervoso. Quante persone in questa storia sono uscite al buio solo per calmare il fuoco dentro di sé. La notte può essere tante cose: pazzia e sonno, tristezza e felicità.
Per Steve era solo un cielo scuro da osservare seduto sul bordo del suo letto.
Le lacrime minacciavano di uscire dai suoi occhi, insomma, chi non sarebbe stato così dopo quello che gli era stato detto.
"Stronzo... stronzi" borbottò, ma erano solo parole, il suo viso era spezzato. I suo genitori degli stronzi, così gli sembravano quella sera di metà Marzo.
Poco prima, avevano criticato qualsiasi suo comportamento o almeno quelli che adesso aveva. Isabel, quella ragazza, come suo padre l'aveva chiamata, era la causa dei loro problemi e anche della sua felicità. Lei ne era l'essenza, la primavera che sentiva finalmente essere arrivata nella sua vita.
Sì, perché lui stava diventando diverso. La normalità era stata spezzata e anche volendo non sarebbe tornato indietro. Non voleva e non poteva: la vita è una corsa di solo andata.
D'un tratto un rumore bloccò quella trance apparente del ragazzo. Steve vagò con lo sguardo per la stanza, ma non vide che silenzio.
Un altro tocco, forse un po' più forte, inondò l'aria. Lo sguardo gli ricadde sulla finestra, su quel vetro che fissava da minuti. C'era una sagoma fuori, indistinguibile da quella visuale.
Un po' titubante si avvicinò verso quella persona, ormai distratto da quei "vecchi" pensieri. Si sentiva già meglio, già con la testa su altro.
"I-Isabel?!"
La ragazza si trovava lì, con un sorriso un po' imbarazzato, quasi infantile. Come un bambino che sa di aver appena mangiato troppe caramelle del dovuto, lo guardava, ridendo lievemente. Era tutta trafelata, come se avesse corso per arrivare a casa sua. Teneva dei fogli in mano, ma Isabel era sempre così: non sarebbe mai andata da nessuna parte senza aver portato qualcosa con sé. Ma perché? Insomma, erano amici, ma non credeva potesse accadere una cosa simile.
Senza attendere, tirò su il vetro: "Che diamine ci fai qui?" disse, con una voce mista di rimprovero, stupore e una felicità profonda, ma velata.
"Mah... avevo voglia di vederti" sussurrò la ragazza, incontrando i suoi occhi per qualche secondo. Era tutta la sera che ci pensava e ora che li aveva lì, vedeva il puzzle della sua giornata prendere posto in quel caos di vita.
"Sei un'idiota, Isabel" rise leggermente lui, continuando a fissare quelle pozze azzurre. Era sempre lui a fare gesti del genere, a portare rose, entrare dalle finestre, cercare di risolvere per poi fallire miseramente. Lui per prendersi cura del mondo, senza nulla in cambio. E chi si sarebbe preso cura di lui? Chi sarebbe stato disposto a fare lo stesso? Beh, aveva quella persona davanti agli occhi. Ed era strano, come se in quella notte spenta e vagante avesse trovato un punto fisso. Un punto fisso nel mare in tempesta che affrontava giorno dopo giorno, trascurando anche se stesso.
"Anche tu, Harrington. Idioti insieme, oppure nessuno dei due"
In quel momento un'altra luce si riaccese nei loro ricordi: quella sera poco lontana, pochi metri sotto i loro piedi, lei aveva lasciato il suo passato per altro, aveva sentito il cambiamento della sua vita. Ma non era un attimo, un momento preciso. Il cambiamento non è un secondo, ma tempo, molto tempo. E in quell'attimo, dopo i giusti mesi e anni, sentiva riassunto il suo cambiamento.
E Steve? Beh, quando aveva gettato con lei quell'accendino, aveva detto "insieme" per la prima volta. Era stato anche per lui un punto fisso, una ripartenza di cui aveva bisogno. La vita è fatta di questo, di molte, moltissime porte chiuse, che si rivelano passi avanti. Aveva capito molte cose grazie a quel giorno e si ripeteva spesso le solite parole nelle orecchie.
Quando ti accorgi che è finito tutto, quando vedi solo porte chiuse, affacciati alla finestra e guarda in alto. Milioni di nuvole volteggiano nell'aria. Diverse, uniche.
Osservarle, smontarsi, ricomporsi, distruggersi e svanire.
Un processo continuo, banale come la stessa vita che sta nel tuo corpo.
Perché siamo come le nuvole, cambiamo. Cosa c'è di più naturale? Basta solo non avere paura, lasciare che il vento ci faccia perdere parti di noi, per rimodellarci. E chi dice che il domani non sarà meglio di ieri? Chi dice che bisogna gettare via una giornata nuvolosa, perché ieri è stato un giorno splendido sole? Nessuno, basta solo vivere. Lascia andare.
Questo era quello che pensava, ma ancora non era riuscito ad esprimerlo. Ancora osservava il cielo, per lui sempre vuoto e triste. Ma con lei era diverso.
"'Insieme'... suona bene come parola" borbottò, dando voce ai suoi pensieri, mentre la ragazza entrava nella stanza.
"Anche 'noi' ha un bel suono, sai" rispose lei, mentre, curiosa, si guardava intorno, "io e i miei fogli" aggiunse, ridendo, mentre i suoi occhi chiari si riposavano lenti sulla figura del ragazzo.
"Sei proprio..."
"...stramba, lo so"
"Magica" sussurrò lui, non riuscendo a frenare la sua lingua, "e una che non lascia finire di parlare" abbassò lo sguardo, cercando di rimediare per ciò che aveva detto con troppa sincerità. Isabel era colorata. Aveva tutto ed era in grado di darlo. Dava colore a ogni sua giornata, magicamente.
La ragazza rimase pietrificata dallo stupore, cosa aveva appena sentito? Non credeva alle sue orecchie, insomma, era così irreale.
"Attento... posso farti una magia allora" cercò a sua volta di tagliare quell'imbarazzo improvviso, mentre sventolava un po' quei fogli nell'aria.
"No, non in quel senso... è un po' strambo come senso" sussurrò Steve, ma non avrebbe detto altro, non ne sarebbe stato capace, "ma... perché qui?"
"Te l'ho detto, voglia di vederti, chiedimelo un'altra volta e uso questo per punirti... o una magia!" rise, avvicinandosi un po' a lui, mentre alzava in aria quella pila compatta di fogli.
"Oh, che paura" disse Steve, scuotendo la testa divertito, si sentiva risollevato. Allungò una mano e afferrò quei fogli: "vediamo, vediamo cosa nasconde questa arma così potente"
"Ehi!" esclamò lei, cercando di afferrarli, ma lui li teneva alti sopra di lei per non farglieli prendere. Non voleva che li leggesse, almeno non così, adesso che stavano scherzando. Erano roba seria e l'espressione di Steve, infatti, mutò appena lesse le prime righe.
"Steve, dai, ti prego, dammeli!" lo seguì lei, mentre lui vagava per la stanza, leggendo e rileggendo sempre le stesse parole.
Raccontavano di giorni, momenti che anche lui ricordava. Tutti con dettagli, pensieri e riflessioni in più. Cosa, cosa diamine volevano dire? Lui non aveva mai saputo nulla di tutto questo.
Improvvisamente, sentì le mani farsi pensati e i fogli abbassarsi con esse. Pesavano, tanto. Sentiva di tenere non più carta tra le mani, ma un'anima, un cuore.
Lei non glieli strappò di mano, anche quando avrebbe potuto farlo. Ormai sapeva, ormai avrebbe dovuto parlargliene.
"Steve..." sussurrò, mentre i loro occhi si incontravano un'altra volta. Quelli di lui sconcertati e perplessi, quelli di lei nudi e fragili.
"Cosa sono... Isabel, cosa, cosa sono?"
"Io... Steve, sono, sono io..."
·˚ ༘₊· ͟͟͞͞꒰➳ scusate tantissimo per la lunghissima attesa, ma davvero questi mesi sono stati "difficili". Un po' per lo stress scolastico, un po' per altri problemi, non ho avuto il tempo per portare avanti la storia. Ma eccola qui, spero tanto possa piacervi!
@MaryInes_
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