Strani Personaggi
Mi svegliai di colpo, scattando a sedere sul letto.
Avevo il fiatone e sentivo il bisogno di andare a vomitare. Non mi era mai piaciuto sognare.
Mi alzai tremante, faticando a reggermi in piedi, e zoppicai fino al bagno.
Mi sciacquai la faccia con acqua gelata, rabbrividendo. Respirai a bocca aperta, reggendomi con i palmi delle mani al lavandino, mentre le ultime gocce mi scivolavano via dal naso e dalle ciglia.
Guardai il mio riflesso. Avevo lo sguardo stanco, cerchiato dalle occhiaie nere che ormai segnavano il mio viso da anni, le labbra color sangue perché troppo screpolate. Gli occhi erano ancora più rossi dell'ultima volta: sembravano risplendere, dando l'impressione di vivere di luce propria.
Mi precipitai in camera e radunai i vestiti del giorno prima, infilai pantaloni e maglietta, per poi accorgermi di non trovare più una scarpa. Mi guardai attorno, invano, così mi sdraiai a terra e ficcai una mano alla cieca sotto al letto.
«Porca tro...!» Quel bastardo del gatto si era nascosto lì sotto e in quel momento stava usando la mia mano come tiragraffi. «Stai fermo!» gli urlai. «E ridammi la mia scarpa!»
Due minuti dopo ero fuori di casa.
Erano le due di notte e per arrivare alla vecchia chiesa avrei dovuto farmi una mezz'ora scarsa di viaggio in tram. Sarebbe dovuto arrivare in due minuti che però furono sei, durante i quali io congelai stretta nel mio cappotto di pelle.
Una volta salita potei constatare di non essere sola: c'era un ragazzo, pelle abbronzata e capelli castano scuro che sbucavano da sotto un cappuccio. Sarà stato poco più giovane di me. Se ne stava sdraiato su tre sedili a dormire a braccia incrociate. Mi chiedevo come facesse a non morire di freddo: aveva addosso solo una felpa, aperta sul davanti tra l'altro.
Quando scesi mi ritrovai ai margini di una piazza. Dalla parte opposta alla mia vi era la vecchia chiesa della città.
Attraversai la piazza e aggirai la chiesa, per andare verso il cimitero. Stranamente, quel luogo mi metteva a disagio; nonostante fossi abituata ad atmosfere di quel genere ogni volta che ci passavo vicino venivo assalita da nausea e mal di testa.
In fondo al cimitero, a metà tra lo steccato bianco che ne delimitava i confini, c'era una casettina a due piani tutta storta, come di quelle che si sentono nelle favole. Aveva i muri dipinti di viola, delle finestre piccole e quadrate e una porta nera. Dall'alto, una lampadina dalla luce ambrata illuminava un cartello appeso allo spioncino.
I Becchini
Ospiti ben accetti
(di più se morti)
Battei tre volte il chiavistello e poi aspettai. Un venticello gelido iniziò a soffiare. Nulla si mosse.
Ritentai: battei con decisione altri tre colpi sulla porta ormai segnata. Il mio battito iniziò ad accelerare e le mie dita vennero percorse da spasmi. Mi strinsi ancora di più nella mia giacca, tirando un profondo respiro a bocca aperta. Tentai di deglutire un nodo alla gola.
Ci fu un calo di corrente e la luce della lampadina si affievolì per un attimo.
Fortuna volle che la terza volta, quando ormai mi stavo mordendo le labbra a sangue, la porta si aprisse verso l'interno. Ne sbucò fuori il Becchino.
Indossava un paio di pantaloni neri e un maglione aderente, che metteva involontariamente in mostra il fisico asciutto e muscoloso del ragazzo. Era molto alto, mi superava di una ventina di centimetri, e aveva dei capelli neri e corti, che riflettevano la luce lunare. Riguardo al volto, nessuno lo aveva mai visto: indossava sempre una maschera bianca (e a mio parere un po' inquietante) con sopra disegnato un sorriso e, a lato della fronte, un simbolo che non sapevo decifrare.
«Lily...» sospirò, la voce attutita dalla maschera. «Che ci fai qui?» si ravvivò i capelli, cercando di svegliarsi.
«Ho bisogno di una consulenza.»
«Adesso?!» esclamò, cercando di fare piano. «Sono le due di notte, lei sta dormendo!» sussurrò, indicando l'interno della casa.
«Non me ne frega un cazzo se sta dormendo!»
Per un attimo mi guardò, una silenziosa supplica nei suoi occhi. Poi sospirò, rassegnato, si passò di nuovo una mano tra i capelli e mi disse di aspettarlo lì.
Dopo qualche secondo, una luce al secondo piano si accese. Sentii un vociare sommesso, un paio di urli sussurrati, dunque dei passi scoordinati che scendevano le scale.
Quando la porta si riaprì, mi ritrovai davanti la Becchina.
La sua pelle color avorio, illuminata dalla luce della lampadina, faceva contrasto con le labbra violacee donandole un aspetto macabro. Aveva un nasino all'insù e un paio di occhioni neri contornati da delle ciglia lunghissime. Al contrario del Becchino, lei era più bassa di me, ma aveva il tipico fisico delle ragazze che fanno sport sin da giovani, nascosto da una mantella nera che indossava sempre.
«Sapevo che eri tu» mi disse, lanciandomi un'occhiata truce. Poi rientrò e andò a sedersi sul divano che si intravedeva sul fondo della stanza. «Beh, che fai? Non entri?»
Questa volta mi ritrovai con la Becchina che, per mezzo di una lente d'ingrandimento, studiava ogni singola sfumatura della mia iride destra, tenendomi le palpebre malamente aperte con le dita. Ero seduta su una poltrona rossa. L'altro necroforo se ne stava sul loro divano malconcio a osservare.
La loro casa era piccola: quel divano, la poltrona e un vecchio televisore formavano il salotto, mentre la cucina era situata dietro di noi. Al piano superiore vi dovevano poi essere le camere da letto.
«Lily... Quanto tempo fa sei venuta l'ultima volta?» Il suo tono era un po' troppo dolce per i suoi standard.
«Due mesi fa» risposi prontamente.
«Bene» convenne, «allora sulla tua mano c'era solo un livido, giusto?»
«Sì.»
«Quanto tempo fa si è esteso all'avambraccio?»
«Un... mese e mezzo fa.»
«E i fulmini, le diramazioni?»
«Un mese fa...»
Anche il Becchino le aveva rivolto un'occhiata interrogativa, da dietro la sua maschera.
«E gli occhi hanno iniziato a cambiare da più o meno una settimana» l'anticipai.
«Ottimo...» intrecciò le dita delle mani, guardandosi le unghie con un sorrisetto. «E ora dimmi... PERCHE' DIAVOLO NON SEI TORNATA PRIMA?!» sbraitò, saltando in piedi e colpendomi in testa con un giornale arrotolato sbucato dal nulla. «SEI PER CASO IMPAZZITA?!» urlò ancora, con il Becchino che la tratteneva per la vita dal saltarmi addosso.
«Ho avuto da fare!» trasalii, tenendo le mani davanti al volto.
Lei si rimise a sedere, braccia incrociate sotto il seno e gambe accavallate. Sbuffò rumorosamente, strisciando i denti.
«Stronzate!» esclamò, con la voce alterata dalla rabbia e un tic nervoso al sopracciglio destro.
Alzai gli occhi al cielo. Mi schiarii la voce.
«Quindi è... grave?» La mia gola si strinse.
Lei rivolse uno sguardo di incertezza al Becchino, cambiando bruscamente espressione.
Quei due dovevano essere l'uno il sostegno dell'altra: le occhiate che si lanciavano, il modo in cui si parlavano...
«Sì» disse secco lui, come per evitarne il dispiacere alla Becchina.
Deglutii a vuoto.
«Quanto?» chiesi con voce spezzata.
«Tanto» ribatté la ragazzina. «È una maledizione.»
Ci fu un altro calo di corrente.
Il mio mondo mi crollò addosso, schiacciandomi sotto le macerie dei palazzi che avevo costruito in diciannove anni della mia vita. Fu come se mi avessero tolto improvvisamente l'aria.
Fissai il vuoto per qualche secondo, poi mi scappò una risatina: «Ho imparato a uccidere a dieci anni. Dieci! Ho sterminato intere gilde per conto di Black Ring. Mi sono fatta nemici in tutta la città, e mi becco una maledizione?» Risi di nuovo. «Non qualche vendetta familiare; non qualcuno che riesce finalmente ad ammazzarmi, no. Una maledizione, ecco cosa mi ucciderà! Un fottutissimo incantesimo.»
«Chi ha detto che morirai?» intervenne il ragazzo. «Nessuno ha detto che non c'è una cura».
Portò il busto in avanti e appoggiò i gomiti alle ginocchia, intrecciando le dita avvolte nei guanti che indossava sempre. Solo in quel momento, non appena tornò a guardare me, notai che i suoi occhi erano di un azzurro limpido, color ghiaccio.
«Sì, come no» ridacchiai tra me e me. Lui e la Becchina si scambiarono un altro sguardo. «Aspetta, se-sei serio?»
«Assolutamente, ma è lei l'esperta» indicò la sua compagna.
Incrociai lo sguardo con quello di lei. La Becchina sbuffò, appoggiandosi allo schienale del divano.
«Farai esattamente ciò che ti dico» mi minacciò con lo sguardo.
Arrivai alla fermata in un paio di minuti.
Una volta salita sul tram, mi accorsi di essere sullo stesso mezzo che avevo preso all'andata: ci ritrovai il senzatetto di prima, che continuava a dormire. Mi sedetti nella coppia di sedili paralleli a quelli occupati da lui, distendendo le gambe sui luridi seggiolini arancioni. Iniziai a contare le fermate, quando, di colpo, il tram inchiodò bruscamente.
Il ragazzo venne scaraventato a terra dal colpo. Lo fissai per un attimo, ancora aggrappata allo schienale del mio posto con un braccio e a un palo con l'altra mano. Lui rimase immobile a terra. Poi, dalle due file di sedili, emerse una mano guantata, con la quale si aggrappò alla seggiola e si tirò su a sedere.
«He-Hei... tutto bene?»
Guardandolo dritto in faccia si poteva notare che il colore della sua pelle e i lineamenti del viso ricordavano un'origine brasiliana.
«Sì, grazie...» disse, in un risatina imbarazzata.
Alzò lo sguardo, e quando i suoi occhi si posarono su di me si bloccò di colpo. Le sue sopracciglia si inarcarono e le sue palpebre si spalancarono.
«Che c'è?» mi voltai a guardare dietro di me in entrambe le direzioni.
I suoi occhi non si mossero da me. Poi, mi squadrò lentamente, abbastanza da farmi capire che sapeva esattamente chi avesse davanti.
Oh, merda...
«Oh, beh, questo sì che è interessante...» sussurrò fra sé e sé.
La mia mano andò istintivamente ad afferrare il mio coltello.
«Cosa ci fa la Furia dei Rin-»
L'attimo dopo gli fui addosso, scaraventandolo in mezzo ai sedili e soffocando il resto della sua frase. Lui si appiattì il più possibile, scappando dal freddo della lama che gli premeva sul collo. Provò ad aprire la bocca, ma io gliela tappai con lo sguardo.
«Cosa vuoi da me?» lo strattonai per la maglia.
Lui mi sorrise, sfottente: «E così questa è la tua faccia, eh?»
«Perché sai chi sono? Perché non so chi sei tu?»
Perché, Dio, perché mi tocca dover ammazzare qualcuno a quest'ora?!
«Non sapevo avessi gli occhi di un demone» sputò.
«Parla!»
«Ti si vede un lembo della maschera» puntò un dito verso la mia tasca dalla quale, effettivamente, fuoriusciva un angolo della bandana. Rialzai gli occhi su di lui.
«Il Circo dei Matti dovrebbe imparare a farsi i cazzi propri» sussurrai, staccando di qualche centimetro il coltello dal suo collo, e in quell'istante lui sgusciò fuori dalla mia stretta. Scomparve letteralmente davanti ai miei occhi.
... Cos'era quello?
Mi voltai di scatto, in posizione di difesa. Lo trovai nel sedile dietro di me, comodamente seduto.
Lui inarcò un sopracciglio: «Mi hai appena dato del Matto?»
«Vuoi farmi credere di essere un Ring?» specchiai il suo sguardo di sufficienza. Mi lanciai di nuovo verso di lui, ma il ragazzo mi evitò catapultandosi con un salto due sedili avanti. «Noi non facciamo acrobazie!»
«I Ladri però sì» sorrise, facendo capolino dagli schienali.
Lascia di colpo cadere la guardia, improvvisamente annoiata.
«Davvero? Un Ladro? Una leggenda metropolitana?» calcai il tono. «Sto già cercando di ammazzarti, non c'è bisogno che mi istighi!»
«Posso proporti un patto per dissuaderti dal farlo?» mi sorrise ancora. Io afferrai il coltello con tre dita, pronta a lanciarglielo. «Andiamo, cosa se ne fanno i Ladri della Furia dei Ring?»
«Ecco, vedi, lo stai facendo di nuovo!»
Caricai il colpo, ma all'ultimo momento il tram frenò in una voluta inchiodata e io venni scaraventata tre metri più in là. Mi voltai a lanciare uno sguardo di veleno al conducente. Quando mi girai di nuovo, il ragazzo mi stava guardando, adesso in piedi, comodamente appoggiato a un palo.
«Il conducente è dei nostri» sussurrò, a scopo informativo.
Le portine si aprirono e io rialzai il braccio, pronta a tirare la mia lama.
«Ferma!» urlò lui di colpo. «Prima di sporcare tutto di sangue, immagino rivorrai questi indietro. Il tuo portafoglio» lanciò verso di me un borsello di pelle nera e sì, era il mio. «Telefono, documenti, hai solo diciannove anni? Ti ho sempre immaginata sui venticinque! Pistola e caricatore...»
Più andava avanti, più avevo voglia di ucciderlo.
«E... oh, questa era importante?»
La maschera pendeva dalle sue dita. Il mio cuore saltò un battito. L'attimo dopo la bandana venne lanciata fuori dal tram e io mi scaraventai dietro a essa subito prima che le portine si chiudessero.
Quando mi rialzai, il tram era già lontano e il sangue mi ribolliva nelle vene.
Mi ritrovai davanti a un enorme edificio bianco. Il tetto a punta era sostenuto da un quartetto di colonne ioniche, che separavano le tre porte che davano sulle sale della biblioteca.
Una volta dentro, mi si parò davanti un atrio che di giorno doveva essere molto affollato. In fondo alla sala vi era una guardiola aperta ai lati, affiancata da un orologio vecchio stile e una porticina.
Mi avvicinai a grandi passi alla guardiola. La scrivania era occupata da un computer, un portamatite di metallo e un temperino a manovella. Vi erano poi un paio di libri così vecchi da non riuscirne più a leggere il titolo e anche un campanello argentato.
La seggiola a rotelle dietro la scrivania era vuota, così battei un colpo sullo stantuffo del campanello e iniziai ad aspettare una risposta che però non arrivò.
Suonai nuovamente, due colpi, ma anche quello fu inutile.
Così decisi di dare sfogo all'ossessa che era in me e presi a suonare il campanello a intervalli regolari di "muoviquelculo" secondi, quando, di colpo, da dietro la guardiola cadde giù un cartello che per poco non mi prese in faccia.
Non appena la sua oscillazione divenne regolare, potei notare che era fissato con delle catenelle al soffitto, e che, rosso su bianco, diceva:
Smetti di suonare, idiota, ti ho sentito!
Così mi arresi e iniziai ad aspettare, incrociando le braccia e battendo ogni tanto il piede a terra. Il dondolare del cartello sembrava avere lo scopo di farmi impazzire.
Dopo ben cinque minuti, la porta sotto l'orologio si aprì e ne uscì fuori una donna. Vestiva un abito nero da lavoro e ai piedi portava delle scarpe i cui tacchi risuonavano per l'intero salone a ogni suo passo. In testa indossava un cappello a cilindro adornato con una striscia di stoffa arancione, malamente fissata con degli spilloni e che ricadeva oltre la visiera, andandosi a pareggiare con la frangia nera e liscia che le copriva la visuale.
Si muoveva a tentoni. In braccio portava una pila di libri che superava la sua statura, in un vano tentativo di farli stare in equilibrio. Appena la vidi mi precipitai ad aiutarla.
«Grazie mille!» mi sorrise la Bibliotecaria, posando le due pile di libri sulla scrivania. «Cosa posso fare per te, Lily?» chiese, mentre per mezzo di un meccanismo di fili faceva risalire il cartello.
«Ciao, Orange. Mi manda la Becchina» Tirai fuori il mio portafogli e ne estrassi un biglietto. Glielo consegnai. «Cerco questo libro.»
Lei prese il foglio e rilesse il titolo un paio di volte, pensierosa, poi me lo restituì.
«Non mi pare di averlo mai sentito, ma...» accese il computer e inserì la password per entrare nel suo account, «... proviamo a vedere cosa ho in archivio!».
Digitò impacciatamente il titolo del libro e attese qualche secondo mentre il software caricava. Mi diede un'espressione delusa.
«Mi spiace, ma non lo abbiamo» storse la bocca.
La ringraziai per il tentativo, poi chiesi: «C'è Green?»
«Certo, te la vado a chiamare!»
Quello che accadde dopo fu una delle cose più enigmatiche che io abbia mai visto.
Di colpo sulla guardiola calò una serranda. Quando questa si rialzò, mi trovai davanti una scrivania pulita e in ordine, completamente diversa da quella di poco prima. Al posto dei libri erano comparse due scatole strabordanti di oggetti e un foglio pieno di codici, mentre davanti a me ritrovai la stessa donna di prima. Questa volta, però, la striscia di stoffa che decorava il suo cappello era di un bel verde sgargiante.
«Salve Lily!» esclamò senza alzare lo sguardo, seduta sulla sedia mentre scribacchiava sul foglio. «Lunga nottata?»
«Salve, Green. Mi chiedevo se avessi questo libro nella tua merceria.» Le passai il foglio.
La Merciaia ci diede giusto uno sguardo, per poi schiacciare il tasto d'accensione del computer davanti a lei. Scrisse velocemente nella casella di ricerca del server. Nell'attesa, ricominciò a copiare codici sul foglio, prendendo di tanto in tanto un oggetto dalla prima scatola e spostandolo nella seconda.
«Mmm... no» disse alla fine, «non l'ho nel mio negozio. Hai provato a chiedere a Orange?»
Annuii.
«Violet è in casa?»
Alzò un dito, dicendomi di portare pazienza: «Dammi un secondo che vado a cercarla.»
Ed ecco che la serranda calò nuovamente.
Questa volta ci impiegò un po' di più a rialzarsi, ma quando lo fece la scrivania era completamente vuota.
Mi ritrovai davanti Violet, che, con i piedi appoggiati sul tavolo, mi fissava con un sorrisetto mentre si passava tra le dita un lembo della stoffa violacea del proprio cappello.
«Lily» mi salutò, con un sorriso da vipera. «Volevo complimentarmi con te per esserti ripresa la maschera! E anche per aver ammazzato quella povera ragazza...» sussurrò con tono tagliente.
«Dove posso trovare questo libro?»
Lei, invece di guardare il foglio, continuò a fissare me.
«Prima di tutto: cosa mi darai in cambio?» chiese, continuando a sorridere.
«Che cosa vuoi?»
«Informazioni preferibilmente. Ma vanno bene anche libri oppure oggetti...» Si alzò di scatto e mi tirò verso di sé. «Ad esempio: uno di questi occhi rossi potrebbe farmi comodo per saldare un vecchio debito con Green!» Due dita mi aprirono le palpebre a forza.
«No, grazie!» la spinsi via. «Ho incontrato un ragazzo, prima, che diceva di essere un Ladro» le dissi, gesticolando.
«Molti si spacciano per Ladri, e molti si spacciano per Assassini...» si rimirò le unghie.
«E quanti riescono a svuotarmi le tasche?»
Violet alzò lo sguardo.
«... Aveva dei guanti neri e sottili?» Io annuii, anche se non capivo che cosa c'entrassero i guanti. «Allora sì, era un Ladro...» disse fra sé e sé, per poi notare il mio sguardo interrogativo. «I Ladri portano sempre dei guanti neri e sottili, non se li tolgono mai» spiegò, spiccia. «In ogni caso, continua.»
«Beh, l'ho incontrato sul tram. Dormiva su un sedile, e...» non feci tempo a finire la frase che lei m'interruppe.
«Aspetta, sul tram?» Inarcò un sopracciglio. Io annuii. «Pelle olivastra, occhi marroni, capelli castani?» sparò tutto d'un fiato.
«...Sì?»
«Ah, allora hai incontrato Gail!» esclamò, con tono di ovvietà.
«Gail?»
«Già. Fammi indovinare: ti ha rubato un paio di informazioni e poi si è quasi fatto ammazzare.»
«Oh, no, si farà sicuramente ammazzare.» assicurai. «Non che io non abbia altra scelta, è solo che mi ha davvero dato sui nervi.»
«Lascialo stare. Il suo lavoro è rubare informazioni alla gente» spiegò, «non è colpa sua se è snervante, è una deformazione professionale» lo giustificò.
«Immagino che questa non valga come pagamento, vero?» Lei scosse la testa. «Mi sembra giusto...»
«Vuoi un suggerimento?» mi guardò da sotto la frangetta. «Perché non mi dici qualcosa della tua migliore amica?» Il suo tono si era fatto accomodante.
La leggenda narra che Violet avesse una lista con i nomi delle persone su cui aveva troppe poche informazioni. Al decimo posto c'era la mia migliore amica, mentre il secondo era occupato da Black Ring.
«Neanche per sogno!» esclamai.
«Oh, andiamo!» mi disse. «Non mi pare che tu abbia molta scelta».
Io ci pensai.
«E va bene» dissi alla fine, in un sospiro di frustrazione. «È tornata. Ieri.»
«Fantastico!» saltò sulla sedia. «Questa sì che è un'ottima notizia!»
«Ora possiamo passare al mio problema?» chiesi, impaziente.
«Certo, certo, dimmi tutto» si ricompose. Allora le passai il biglietto. «Stai cercando questo libro?!»
«Sì, perché questa reazione?» inarcai un sopracciglio.
«Oh, tesoro!» ridacchiò. «Questo libro è tenuto nei sotterranei consacrati della chiesa!» mi derise. «È impossibile che riesca a procurartelo.»
«Andrò da sola.»
Lei scoppiò in una risata.
«Non dire cazzate» tornò di colpo seria. «Credi che non lo sappia? Hai addosso una maledizione» mi tirò a sé. «Se entrassi là dentro, gli Angeli ti arriverebbero addosso a stormi. Guardati, Lily, ora sei come me: devi nascondere i tuoi occhi, o capiranno che sei diversa.»
Era così vicina che potevo vedere, sentire le sue iridi viola perforarmi il cranio, guardarmi dritto nell'anima.
La spinsi via.
«E allora come faccio, Violet?!» urlai. «Non vedi che sto morendo?!» le mostrai il mio braccio.
«Mandami qualcuno di competente» mi disse, ritornando a sedere. «Gli darò tutte le istruzioni per prendere il libro» mi congedò con un gesto della mano.
Io le lanciai un'occhiataccia.
«Va bene» dissi, a denti stretti.
Ripresi il foglio e me lo infilai in tasca. Uscii, lasciandomi Violet alle spalle che blaterava fra sé e sé qualcosa sul fatto di dover mostrare la biblioteca del Vaticano a Orange.
Andai fuori. Erano le cinque di mattina, l'aria era ancora pungente. Infilai una mano nella tasca dei jeans e ne tirai fuori il mio cellulare. Appena comparve la schermata principale, andai sulla rubrica e scorsi fino alla lettera F, cliccando il tasto di chiamata sul primo nome dell'elenco.
Mi appoggiai il telefono all'orecchio. Attesi, mentre dall'altra parte suonava a vuoto.
Qualcuno rispose.
«Non sei ancora morta, eh?»
«No, ma ci sono vicino.»
Angolo autrice:
Bentornati, vedo che avete deciso di continuare la lettura! Spero che questo capitolo vi abbia interessato. Allora, cosa ne pensate della maledizione di Lily? E di tutti questi nuovi personaggi? I voti fanno sempre piacere ovviamente, ma se avete teorie o idee, vi prego, scrivetemele nei commenti perché mi diverto tantissimo a leggerle!
Al prossimo capitolo,
-Tempest
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