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Capitolo 74

C A P I T O L O 74

Sorvolavo la grande America da ormai un paio di ore.
Osservavo silenziosa il panorama che si estendeva sotto ai miei occhi, a chilometri di distanza che quasi mi spaventavano.
Viaggiare in aereo, per me, non era poi così piacevole.
Le gambe avevano cominciato a dolermi e anche la schiena.
Continuavo a cercare una posizione comoda che non trovavo e nonostante fossero passate soltanto due ore dalla nostra partenza, avevo cominciato a desiderare di uscire dal grande velivolo.

« Cosa succede, Kara? »

Voltai la testa a sinistra, scontrando le iridi scure della persona al mio fianco, scrutarmi con un'espressione preoccupata.
Sorrisi lievemente, scuotendo la testa.

« Nulla. Sto bene. Sai forse quando atterreremo? »

L'uomo dalla folta capigliatura si sporse leggermente in avanti, raggiungendo con le labbra l'orecchio di Javon seduto proprio dinanzi alla sua figura.
Gli sussurrò qualcosa, ed egli lanciò subito un'occhiata al suo orologio da polso che indossava.

« In mezz'ora dovremo atterrare » replicò.

Ritornò a guardarmi; un'espressione seria aleggiava sul suo volto finito.
Contrasse lievemente la mascella, marcando i suoi lineamenti impeccabili.
Sospirò, inumidendosi il labbro inferiore con la lingua.

« Mezz'ora. Non ci vorrà molto » mormorò.

Era visibilmente preoccupato e potevo perfettamente notarlo dal continuo sfregarsi le mani sul tessuto dei suoi pantaloni scuri.
Appena seppe della notizia, mi raggiunse in poco tempo con Bill, e ricordai la sua espressione sorpresa nel vedermi in compagnia di Javon.
Mi fece salire in macchina e, senza esitare, si era messo alla guida del volante mentre comunicava con i due bodyguards nel veicolo dietro al nostro.

« Come stai, Michael? » domandai.

Mi rivolse un lieve sorriso, sollevò un braccio per circondarmi la spalla minuta e mi attirò a sé, stampandomi un bacio sulla fronte.

« Tu come stai? » chiese a sua volta.

Lo fece di nuovo.
Evitò di rispondermi perché non voleva che mi preoccupassi per lui.

« Starò meglio solo se mi dici di stare bene » risposi.

Egli mi accarezzò i lunghi capelli, guardandomi in silenzio per brevi secondi.
S'inumidì le labbra e sospirò malinconico.

« Sto male » sussurrò.

Rimasi sorpresa dalla sua affermazione.
Odiava quando le persone si preoccupavano per lui e detestava il fatto che sapessi stesse male.
Ma quella volta non mentì.

« Sto male all'idea di non essere riuscito a fare abbastanza. Non voglio che soffra. Mi fa male da morire » mormorò.

Aveva la voce strozzata e sapevo che stesse per piangere.
Percepii le sue mani nei miei capelli tremare e il suo sguardo vagava da una parte all'altra del mio viso.
Presi la sua mano nella mia e voltando di poco la testa, ne baciai la nocca.

« Non è colpa tua. È soltanto mia » dissi.

Solo allora scoppiò in lacrime.

« Perché? Perché darti sempre la colpa, Kara Jones? » esclamò.

Stavo per rispondergli, ribattere che lasciarli era stata una mia idea, ma lui mi anticipò, alzandosi quasi di scatto dal sedile per dirigersi verso al bagno in fondo al velivolo.
Lo osservai allontanarsi da me e non proferii parola.
Non volevo che si sentisse in colpa.
Non quando si trattava della mia famiglia.
Javon si voltò all'indietro, guardandomi con un'espressione quasi assente.
Stranamente in quel momento non indossava i suoi soliti occhiali dalle lenti scure.
Il suo collega invece, era intento a leggersi una rivista di moda, picchiettando con il piede sulla pavimentazione scura.
I suoi occhi vagarono per tutto il perimetro del mio viso, soffermandosi infine nelle mie iridi scure.
Mi fece un cenno col capo e capii subito che mi incitò a raggiungerlo, ma non volevo farlo.
Non volevo che si sentisse sotto pressione.
Volevo lasciargli un po' di spazio, ma forse dovevo ancora imparare come essere una vera amica.

« Mi manderà via prima che lo raggiunga » esordii.

« Cavolate. Sono sicuro che ti starà aspettando, in questo momento. Conosco il signor Jackson da tanti anni ormai » rispose.

Gli rivolsi un'occhiata grata e senza proferire parola, mi alzai, incamminandomi verso al bagno.
Mi soffermai dinanzi ad essa e attesi per brevi secondi, prima di bussare.

« Sto per uscire. Scusami, faccio in fretta. »

« Michael, posso entrare? » domandai.

Lo avevo sussurrato più a me stessa che a lui.
Ma egli riuscì lo stesso ad udirmi e in pochi secondi, notai la porta socchiudersi lentamente.
Mi affacciai e rimasi leggermente sorpresa, quando mi accorsi che il bagno non era poi così piccolo, come me lo immaginavo.
Il giallo pastello dominava gran parte delle pareti e una grande doccia era piazzata in fondo alla stanza.
Vagai con lo sguardo ovunque, soffermandomi sulla sua figura poco distante dalla mia.
Aveva le mani poggiate sul lavandino di marmo e con sguardo quasi assorto, osservava in silenzio il riflesso della sua alta figura.
Varcai la soglia, chiudendo la porta alle mie spalle e con passi leggeri avanzai nella sua direzione.

« Mi dispiace, Michael » sussurrai.

Egli scosse la testa, abbassando di poco la testa per poi sospirare.

« Kara Jones. Non è colpa tua » rispose.

« Non è neanche colpa tua, Michael » esordii, arrestando la camminata una volta al suo fianco.

Sollevò la testa, guardandomi attraverso lo specchio, con un'espressione seria.
Le sue iridi scure erano velate da una luce malinconica.

« Avrei potuto evitarlo » biascicò.

« Di cosa stai parlando? »

Rovesciò la testa all'indietro, sospirando rumorosamente.
Sollevai una mano per sfiorargli il viso finito e al mio lieve tocco, chiuse gli occhi.
Era più preoccupato di me e nonostante lo conoscesse da un paio di mesi, sembrava ci tenesse per davvero.

« Tuo padre starà bene, non è così? » domandò.

Percepii una morsa al basso ventre e l'aria mancarmi.
Starà bene?
Non lo avrei potuto sapere. Ma pregavo che non gli succedesse nulla.
Avevo bisogno di lui.
Non gli risposi. Mi posizionai dietro alla sua alta figura, e con le braccia gli circondai il busto dalle spalle larghe.
Poggiai la mia testa sulla sua schiena e chiusi gli occhi, percependo gli occhi pizzicarmi.
Egli in risposta portò le mani sulle mie, stringendole dolcemente e con la punta delle dita, mi disegnava cerchi immaginari lungo le nocche poco fredde.
Mi rilassai sotto al suo tocco genuino, seppur lascivo.
Cercava di confortarmi, di rendersi partecipe al mio dolore.
Voleva sapessi che non ero l'unica a soffrire, a credere di aver sbagliato.
E ci riuscii.










« Stammi vicino. Non rispondere a nessuna domanda e non allontanarti nemmeno per un secondo, chiaro? »

Avevamo da poco atterrato e Michael, premuroso com'era, mi aveva per la seconda volta avvertita.
Ancora dentro al grande velivolo, potevo udire l'urlo eccitato dei suoi ammiratori.
Ero sorpresa.
Dopotutto era davvero tardi.

« Michael, io- »

« Bill, Javon, il fotografo lì davanti. Vi prego, allontanatelo » parlò, ignorandomi completamente.

Era la seconda volta che apparivo al suo fianco, davanti alle telecamere e ai suoi ammiratori.
Non volevo che ci scoprissero, sopratutto dopo al grande scandalo di qualche mese fa.
Sapevo benissimo fin dove sarebbero potuti arrivare i giornalisti.
Non volevo che soffrisse.
I due uomini al suo fianco annuirono e, aggiustandosi gli occhiali dalle lenti scure sul naso, si allontanarono, uscendo dal velivolo.
Mi guardai attorno, respirando a pieni polmoni.
Ero agitata, spaventata di apparire nuovamente sotto ai riflettori.
Michael mi prese la mano, intrecciando le nostre dita.
Gli rivolsi un'occhiata sorpresa, cercando di sciogliere la presa, ma egli sembrò insistere.

« Cosa stai facendo? » gli chiesi.

Quello sarebbe stato di sicuro un atto genuino e romantico, ma avrebbe potuto anche scaturare scalpore.
Ed io non volevo.
In risposta, egli mi guardò, sistemandosi con la mano libera, la fedora scura sul proprio capo.

« Non sai ancora di cosa sono capaci. Stammi solo vicino. Al resto ci penso io » biascicò.

Non gli risposi.
Mi limitai a guardare altrove, sospirando piano.
Come avrei potuto dirgli che avevo paura di ferirlo?
Lui sembrava così deciso e sicuro di quello che stava facendo.
Annuii lievemente, stirandomi i pantaloni lungo le gambe.
Fu tutto in un attimo.
Michael si affacciò e un boato di urli riecheggiò nelle mie orecchie.
Lo intravidi sorridere, marcando così le due fossette ai lati delle sue labbra impeccabili, mentre agitava in alto una mano, salutando la massa di persone riunita proprio poco lontano da noi.
Mi fece cenno con la testa di uscire e titubante lo ubbidii, posizionandomi al suo fianco.
Solo allora avvertii la folla impazzire.
Gridavano a squarciagola, tenendo fra le mani vari cartelloni colorati in onore della celebrità proprio alla mia sinistra.
Mi sentii fuori luogo, partecipe in un ambiente non mio ed involontariamente aumentai la stretta alla mano, ricevendo da parte sua un mugolio di dolore.

« Rilassati, piccola » mi sussurrò.

« Scusami » biascicai, guardandolo per brevi secondi dal basso.

Ricambiò lo sguardo e mi sorrise dolcemente, per poi cominciare a scendere la grande scaletta con me al suo fianco.
Mi tremavano le gambe, ero agitata, preoccupata all'idea che avrebbero potuto infangare il suo nome, per colpa mia.
Lui, dal canto suo, sembrava rilassato.
Continuava di tanto in tanto, ad agitare la mano e a mandare baci immaginari che riuscivano a strapparmi un dolce sorriso.
Era bello vederlo sorridere.
Raggiungemmo l'ultimo gradino e quando scendemmo quest'ultimo, Javon e Bill ci affiancarono immediatamente, seguiti da altri tre uomini in divisa scura.

« Signor Jackson, chi è la ragazza? »

Una donna sulla quarantina si era avvicinata a noi quasi correndo.
Teneva in mano un microfono e indossava un completo opaco.
Al suo fianco vi erano tre uomini con delle macchine fotografiche, intenti ad immortalare il momento che sarebbe poi finito per i prossimi mesi in prima pagina.

« Signor Jackson, è la ragazza dell'altra volta. Come si chiama? » esclamò.

Luci abbaglianti continuavano ad accecarmi, e raggiungere il veicolo, diventò un'impresa quasi impossibile.

« Non sono tenuto a rispondere alle domande » esordii serio, mantendo però la sua solita educazione.

Mi avvicinai maggiormente alla sua alta figura, percependo l'aria mancarmi.
Eravamo in mezzo alla folla di giornalisti che continuavano a porgerci domande, ad abbagliarci con dei flash accecanti.
Lui ci era ormai abituato, perché era preoccupato solo a tenermi vicino al suo corpo.
Sembrava rilassato, nonostante la confusione.

« Signor, vi prego di lasciarci spazio. »

Bill, con l'aiuto di altri bodyguards, era intento a bloccare con le braccia i reporters che, malgrado la nostra ormai lontananza, continuavano a lottare per poterci raggiungere.
Sembravano impazzire.

« Stai bene? »

Spostai la mia attenzione sulla persona al mio fianco, osservandolo per brevi secondi, prima di ripuntare l'attenzione sul percorso dinanzi a noi.

« Sto bene » replicai.

Raggiungemmo l'auto scura in pochi minuti e Javon ci aprì la portiera, invitandoci ad entrare.
Michael lo ringraziò gentilmente e mi lasciò spazio per passare, raggiungendomi subito dopo.
Mi accasciai sui sedili cinerei che dominavano il veicolo e ancora irrequieta, mi passai una mano sulla fronte.
Michael si sporse fuori dal finestrino e con un cenno della mano, salutò per un'ultima volta i suoi ammiratori, ed infine ritornò alla postazione di prima.
Si sistemò per bene la camicia e mi guardò.

« Sicura di stare bene? »

Annuii in risposta, mordicchiandomi il labbro inferiore.

« Mi sembrava solo di soffocare » mormorai.

Mi rivolse un sorriso dilettato, mentre allungava una mano per sfiorare la mia.
Le sue lunghe dita tracciarono una linea lungo le mie nocche, soffermandosi per poco sul polso ornato dal bracciale che lui stesso mi regalò.
La nostra promessa.

« Non te lo togli mai, signorina Jackson? »

Lo guardai sorpresa, voltandomi poi a destra e a sinistra, assicurandomi che non ci fosse nessuno.

« No, Kara. Qui non ci sentirà
nessuno » sussurrò.

Solo allora mi rilassai.
I giornalisti erano ormai lontani da noi.

« Come potrei? » domandai.

Passò le dita sopra al gioiello, quasi ad accarezzarlo e prima che potessi parlare, egli mi prese nuovamente per mano, intrecciando per la seconda volta le nostre dita.

« Mi piace prenderti per mano » mormorò.

Sorrisi dolcemente, giocherellando con le sue lunghe dita affusolate.

« Dovresti farlo più spesso » parlò all'improvviso.

Gli rivolsi un'occhiata interrogativa, attendendo che continuasse.

« Abbacciarmi. Mi piace quando lo
fai » continuò.

Arrossii istintivamente, percependo il familiare formicolio al basso ventre.
Com'era possibile che, anche in certe situazioni, riusciva a scaturare in me emozioni così forti?

« Dovrei farlo spesso? » chiesi in un sussurro.

Lui annuì, inumidendo le proprie labbra con la lingua.

« Sempre. »

Un largo sorriso spuntò sulle mie labbra e sebbene fossi davvero felice, cercai di nascondere l'euforia guardando fuori dal finestrino.
Sapeva benissimo quale effetto aveva su di me e mi rendevo conto che, guardarmi in quello stato, gli giovava.
Tuttavia, non avrei potuto per sempre sfuggirgli.
Avrei dovuto amarlo, mostrarlo al mondo intero come una semplice coppia avrebbe dovuto fare.
Prendergli la mano anche in pubblico e coccolarlo proprio in quel momento, nonostante le mille telecamere puntate addosso, l'attenzione dei suoi ammiratori.
Volevo farlo.
Ma in quell'istante mi bastava solo averlo al mio fianco.
Un amore segreto.
Un amore folle.
Mi bastava amarlo in silenzio.

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