0.8 "Sono (siamo) uno schifo"
"12 Marzo 1985, ore ventidue, casa di Steve.
Vorrei non dover parlare di questa serata. Vorrei potermene ricordare senza bisogno di fare tutto questo, ma ho paura. Come ogni dannato giorno ho paura di perdere ogni cosa. E quindi sono qui, a parlare di quello che può considerarsi uno dei momenti più felici degli ultimi anni"
Isabel sussurrava, Dustin avrebbe potuto sentirla e quel discorso era segreto, come aveva detto. Gli avrebbe dato questa etichetta e sarebbe stato per sempre solo suo.
Il registratore girava lento, mentre la flebile luce della sua scrivania illuminava la miriade di pagine stropicciate posate davanti a lei. Ma quella sera non voleva recitare, voleva solo parlare. Non aveva voglia di fingere e per questo avrebbe seguito il flusso dei suoi ricordi.
Le tende tirate rendevano la stanza ancora più buia e il vociferare lontano di sua madre al telefono sembrava parte di un altro universo. La porta chiusa a chiave le dava una certa sicurezza, come se quel misero angolo fosse un posto sicuro, un posto dove poter annegare nella felicità, perduta.
Sospirò e abbassò il viso sul registratore: "sì, uno dei più felici" sussurrò, mentre un tenero sorriso si dipinse sulle sue labbra e il ricordo di ciò che era accaduto poche ore prima si faceva debole, "ricordo il freddo, già, nonostante fosse quasi primavera sentivo come le gambe gelate. E poi... quella mia stupida idea, perché l'ho fatto? Esistono le porte Isabel, sai. Ma quella sera, quella sera avevo una voglia matta di... di lui. E non posso mentire, almeno non qui, non oggi.
In camera, qui in questa stanza, ricordo che camminavo avanti e indietro, senza togliermelo dalla testa. Così, feci la cosa più banale che mi venne in mente. Presi la mia bici e, senza nemmeno preoccuparmi troppo di quello che avevo addosso, uscii fuori.
Ricordo che... che ogni attimo di quella corsa verso casa sua era... magico, strano, forse, nuovo. Mi sentivo sempre più vicina, sapevo che presto l'avrei rivisto, che presto avrei colmato quella voglia. Non avevo paura, quella volta no, ma a ripensarci forse avrei dovuto averne. Rimanere schiacciata da una macchina, non trovarlo a casa, essere fuori posto un'altra volta, paura che tutto questo casino ritornasse. Ma come avrei potuto pensarci, come avrei potuto cancellare la sua immagine, la sua voce dalla mia testa. E adesso sorrido, ero proprio stupida, pazza, sì, come quella notte... quella notte là sotto, nel Sottosopra. In quel momento" si fermò, mentre la sua mente collegava tutti i pezzi, arrivando lentamente a una conclusione, "in quel momento, sentivo una nuova energia... forse" deglutì, non voleva ammettere ciò che pensava, ma chi avrebbe mai ascoltato quella registrazione, "forse quell'elettricità di cui lui aveva parlato a Dustin; non avevo mai provato nulla di simile. E solo adesso vorrei poter cancellare quello che feci quella notte, quello che gli raccontai, tutti i sentimenti che provai nel rivederlo, nel sentirlo al mio fianco. Solo adesso vorrei poter stappare queste stupide pagine e cancellare dalla mia vita, da questa stupida storia, le parti che meno mi piacciono. Bruciarle e sotterrare le ceneri. L'ho già fatto in passato, non fisicamente, ma, beh, io-io l'ho fatto tante volte. Io-io lo faccio continuamente e sono ancora qui a pensare di ripeterlo.
Qui, a parlare ad un dannato registratore perché non so con chi farlo; qui, a fingere che questa camera sia un posto sicuro, che fuori non ci siano cose che mi fanno paura. Sono una codarda, un'egoista che si lega alle persone solo perché la fanno stare bene... sono, sono uno schifo.
Ma quella sera, sì, quella sera è stata l'unica forse della mia vita in cui non mi sono sentita uno schifo, in cui non mi sentivo egoista.
Quindi... quindi non la cancellerò e Isabel, se riascolterai queste parole, se hai distrutto tutto un'altra volta, ti prego, fermati e ricostruiscilo. Non vale la pena perdere tempo a distruggere, è solo più semplice, più facile rispetto a costruire qualcosa. Ti stufi e butti giù il tuo castello di carte, dimentichi la pazienza e il valore del perdono. Poi, diventa un vizio e non fai altro che demolire, nascondendo le macerie.
Ma, forse, non serve a nulla far finta di stare bene, cancellare il male dalla propria vita, perché poi, dannazione, si ricade sempre nella stessa fossa. Cancellata una cosa, ci si dimentica come affrontarla e poi si cade di nuovo. E mi ritrovo di nuovo qui, sola in questa stupida buca, allontanati tutti. E guardo queste pagine e... e... meglio smetterla. Basta... basta"
***
"Steve Harrington!"
Una voce irruppe nel silenzio di quella stanza, nel rimbombare di nitidi pensieri nell'aria.
La camera era buia, mentre parole lontane, figlie di ricordi perduti, riempivano quell'atmosfera gelida. Quella non era casa, quello non era un posto tranquillo. Era solo grigio, vuoto, sbiadito dal tempo. Un luogo anonimo, in cui lui, Steve, aveva vissuto per anni, che aveva avuto una vita propria, ma in cui ora restava solo la tristezza del passato.
"Steve!" chiamò più secca la voce di sua madre dal piano inferiore, spostando, tagliando e lacerando quella quiete apparente.
Lui era stanco, dopo quella lunga giornata; non aveva nemmeno avuto il tempo di cambiarsi, tanto che ancora portava addosso quella sua ridicola divisa. Appena entrato in casa, era subito corso in camera sua. Aveva visto i suoi genitori discutere in cucina e, come al solito, stavano parlando di lui e dei suoi "problemi". Sapeva di fare schifo e non aveva bisogno dei loro promemoria.
"Dobbiamo parlarti... subito" esclamò, questa volta calma la donna, poggiandosi al piano della cucina e guardando il marito speranzosa, attendendo una risposta del figlio.
Restare su significava solo maggiori problemi e Steve ne aveva già abbastanza a cui pensare. Era tempo che non parlavano più chiaramente, solo loro tre. Fingevano tutti i giorni che le cose andassero bene, mentre tra lui e loro si innalzava un muro sempre più grande di incomprensioni.
"Arrivo..." borbottò, non preoccupandosi di farsi sentire dai suoi genitori, tanto sarebbe sceso lo stesso di sotto.
Chiuse la porta alle sue spalle, avviandosi giù per scale, mentre le foto appese al muro correvano sulle pareti, come lunghi film.
Dopo poco, scese gli ultimi gradini, con una silenziosa indifferenza, e si diresse in cucina, dove quei due freddi avvoltoi lo attendevano, così li vedeva, soprattutto suo padre.
"Siediti, Steve" borbottò subito l'uomo, non appena lui varcò la soglia della stanza, accomodandosi prima del figlio al grande tavolo di quella sala fin troppo perfetta.
Steve aveva tutto, ma non aveva niente.
"Cos'ho fatto, adesso?" domandò il ragazzo, sedendosi con un sospiro sulla sedia davanti al genitore. Voleva che quella conversazione terminasse il prima possibile, nessun rigiro di parole.
"Dovresti saperlo o almeno immaginarlo... penso ci siano molte cose che non vanno, Steve"
"Come te" avrebbe tanto voluto rispondere, ma si limitò ad abbassare lo sguardo e a stringere forte le dita attorno ai suoi calzoncini, trattenendo tutta la sua voglia di controbattere. Sembrava tutto uno strano déjà-vu, ricordava bene quella sera di marzo in cui avevano avuto una discussione simile.
"Io e tuo padre siamo preoccupati, tesoro... siamo preoccupati per tutto quello che ti sta succedendo, noi vogliamo aiutarti" sussurrò più tranquillamente sua madre, cercando di allentare la tensione nell'aria.
"Già, vogliamo solo aiutarti, quindi... almeno per questa volta dacci ascolto, basta evitarci, basta fare finta che vada tutto bene in questa casa. Perché, Steve, noi abbiamo provato a darti dei consigli, mesi fa, e tu non ci hai ascoltato, quindi vedi di farlo questa volta, intesi?!" prese a dire il padre, mentre i suoi toni si facevano più duri, "io e-" sospirò, abbassando per alcuni secondi lo sguardo, "io sono arrivato ad una conclusione, ma..."
"Ma...?" chiese Steve, iniziando a preoccuparsi di quello che le sue orecchie avrebbero potuto sentire.
"Ma, penso che le cose siano peggiorate da quando, da quando quella ragazza è entrata nella tua vita" concluse l'uomo tutto d'un fiato, "e ne sono praticamente certo, Steve"
"O no, no... sul serio, davvero, stai dando la colpa a lei! Sei assurdo, papà!" disse il ragazzo con una risata nervosa, isterica.
"Ascoltami Steve, so il fatto mio su quella ragazza e so bene che da quando è comparsa lei, tutto nella tua testa è andato a rotoli. Da Nancy al tuo rapporto con noi, al tuo futuro, guardati... indossi una stupida divisa da gelataio, mentre ora potresti preparati per andare al college. Ti sei fatto incantare da una donna, bravo! E poi, per che donna?! Non è nemmeno una donna è-è, com'è che l'ha chiamata Tommy, ah, giusto, una stramba! La "Stramba, Henderson" mi ha detto che la chiamate così"
"La chiamano" precisò Steve, stringendo di più le dita, sentendo le unghie conficcarsi nella sua pelle. Come osava dire quelle cose?!
"Anche tu la chiamavi così ed era molto meglio, credimi, stavi molto meglio, quando la chiamavi così! Ora, ora stai diventando come lei, Steve! Te ne rendi conto!" gridò, mentre sua madre restava in silenzio, abbassando lo sguardo, persa in qualche pensiero sfuggente.
Steve non si trattenne più e sbatte le mani sulla tavola, alzandosi da quella seggiola ormai troppo stretta: "Tu..." lo indicò, "tu-tu davvero pensi che mi abbia rovinato, voi davvero pensate che io sia peggiorato?! Cazzo, non sapete proprio nulla! Non ti è mai importato di me, sempre in giro, sempre a fare i tuoi bei viaggetti. Ma finché ero lo stronzo, fidanzato con la ricca ragazza allora andava tutto bene, certo era il tuo fottuto sogno perfetto! E invece, invece un figlio gelataio, che passa il suo tempo con dei ragazzini non va bene. Anche se sono felice non va bene, no, perché c'è di mezzo la tua bella e stupida perfezione. Sapete che vi dico che non me ne frega un cazzo!
E-e grazie al cielo che la penso così! Grazie al cielo se riesco a dirti questo, a dirlo ad entrambi! E sapete perché ci riesco, ci riesco per quella che tu chiami stramba, per Isabel. E' lei che mi ha aperto gli occhi e, che ti piaccia oppure no, è stata l'unica persona a volermi davvero del bene, del bene sincero. Nancy, sì, l'ho amata e solo grazie a Isabel, riesco a dire « l'ho amata » e non « la amo ». Solo grazie a Isabel non mi piango più addosso, erano mesi che non facevo altro e lei è riuscita a farmi mettere da parte tutto. Non fa più male, il pensiero di Nancy ha smesso di farmi male, solo grazie a lei.
Isabel, adesso, potrà sembrarvi la causa di tutti i miei problemi, sì, perché forse lo è in questo momento; ma questo, questo non mi impedisce di vederla come la persona fantastica che è, la persona che voi non conoscerete mai. E perché? Perché siete uguali a quello stronzo che ero e vi fermate davanti a quello stupido soprannome. Stramba. E sapete, sapete... penso di essere anch'io diventato come lei: strambo. Quindi chiamatemi così, mi si addice di più che King Steve o altre stronzate"
"Steve, ascoltaci, tu non sei felice adesso e io voglio che tu lo sia, ma... non so" sussurrò sua madre, quasi supplicandolo di ascoltarla, risvegliandosi come da tutti quei suoi vaghi pensieri.
"Io non sto più con lei" si rivolse alla donna, con un sussurro spezzato, "da un mese, quindi... quindi se sono così il problema, non è perché stia con lei"
"Sì, ma è sempre il suo pensiero che ti rende così, pensi che non me ne sia accorto... sei diventato, sei diventato un fallito!" esclamò tagliente suo padre.
Entrambi gli occhi, quelli di Steve e quelli della madre, si poggiarono all'unisono su quelli del padre, guardandolo sorpresi. Ma un taglio profondo si faceva strada nel petto di Steve, affondando fino al cuore. E bruciava, pulsava, lacerava tutto il resto.
"Io-io un fallito?" chiese, sperando che fosse tutta fantasia, sperando che non l'avesse davvero detto.
"Sì, Steve, sono mesi che ci penso. Sei diventato un fallito, non ne fai una giusta. E per questo, per questo io posso solo che avvisarti: devi stare lontano da quella fottuta ragazza, dimenticarla, ok?! Smettila di pensarci e pensa a te stesso, niente più buffonate, niente più stranezze! Nulla di nulla! Ora va' in camera, va'! Sali e fatti un esame di coscienza!"
"Ti odio!" furono le ultime parole che Steve riuscì a pronunciare, catapultandosi poi nella sua stanza.
Chiuse la porta e si gettò sul letto, mentre, sdraiato, prese a guardare il soffitto, illuminato dalla luce argentea della Luna. Era alta nel cielo e sentiva il suo sguardo poggiato su di lui. Chissà se stava guardando anche Isabel?
A quel pensiero sorrise sinceramente, come da tempo ormai non faceva più. Certo, magari all'apparenza sembrava tutto a posto, ma ogni giorno moriva dentro, moriva dalla voglia di sistemare tutto.
Sentì una lacrima solcargli il viso e quella fu la goccia che portò con sé tutto il resto. La tristezza, la rabbia e il rancore si riversarono sul suo viso, come una poggia purificante. Solo che quella volta non sarebbe bastata a spazzare via tutto.
Chiuse gli occhi, sperando che qualcuno si presentasse lì, che qualcuno asciugasse le sue lacrime. Perché era successo, quella lontana sera di marzo, si era sentito considerato. Per una volta non era stato solo lui ad aiutare, a confortare, a proteggere. Quella sera passata, aveva capito che Isabel era lì, che si preoccupava davvero per lui. Ed era riuscito ad accorgersi di questo con pochissimi e banali gesti, come le lacrime che gli aveva asciugato.
Ma ora cadevano sulle sue guance copiosamente, toccando il terreno morbido di quel materasso.
Più pensava, più ogni angolo di quella stanza gli ricordava qualcosa. Anche quel letto. E faceva male pensare a quello che c'era stato, ad azioni, a gesti dolci e gentili che ora rimpiangeva. All'amore, all'amore fatto con Nancy su quelle lenzuola per la prima volta. Era stato magico, ma non valeva più nulla, se non il prezzo di un ricordo.
Sentì le voci lontane dei suoi genitori alzarsi leggermente, fino a quando tutto non tacque. Adesso sì, che si sentiva solo.
Altre lacrime gli rigarono le guance e, tirando su con il naso tutta quella tristezza, si poggiò sui gomiti, quanto bastava per guardare davanti a sé: la finestra era sempre lì, ma Isabel non c'era più. Quanto avrebbe dato per vedere un'altra volta quel suo viso delicato comparire dietro a quel vetro!
Quella notte, non aveva compreso l'importanza di quel momento. Ora, invece, quando, su quel precipizio, vedeva quel ricordo cadere lontano, sentiva male. Una fitta al petto, dritta al cuore, una grande ferita che il mondo gli aveva inferto. Colpito anche da se stesso. La rivoleva nella sua vita, non per sé, per egoismo, ma per entrambi. Sorridevano così tanto quando erano insieme, ridevano e stavano bene, come se tra loro non ci fossero mai stati problemi. Erano due persone nuove insieme, due persone bellissime.
In quell'abisso di pensieri, un leggero bussare alla porta fece destare Steve da tutto quell'annegare. I suoi occhi si illuminarono, lucidi per quelle lacrime, e in quel momento sperò che il cielo l'avesse ascoltato, che dietro alla porta ci fosse Isabel.
"Posso entrare?" domandò la voce di sua madre, sussurrando.
Quel bagliore si spense e il ragazzo abbassò lo sguardo: non aveva voglia di parlare con lei, non dopo quello che era accaduto là sotto; quindi non rispose e gettò di nuovo la schiena sul materasso del letto, sperando che se ne andasse.
Ma la porta si aprì lo stesso e si richiuse subito dopo dietro al corpo della donna, che di certo non si era arresa davanti a quel silenzio. Tacendo, si sedette sul letto e portò il viso sopra quello del figlio, lasciandogli un bacio leggero sulla fronte.
Steve sentì qualcosa cedere dentro di sé a quel contatto lieve. Anche quella volta non riuscì a reprimere tutte quelle lacrime amare: "Mi dispiace, mamma" sussurrò flebilmente, mentre sentiva la sua sicurezza volatilizzarsi.
"Shhh" gli accarezzò lentamente i capelli, pettinandoglieli all'indietro, continuando a guardarlo. Era un mese che lo vedeva in quello stato, così fragile, e non faceva che preoccuparsi, "non ti devi dispiacere, tesoro mio. Papà, ha esagerato prima, ma abbiamo entrambi paura... paura per quello che ti sta succedendo"
Steve sospirò e chiuse gli occhi, rilassandosi al tocco leggero di sua madre: "non doveva dire quelle cose su di lei"
"Non le pensa davvero"
"Ma le ha dette e fa male, Isabel... Isabel non è così"
"Lo so"
"No, non lo sai, mamma... non lo sa nessuno"
"Io lo so perché ho visto te" sorrise sua madre, continuando ad accarezzargli i capelli, come faceva quando lui era ancora un ingenuo neonato, sorridente e senza alcune preoccupazione.
"In-in che senso?" chiese Steve, riaprendo gli occhi a quelle parole; non riusciva a capire cosa volesse intendere, cosa stava dicendo?
"Lo so, Steve, perché ho visto queste labbra qui" le indicò, sfiorandole lievemente con un dito, "sempre sorridenti... non ti ho mai visto sorridere tanto, nemmeno quando eri un bambino, quando ridevi così tanto, tesoro mio.
Negli ultimi mesi, ti ho visto felice ogni giorno, come... come se qualcosa ti avesse improvvisamente illuminato. E io stavo bene, stavo bene perché stavi bene anche tu.
Quindi io so... io so che Isabel" pronunciò per la prima volta quel nome, sentendo uno strano, dolce effetto, "Isabel non è come l'ha descritta tuo padre, perché io ho visto te in quel modo.
Deve essere per forza speciale per farti un effetto del genere... anche adesso. Anche adesso che stai male, perché vedi, Steve, al mondo si sta male solo per poche persone, per quelle poche a cui teniamo quasi più della nostra vita. E io sto male per te, perché ti vedo così. Ma... hai ragione a dire che non è colpa sua, perché non lo è... la colpa-"
"La colpa è mia mamma" disse lui, stropicciandosi con le mani il viso, come per lavarsi di dosso quella grande colpa, che solo adesso era riuscito ad ammettere ad alta voce.
"No" esclamò secca lei, guardandolo fisso, cercando di non cedere alla sensibilità di quel momento.
"No?"
"No, la colpa non è vostra. Né tua, né di Isabel. La colpa è di quello che c'é tra voi due, perché c'è ancora qualcosa e lo vedo mentre ti guardo, ogni dannatissimo giorno. La colpa è dei sentimenti che avete l'uno per l'altra. Amicizia, amore... non importa, sono questi sentimenti a renderti così, a rendervi così.
Non so cosa sia successo tra voi, non so chi abbia sbagliato e se ci sia davvero qualcuno che ha sbagliato davvero, ma so che la colpa non è vostra. E' dei sentimenti, dei bei sentimenti"
"Non voglio più provarli allora mamma, se poi devo stare così... così da schifo"
"Ehi" esclamò ancora più ferma lei, prendendogli velocemente il viso tra le mani e facendo incrociare i loro occhi, "non dirlo più, ok? Perché, Steve, sono questi sentimenti che ti fanno vivere davvero. E il dolore è bene, vuol dire che c'é stato qualcosa prima, qualcosa per cui vale piangersi addosso.
Ma ora ascoltami bene, non è tutto perduto, ok? Lei è ancora qui, in questa città e dentro di te. Quindi, non gettarla via, non lasciartela sfuggire, non fuggite a vicenda l'uno dall'altro. Perché, credimi, non c'é abbastanza tempo in questa vita per giocare a nascondino.
Io voglio rivederti sorridere, Steve e so che... che l'unica che può ridarti quella felicità è... è solo lei. Non io, non un altro amico, non un'altra ragazza, lei.
Chiudi questa storia dell'evitarsi e cerca di andare oltre"
"E-e se non dovesse funzionare?"
"Funzionerà, funzionerà se ci credi veramente, se ti lasci guidare da questo" sussurrò e la sua mano candida si poggiò sul petto del suo bambino. Nonostante strati di pelle e stoffa, la mano di sua madre arrivò dritta al cuore di Steve, in tutti i senti.
Aveva ragione, doveva avere coraggio, ma continuava ad avere paura. Era assurdo come non avesse avuto timore a gettarsi in un mare di Democani, ma adesso, che doveva solo parlare con una ragazza, si sentiva così timoroso.
Sua madre gli aveva aperto una nuova via, ma era incerta, difficile e forse anche molto lunga. Era confuso, ma almeno non era certo di fallire.
·˚ ༘₊· ͟͟͞͞꒰➳ Eccomi, scusate la sparizione nel Sottosopra!
Questo capitolo mi ha fatto commuovere mentre lo stavo scrivendo, giuro. Spero possa piacervi, davvero.
Un saluto grande
@MaryInes_
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