Capitolo uno - La Columbia
Qualche mese dopo, mamma si ammalò gravemente.
Non conoscevo veramente la tristezza fino a quando non cominciai a vedere ogni giorno il lettone dei miei genitori vuoto e i corridoi bianchi e asettici dell'ospedale. Nessuno sapeva veramente dirmi cosa le stesse capitando. Mi reputavano troppo piccola per poter capire per davvero, eppure anch'io ci soffrivo.
La vidi sfiorire piano piano e cominciai a dimenticare come fosse il suono della sua risata o gli occhi pieni di gioia.
Ogni giorno mi sentivo sola, estremamente sola.
Andavo a scuola ma ero assente, da tutti, da tutto e anche da Daniel. La messa la domenica non era più bella come una volta, così come il pranzo di Natale o le cene in famiglia. Alla fine io e papà finivamo per ordinare il cibo e mangiare sul letto della mamma, anche mentre lei dormiva.
Eppure era sempre bellissima.
Un giorno chiesi a mio padre come potesse essere tanto triste quanto bella, non ricordo bene la sua risposta ma vidi come si illuminarono i suoi occhi guardandola. Allora lì capii. Capii come mai mia madre fosse bella anche da malata. Capii la forza dell'amore, del nostro amore.
Poi si spense.
Si spense tutto.
Dopo la morte di mamma, le mie giornate erano diventate più silenziose.
La casa ormai troppo disordinata, o forse troppo grande per me e papà.
Nonostante i mesi e le stagioni si susseguissero, anche ad agosto erano giorni di pioggia, perché la sua assenza mi faceva male, male da morire. Non avevo nessun altro, non mi aveva lasciato niente se non un vuoto nel mio petto e il cuore a pezzi. Papà stava ancora peggio.
Non riuscivo ad immaginare quanto fosse grande il suo dolore perché ero troppo concentrata sul mio.
Poi un giorno entrò dentro casa sventolando un foglio di carta. Era stato assunto per un nuovo lavoro in una delle città più grandi degli Stati Uniti.
New York.
Disse che sarebbe stata una bella opportunità e avremmo potuto ricostruire la nostra vita, essere felici.
Così partimmo, la Grande Mela mi sembrò ancora più grande di come l'avevo sempre immaginata.
Fino all'ultimo istante credetti che quella fosse una brutta idea. Ma non avevo niente alle spalle. Non avevo chissà quante amiche di scuola a cui dire addio, non avevo niente che mi trattenesse in quel piccolo paesino. Tranne Daniel. Ma Daniel era sparito da un bel po', come se la mamma se lo fosse portato via e con lei tutti i nostri ricordi.
La casa era più piccola a New York, ma più ordinata, più fatta per due. Era vuota, ma pian piano cominciò a riempirsi di nuovi ricordi. Il mio primo giorno al liceo, le mie amiche Debora e Felice, i nostri pigiama-party, le nostre prime feste. Il corpo di cheerleader. Il ballo di fine anno. Tony. Io e papà. Papà e Linda. Fiocco di neve, la nostra gattina. I Natali, i compleanni, e poi un giorno dalla cassetta postale, si pigiò sul pavimento una lettera.
Aveva il logo dell'università a cui avevo fatto domanda.
L'unica università, quella della mamma.
«Sophia! È arrivata!»
Linda ormai rimaneva cinque giorni su sette a dormire da noi e quel giorno, mentre preparava la colazione, fu la prima ad accorgersi della posta.
Quando bussò in camera e urlò quelle parole, io sobbalzai e lasciai tutto quello che stavo facendo.
Il mio futuro era in mano ad una perfetta sconosciuta di cui ormai riconoscevo anche il suo profumo.
«Ho paura.» le dissi mordendomi il labbro, ero stata una sciocca ad aver fatto domanda soltanto lì, ma la Columbia era tutto quello che avevo sempre desiderato. Finalmente potevo scegliere io.
«Aprila, dai forza.» mi incoraggiò.
Ci sedemmo attorno al tavolo, papà e Linda si tenevano la mano e io cercai in tutti i modi di non far tremare la mia.
Aprii la busta e poi il foglio, perfettamente piegato al suo interno, e cominciai a leggere ad alta voce:
**Columbia University**
Office of Undergraduate Admissions
2960 Broadway, New York, NY 10027
Cara Sophia Anderson,
È con grande piacere che le scriviamo a nome del Comitato di Ammissione della Columbia University. Dopo un'attenta revisione della sua candidatura, siamo lieti di informarla che è stata ammessa alla Columbia College per l'anno accademico 2024/2025
La sua ammissione alla Columbia University rappresenta un riconoscimento del suo eccezionale talento accademico, delle sue esperienze extracurriculari e del suo potenziale per contribuire in modo significativo alla nostra comunità. Il suo impegno per l'eccellenza è evidente, e siamo entusiasti di poterla accogliere nella nostra comunità di studenti dedicati, curiosi e innovativi.
....
Cordiali saluti,
Direttore delle Ammissioni
Columbia University
«Non ci posso credere! Andrò alla Columbia.» alzai lo sguardo verso papà, non che non volessi bene a Linda, ma in quel momento l'unico sostegno di cui avevo bisogno era lui, lui e nessun altro.
Lasciò la mano della sua compagna e corse ad abbracciarmi. Mi strinse forte come quando ero bambina. Non lo faceva da anni in quel modo, l'ultima volta era stato un abbraccio di dolore e di rancore. Adesso invece era felice, io lo sentivo.
Lo vidi piangere ma non dissi nulla, un po' stavo piangendo anche io.
«Avrei voluto ci fosse anche la mamma». gli sussurrai con il fiato sul collo. Lui non parlò, mi strinse ancora di più.
«Te lo meriti piccola mia, sapevo ci saresti riuscita.».
Finalmente potevo dare inizio alla mia vita, non che l'avessi messa in pausa, ma in tutti quegli anni forse quello era il momento che stavo aspettando da sempre e finalmente era arrivato.
Anche Linda mi abbracciò.
Mi sentii in colpa per essere stata sempre fredda con lei. Era una brava donna anche se non riuscivo veramente ad accettare l'idea che pian piano stesse entrando nelle nostre vite e si stesse prendendo tutto. Ma mi voleva bene e anche in quel momento lo fece capire.
«Sono contenta per te Sophia.» mi sorrise dandomi un bacio sulla fronte, proprio come fa una madre con la propria figlia. Eppure forse quel bacio avrei voluto fosse della mia.
Subito dopo, corsi ad avvertire le mie amiche, o meglio ad accertarmi che anche loro avessero ricevuto la lettera.
Nonostante tutto non volevo andarci da sola e sperai con tutta me stessa che loro fossero state accettate e che avremmo potuto affrontare quel viaggio insieme.
Forse in quei giorni la fortuna girava dalla mia parte perché qualche settimana dopo ci ritrovammo tutte e tre a festeggiare i nostri traguardi.
Ovviamente anche loro erano state prese.
«A noi, a quello che verrà.» disse Debora alzando il bicchiere di shot verso il centro del tavolo.
Quella sera eravamo riunite in uno dei locali più in periferia di New York. Non perché non conoscessimo altro, ma volevamo passare una serata soltanto tra noi e in quel locale, a quell'ora, non c'era nessuno.
Anche io e Felice alzammo i nostri bicchieri e subito dopo con un piccolo schiocco brindammo all'unisono.
Il liquido dello shot varcò la mia gola e scese lentamente bruciando ogni parete del mio intestino.
Guardai le altre e poi scoppiamo a ridere.
Quello era il momento migliore di sempre, me lo sarei portato per tutta la vita dentro al cuore.
La Columbia ci avrebbe cambiate, era qualcosa di inevitabile, ma mai divise e ne ero certa.
Non potevo sbagliarmi.
ANGOLO AUTRICE
Salve a tutt* grazie mille per aver cominciato a leggere il prologo di questa storia e per i bellissimi complimenti che ho ricevuto! Ne avevo bisogno.
Volevo solo darvi una piccola informazione.
Probabilmente pubblicherò due volte a settimana, il Lunedì e il Giovedì, salvo qualche imprevisto.
Al massimo ve lo comunicherò qui sotto.
Spero che la lettura della mia storia vi piaccia, fatemi sapere🫶🏻.
Baci,
Pennadeidesideri.
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