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Capitolo dodici

Per la prima volta dalla fine della scuola apro gli occhi prima che suoni la sveglia.

Resto schiacciata sul materasso, con i piedi nudi a penzolare da un lato e il lenzuolo attorcigliato alle gambe. Solo dopo un paio di minuti, di inutile contemplazione del soffitto giallo canarino, mi volto verso il comodino e disattivo la suoneria.

"Devo ricordarmi di eliminarla" sbuffo, aprendo l'applicazione dei messaggi e iniziando a visualizzarne un paio.

"Tanto non devo più andare a lavoro" borbotto, scrivendo il "buon giorno" a Merion, che non si fa sentire da ieri pomeriggio.

Non gli ho raccontato nulla di ciò che è successo dal veterinario. Da una parte perché so già che mi consiglierebbe di lasciar perdere da principio, e dall'altra perché mi fa rabbia ripensarci.

"Anche se due persone si piacciono, non vuol dire che debbano per forza stare insieme" sussurro a me stessa, ricordando le esatte parole di Calum.

La cosa peggiore di tutta la situazione, escludendo il licenziamento e il povero Duke rimasto ferito, è che ha ragione.

Volendo utilizzare la logica, almeno per una volta nella mia vita, è facile accorgersi che è ridicolo pensare ad una qualche relazione romantica tra noi due. E non perché non ho possibilità di piacergli, dato che l'ha confessato prima lui.

Sarebbe solo un modo di complicarci la vita a vicenda, e direi che è proprio quello che voglio evitare.

"Vabbè, meglio non pensarci" decido, scendendo in cucina con gli occhi ancora semi-chiusi dal sonno.

"Giorno, non vai a lavoro oggi?" Mi accoglie mamma, posizionandomi prontamente una tazza di caffellatte davanti.

Io grugnisco e mi sistemo sullo sgabello, adocchiando l'orologio appeso accanto al frigo. Penso proprio che ignorare il problema sarà più impegnativo del solito.

"Non questa mattina" mi limito a dire, immergendo il labbro superiore nella soffice spuma bianca del cappuccino.

Emetto un mugolio di piacere e mi rilasso completamente, accogliendo volentieri il dolce tepore della bevanda lungo l'esofago.

Mamma annuisce comprensiva e si infila i guanti di gomma fino ai gomiti, iniziando a scaricare la lavastoviglie.

Restiamo in confortevole silenzio fin quando non termino la mia colazione. A quel punto la raggiungo accanto al lavabo e mi allungo per afferrare la spugna e il sapone.

"Lascia fare" mi ammonisce subito, prendendomi la tazza di ceramica rossa dalle mani.

"Vai a vestirti, se non devi andare dal musicista puoi sbrigare delle commissioni per me" spiega, riponendo il bicchiere in dispensa.

Mugugno un lamento a mezza voce e torno a sedermi al tavolo, con la testa ciondoloni.

"Posso farle questo pomeriggio? Non sono nemmeno le nove. Sto morendo di sonno!".

"Pensa te, io mi sveglio ogni giorno alle sei e mezza per fare le faccende!" Esclama lei di rimando, abbozzando una risata finta.

"Nessuno ti obbliga a farlo, però" mugugno, incastrando il mento tra i palmi delle mani e chiudendo gli occhi.

La sento che sposta un paio di stoviglie per afferrare lo strofinaccio e poi si allunga per colpirmi. Io resto immobile e subisco il suo debole tentativo di punirmi, con il sorriso stampato in faccia.

"Vuoi farlo tu? Basta che me lo dici, io resterei volentieri a poltrire sotto le lenzuola!".

Ridacchio leggermente e le mostro il palmo di una mano, come per chiedere scusa.

"Grazie per i suoi servigi, madre" continuo soddisfatta, mentre lei sbuffa e tenta di nascondere un sorriso molto simile al mio.

"Pensa piuttosto ad un modo per ripagarmi" scherza lei, prima di cambiare l'intenzione delle sue parole e aggiungere "Per esempio continuando a studiare".

Io mi trattengo dallo sbuffare e mi sforzo persino di reprimere l'istinto che mi spinge a tornare in camera. Potrei dirglielo all'infinito, che non ho alcuna intenzione di continuare a torturarmi inutilmente con l'università, ma non servirebbe a nulla.

"Questi sono i momenti che non scambierei per nulla al mondo" dico invece, ora improvvisamente seria.

"Se andassi all'università non esisterebbero più. Non ci vedremmo più ogni giorno, al massimo per Natale e il mio compleanno. È questo che vuoi?" sussurro, alzando lo sguardo su di lei, che sospira e si limita a scuotere il capo.

"Sono solo scuse, Vanilla. Ogni madre odia vedere i propri figli andare via di casa, ma è un passo che devi fare. Io non voglio dirti come vivere la tua vita, perché appartiene solo a te. Ma sono tua madre e il mio lavoro è impedirti di commettere degli errori, di cui al momento non sei consapevole".

"Forse" mugugno, spostando lo sguardo sullo schermo ora illuminato del mio telefono.

Lo prendo in mano e, ignorando mamma che ha ricominciato a parlare, controllo il messaggio appena arrivato. Deglutisco e mi inumidisco le labbra, tentando di ritrovare anche la voce.

"Devo andare a lavoro" la interrompo, ricontrollando di nuovo il testo. Magari me lo sono immaginato.

"Pensavo che non dovessi andare stamattina?" domanda lei, chinandosi per estrarre altri piatti dalla lavastoviglie.

Io annuisco brevemente e alzo di nuovo gli occhi su di lei. "È che mi sono confusa con gli orari" spiego brevemente.

"Sicura? Non è che è successo qualcosa? Anche l'altro giorno ti ho vista strana ... E poi ti ha pure chiamato tardissimo ieri sera".

Mamma mi segue con lo sguardo mentre esco dalla cucina, ma io mi fermo solo per qualche secondo. Il tempo di raccontarle una mezza verità.

"In questo periodo è solo più impegnato del solito, quindi mi chiama più spesso. Il ché è un bene per il mio portafogli! E riguardo gli orari ... Beh, lo sai che i musicisti possono essere particolari per certi versi".


Fortunatamente, Calum ha semplicemente scritto "Vieni a lavoro stamattina" nel messaggio, senza alcuna indicazione di orario.

Dico che è un bene, perché prima di riuscire a salire all'ultimo piano, ho passato almeno dieci minuti a fare avanti e indietro dalla porta d'ingresso a quella dell'ascensore.

Irreparabilmente indecisa sul da farsi, alla fine, mi sono praticamente spinta ad entrare nella scatola di metallo.

"Ho pagato anche il biglietto dell'autobus, tanto vale andare" borbotto, schiacciando il numero cinque sul tastierino di metallo e guardando tristemente le porte chiudersi davanti i miei occhi.

L'ascesa è fin troppo veloce, più di quanto ricordassi, quindi prima di riuscire a trovare una qualche stabilità emotiva in me stessa, mi ritrovo già a due passi dall'appartamento.

"Magari è uscito, sono già le dieci" ragiono, controllando l'orario sul display del telefono. Poi mi auto-convinco per qualche secondo in più e prendendo un respiro profondo, mi avvicino alla soglia.

Non appena spingo le chiavi nella serratura, sento chiaramente il zampettare scoordinato di Duke, che corre verso l'ingresso. Reprimo un mezzo sorriso e apro la porta, controllando prima che l'atrio sia vuoto.

La casa è immersa nel silenzio e non ci sono scarpe nelle vicinanze dell'appendiabiti. Di solito le lascia sempre in prossimità dell'ingresso, quando rientra a casa. "Via libera" bisbiglio, sorridendo ampiamente al cucciolo.

"Sei arrivata, finalmente".

Neanche il tempo di mettere piede oltre il tappetino di benvenuto, che la sua voce mi congela sul posto.

Strizzo gli occhi e mi stringo la borsetta a tracolla alla pancia, sperando che la pressione riduca l'intensità del formicolio che sento alla bocca dello stomaco. "Era una trappola!" Penso, con gli occhi stralunati.

"Sì, c'era traffico" mento, non azzardandomi a muovermi dal punto in cui mi sono fermata.

È troppo tardi per tornare indietro, ma non mi sento comunque in grado di sedermi sul divano al suo fianco e fingere che ieri sera non sia mai esistita.

Ogni volta che lo guardo sono di nuovo nel parcheggio della clinica, ad ascoltarlo blaterare cose insensate. Vorrei poter evitare di pensarci, ma il mio cervello non funziona così.

Anzi, quando succede qualcosa è più che entusiasta nell'analizzare ogni singolo dettaglio dell'accaduto.

"Fino a scoppiare" mormoro le ultime parole ad alta voce, attirando l'attenzione di Calum.

Quando punta i suoi occhi scuri su di me, mi mordo un labbro fino a sentire il vago sapore del sangue e fisso lo sguardo sulle onde del mare, visibili dalla grande finestra. Una delle cose che mi piace di più di questo posto è proprio la vista mozzafiato.

"Che hai detto?" ripete, posando la chitarra acustica su un cuscino e organizzando in una pila i fogli pentagrammati sparsi tutt'intorno.

"Niente. Perché mi hai chiamata se sei a casa?" gli chiedo invece, sfilandomi la borsa dalle braccia e sedendomi all'estremità del divano. Più naturale di così, si muore.

Lui si gratta un sopracciglio e osserva piuttosto attentamente il punto in cui la mia schiena incontra il tessuto del sofà. Sono tesa quanto le corde della sua chitarra, forse anche di più.

Sembra quasi incantarsi a guardare le mie mani che si pizzicano nervosamente a vicenda, poi però distoglie lo sguardo e fa spallucce, tornando a comporre la sua musica.

"Sono impegnato, anche questo è lavoro. E poi volevo vederti" spiega brevemente, prendendo in mano una matita e tornando a scribacchiare note musicali, come se fosse niente.

"Che?!" sbotto.

"Quello che ho detto".

"Okay. Allora ti tengo Duke lontano" borbotto, afferrando il cagnolino che intanto mi è salito sulle ginocchia.

"Sembra che il veterinario ti abbia fatto bene, sei più dolce del solito!" gli sussurro in un orecchio, grattandogli la pancia.

"Non posso dire lo stesso del tuo padrone, però. Lui sembra fuori di testa".


Per le due ore successive la situazione rimane pressappoco la stessa. Calum non alza gli occhi dai suoi sparititi nemmeno per controllare l'ora e io cerco disperatamente di non far rumore e di intrattenere Duke affinché gli stia alla larga.

È da menzionare che, allo stesso tempo, cerco con altrettanta angoscia di dimenticare tutto ciò che mi ha detto nelle passate ventiquattro ore.

Il compito, quindi, risulta più difficile di quanto pensassi e non aiuta il fatto che, nonostante i miei sforzi, sia costantemente sul punto di domandargli qualcosa tipo "Ma quindi lavoro ancora per te?".

O meglio "Che significa quello che mi hai detto ieri sera? Cosa cambia se sai anche anche tu mi piaci? E sei sicuro che ti piaccio in quel modo?".

Muoio dalla voglia di chiederglielo, ma non riesco a trovare la voce o il coraggio per farlo. Quindi, dopo essermi liberata di Duke, che finalmente dorme arrotolato tra le sue copertine, mi siedo su uno sgabello in cucina e rimango a fissarlo.

Magari riesco a trasmettergli i miei pensieri per telepatia.

"Ho qualcosa in faccia?" Mi chiede di punto in bianco, mentre strimpella gli stessi accordi per l'ennesima volta e scava buchi tra le linee dei pentagrammi con lo sguardo.

Non credo di averlo mai visto più concentrato di così. Pensavo che non farmi beccare sarebbe stato più semplice, e invece no.

"No, niente" rispondo subito, con tono fin troppo acuto.

"Allora gradirei che la smettessi di squadrarmi a distanza" borbotta, tornando alla sua musica.

Io sbuffo e strascico un "Okay" decisamente poco cortese. Poi mi appoggio con il busto all'isola della cucina e accavallo le gambe, pronta ad appisolarmi, con il mento incastrato nel palmo di una mano.

Provo a sonnecchiare per una manciata di minuti e ascolto ad occhi chiusi la sua voce bassa che mormora probabili testi di canzoni e accordi di chitarra.

Nonostante sia uno dei suoni più rilassanti che abbia mai sentito, non riesco comunque ad ignorare i miei pensieri.

"Quindi" inizio, risistemandomi sullo sgabello di metallo. Calum alza lo sguardo dallo strumento per lanciarmi un'occhiata e risponde al mio tentativo di intavolare una conversazione con un "Mh?" Decisamente poco interessato.

"Di solito sono il tipo di persona che darebbe qualsiasi cosa per evitare un confronto, ma in questo caso non ci riesco proprio" continuo, approcciando lentamente il sofà.

Ho le piante dei piedi sudate, tanto che mi scivolano sulla suola di gomma delle infradito. Deglutisco e tento di ignorare la sensazione, appoggiandomi allo schienale con entrambi i gomiti.

Calum è seduto a terra, con le gambe incrociate e il doppio dei fogli con cui aveva iniziato a comporre qualche ore fa.

L'appartamento è ancora un mezzo disastro, a causa del festino del passato fine settimana, quindi il disordine degli spartiti si fonde bene con le circostanze.

"Io penso che non ci sia nulla da dover chiarire, ti ho già detto tutto" risponde, alzandosi da terra con un grugnito.

Lo guardo con le labbra socchiuse mentre si stiracchia tra i cuscini e circumnavigo il divano per sedermici accanto. "Ma scherzi?".

"No" ribatte, con tono vagamente interrogativo. Resta a guardare la mia espressione sconcertata per qualche secondo, poi batte le mani e si volta verso di me. Adesso le sue ginocchia toccano le mie e una mano mi carezza la spalla.

"Senti, ti ho già detto tutto quello che dovevo" si interrompe per sorridermi. Non so come interpretare la sua espressione e nemmeno le sue parole, quindi resto in silenzio aspettando che continui.

"Tu mi piaci, però non mi sento in grado di farci nulla".

Io boccheggio in cerca d'aria fin quando lui non rimuove le sue dita dalla mia clavicola destra e poi scoppio a ridere.

"Pensavi che non lo sapessi? È ovvio che non puoi farci nulla se ti piaccio! Queste cose non si controllano mica. Il cuore fa come vuole".

"Non hai capito" insiste con espressione mortalmente seria. La sua mano torna a toccarmi, questa volta mi stringe il braccio.

"Provo interesse ne tuoi confronti, ma non voglio che accada nulla. Nè vedo frequentarci come una possibilità reale. Spero che tu non abbia interpretato male le mie parole, ieri sera. Ecco perché ti ho chiamata oggi".

A questo punto non sono sicura cosa sia adatto dire o provare, quindi serro la mandibola e riduco le labbra ad una linea sottile.

"Quindi non mi hai riassunta" mormoro, solo dopo un paio di secondi. È in questo momento che sorride per la prima volta, poi mi lascia andare.

"Non ce l'ho con te per quello che successo a Duke, però la settimana prossima inizia il Tour promozionale e ho deciso di portarlo con me. Non avresti potuto venire a lavoro a prescindere da ciò che è successo ieri".

"Ah" borbotto, grattandomi una tempia con un indice.

"Comunque, hai preso il biglietto per il concerto che faremo qui a Los Angeles?" Chiede, evidentemente entusiasta per l'idea di tornare a lavoro.

Io scuoto la testa lentamente. Nemmeno mi ricordo che fine ha fatto quel dannato biglietto, non che mi interessi saperlo.

"Pensavo che te lo avesse dato Luke, così mi ha detto Ashton. Però non fa nulla, se vuoi ancora venire puoi mandarmi un messaggio".

"Okay".

Calum mi sorride di nuovo e scivola a terra, per continuare a comporre. Io mi strofino le mani sulle cosce e poi mi alzo in piedi, dirigendomi verso la cuccia di Duke, che sveglio con una grattatina sul capo.

"Lo porto al parco" annuncio, adocchiando il suo collare. "Ho bisogno di una boccata d'aria".

Arrivo a malapena alla porta dell'ascensore, con un super entusiasta Duke provvisto di pettorina, che qualcuno mi si affianca.

Sospiro profondamente e fisso il pulsante di chiamata, ancora rosso. Non proferisco parola, ma il mio sbuffo deve essere abbastanza esaustivo, perché Calum mi sfila il guinzaglio di mano e pigia di nuovo l'interruttore.

"Anche io ho bisogno di uscire un po'. Vieni con me?".


MY SPACE:

Scrivere questo capitolo è stato un po' come andare sulle montagne russe, e bisogna considerare che io le detesto. Ho impiegato un giorno intero solo per trovare la voglia di continuarlo, perché come la maggior parte dei miei capitoli l'ho scritto a più riprese.

Però ce l'ho fatta! E spero che la lettura non vi abbia fatto troppo schifo e di rivederci anche al prossimo capitolo.

-Sara


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