0.2 "Starcourt"
Una grande folla, fin troppo grande. Flussi di persone affluivano dentro quell'immenso edificio; diverse, ma tutte con una felicità effimera stretta nel petto. Tutte in una fila sconnessa, persi nella loro banalità, persi nella quotidianità.
Isabel non poté fare a meno di fissarle: sembrava di essere tornati a due anni fa, la scuola e tutto quel lontano mondo da affrontare. Tutto uguale, un'immagine già vista, emozioni già provate.
Scosse la testa: non era lì per pensare al passato, non in quel momento; era lì per cercare di ristabilire quella che per mesi aveva creduto normalità, una nuova conquista, una nuova esperienza; che aveva sperato potesse continuare per sempre. Ma era tutto finito, spazzato via in una sera di giugno fin troppo fredda.
Senza più esitare, parcheggiata la bici, si fece strada tra la folla. Ad ogni passo, la gamba le doleva leggermente di più, ma era solo dolore fisico, sopportabile.
Pochi secondi dopo, il suo corpo risplese sotto tutto quel colore, riversato come una cascata all'interno del centro commerciale: simili a piccole pedine, uomini e donne di tutte le età vagavano al suo interno, mentre Isabel rimaneva paralizzata in un piccolo buco in mezzo a quel minuscolo e acceso mondo. Non aveva mai visto nulla di simile, questo era il prezzo di vivere a Hawkins.
Ma quel veloce isolamento fu spazzato via da figure ingombranti, che senza ritegno presero a schiacciarla in mezzo ai loro corpi pieni di frenesia.
Tra le sue mani apparirono miriadi di volantini, miliardi di parole nelle sue orecchie, urla, sorrisi, suoni, musica, persone, caos.
Velocemente infilò nella tasca tutti quei foglietti, riprendendo la sua vera ricerca.
Negozio dopo negozio, sbirciò sperando in un volto familiare tra tutti quei visi. Ma nulla.
Salì al piano superiore, con il petto dal ritmo altalenante e il respiro corto, in ansia. Troppo caos.
Tra bracciate, spinte e qualche insulto, giunse davanti a un'insegna e lì si fermò: era un negozio leggermente più piccolo rispetto agli altri, dalla scritta luminosa e dai toni marinareschi. Scoops Ahoy.
"Ed ecco a te... passa una nuova ed entusiasmante giornata" pronunciò, quasi come una cantilena, Robin, passando al suo nuovo cliente un altro cono gelato. Aveva iniziato a lavorare da poco e già non sopportava più alcun viso, alcuna parola e poi... quella stupida divisa.
Sbuffò, poggiando su un panno bagnato il suo porzionatore, leggermente colorato di rosa. Di certo quel colore non le si addiceva, non alla sua anima, se come dicono esistono i colori per questa. Il suo, certamente, sarebbe stato scuro, forse un rosso intenso o meglio un grigio. Stanchezza, oppressione, passato e rimorso; ogni cosa pesava sulle sue spalle. Ciò che aveva fatto e ciò che ancora non era riuscita a fare.
Tutta l'estate a sentir parlare di Isabel, l'aveva riportata spesso a quel giorno, quegli attimi in cui aveva incontrato il suo viso spezzato e non aveva fatto nulla, se non fissarla, sperando di non trovarsi mai al suo posto.
Si poggiò al muro, sospirando un'altra volta: peccato non si potesse tornare indietro, proprio come in quel film, "ritorno al futuro".
Con la schiena distesa sulla stessa parete, Steve osservava tutto quel bianco davanti a sé. Con la mano distrattamente poggiata sulle sue labbra, l'immagine di quelle di una ragazza gli si parò nella mente: erano rosse, vive, calde, ma lontane, molto.
Le sentì avvicinarsi alle sue, farsi molto vicine per poi svanire. Prima Nancy, sapeva di averla amata e ancora faticava a dimenticarla. Ma perché? Perché si era ostinato tanto a volerla amare, lei non lo aveva mai amato, forse non le era mai importato di nulla. Eppure, perché lui aveva continuato a provare quei sentimenti, illudendosi sempre di più.
Poi, l'immagine di quelle labbra riapparí: erano bellissime, ma inavvicinabili. Sapeva a chi appartenevano e sapeva che lei c'era stata, che lei, forse anche non amandolo, c'era stata per lui. Si erano scambiati i ruoli e lei era entrata nel suo vecchio mondo, ma non avrebbe mai dovuto avvicinarla.
Non poté fare a meno di sospirare, come da un mese già faceva. In biblico tra i suoi pensieri, cercava di capire. Ma capire cosa? Troppe cose.
Sentiva la colpa incombere su di lui, sentiva di aver sbagliato e non riusciva a capire perché. Gelosia? Rabbia? Solitudine? La speranza di riuscire a riprovarci? Amicizia o forse...
Chiuse gli occhi, annegando tutto in un profondo silenzio. Doveva voltare pagina anche per lei, era finita ancora prima di iniziare.
Senza più esitazioni, Isabel entrò dentro il negozio, spostando i corpi sul suo percorso.
Come in quel freddo corridoio, come quando con lo sguardo pieno di lacrime aveva pianto davanti a tutti e sentito quelle due parole, il suo sguardo incontro quello di quella ragazza: Robin Buckley. Tanto simili, quando profondamente diverse. Entrambe strane, entrambe sole.
Distrattamente le rivolse un sorriso vuoto: "Ehi" disse, avvicinandosi sempre di più al bancone.
Robin si drizzò, alzando il viso verso di lei e guardandola, con grade curiosità: era tanto che non si vedevano, eppure Isabel non avrebbe mai saputo che per un mese era stata una costante di discussioni in quel piccolo negozio. Una formula fissa, senza cui Steve non poteva andare avanti.
Isabel, Isabel, Isabel...
"Isabel!" esclamò, con una certa forza e tono, solo per farsi sentire da qualcuno.
La testa di Steve, come richiamata, si alzò dalla parete. Gli occhi si spalancarono: era tornata, era fottutamente tornata ed era solo a solo un muro e qualche passo da lui.
Non poté non pensare ad uno scherzo di Robin, ma presto si convinse del contrario.
"Come va?" chiese Isabel, continuando a guardarla, "sai, ecco, beh... mi chiedevo se..."
"Se... se cosa?" cercò di farla proseguire l'altra, non capendo il motivo di tutta quella esitazione da parte di entrambi. Perché Steve non usciva?
La mano fredda del ragazzo si posò sulla maniglia della porta: doveva uscire, doveva vederla. Era passato un mese e qualcosa dentro di lui lo spingeva a spalancare quell'anta, a gettarsi tra le sue braccia, come se non fosse mai successo nulla. Ma un'altra forza incollava i suoi piedi a terra.
Lo sguardo di Robin si oscurò, come se una grande ombra si fosse posata su di esso e Isabel non poté fare a meno di notarlo. Anche la luce parve farsi sempre più fioca e una vera e propria sagoma si proiettò sul bancone davanti ai suoi occhi.
"Ehi, guarda, guarda chi si rivede in giro" proruppe una voce alle sue spalle, che conosceva fin troppo bene.
"Jake...?" si distrasse, voltandosi verso la sua figura alta e slanciata, dai lineamenti fin troppo duri.
"Isabel..." sorrise leggermente lui, avvicinandosi di più a lei e afferrandole una mano tra le sue dita.
Quello fu il momento in cui Steve decise di non uscire, perché farsi ancora del male?
"Allora... come mai qui?" le chiese il nuovo ragazzo, continuando a guardarla, senza più alcuna distrazione.
Ma Isabel pensava ad altro, pensava che tra tutte le persone che avrebbe potuto incontrare quella mattina, proprio lui doveva essere lì. Aveva sperato per il viaggio intero che Jake fosse a casa sua ad aspettarla, a salutarla, sentendo di contare qualcosa per qualcuno. Ma aveva solamente ritrovato le sue vecchie cose, le sue piccole distrazioni e tristezze; e proprio quando si era rassegnata a non volerlo più rivedere, eccolo apparire. La calamita giusta per respingere ogni Steve in circolazione.
"Si, ecco... un saluto, per... Robin, ma ora devo-devo andare" disse istintivamente, mentendo e allontanando velocemente quelle dita strette nelle sue. Voleva attenzioni eppure, quando le otteneva, le respingeva.
"Ma insomma, Isabel... ci siamo appena rivisti, non mi puoi lasciare così adesso!"
"Io-io ho da fare, mi spiace Jake, sarà, sarà per un'altra volta" indietreggiò, con un sorriso fugace sulle labbra, sentendo come l'impazienza di doversene andare.
"Qui, domani sera, alle nove" quasi ordinò lui, infilando le mani nelle tasche.
Isabel annuì e corse fuori, riprendendo a respirare con più regolarità. Si sentiva così stupida, ma per una volta aveva la sensazione di aver fatto una cosa giusta. In quel momento non si sentiva di riprendere in mano anche quella storia lasciata in sospeso. C'era troppo da riparare e quella avrebbe potuto aspettare.
Immersa tra i suoi pensieri, non si accorse nemmeno di aver attraversato tutta la folla del centro commerciale, percependo ogni tanto il suo dolore alla gamba, ritrovandosi poi subito fuori e scorgendo in lontananza la sua bicicletta. Sospirò, respirando quell'aria libera: sembrava migliore, più calma, libera da quella che usavano e riusava tutti gli altri.
Con alcuni balzi, afferrò la sua bici tra le mani, liberandola da dove l'aveva posata e salendovi sopra. Qualcosa scricchiolò, un rumore di carta, leggero e quasi impercettibile. Velocemente, portò una mano sulla tasca dei suoi pantaloncini, tastandoli: erano stati tutti quei volantini. Ne estrasse alcuni, iniziando a rigirarseli tra le dita: "Gap, il lavoro potrebbe essere tuo"; "A corto di soldi, Burger King offre una giusta paga" e via discorrendo, ma uno solo fu in grado di non finire volatizzato nel vento come tutti gli altri.
"Visitare tutto il centro commerciale tutto il giorno, allora le consegne fanno al caso tuo. Posto di lavoro per dipendenti scelti e qualificati a seguito di un attento colloquio"
Bastarono queste parole e le sue dita si cinsero su quella carta fin troppo spenta e neutra.
Sarebbe stato suo, avrebbe ottenuto quel posto.
Sarebbe stata più lontana dal mondo e forse un passo più vicino per ricontrarlo. Aveva bisogno di vederlo.
*se andate sulla pagina degli aesthetic tra poco comparirà quello di Jake
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