Capitolo 42
C A P I T O L I 42
Il cinguettare assordante ed insistente del mio amico usignolo, mi svegliò dal mio profondo e rilassante sogno, sobbalzando subito dopo quando udii delle piccole urla provenienti dall'altra parte della stanza.
Sospirai rumorosamente, sollevando le braccia in alto per stiracchiarmi, poi voltando lo sguardo verso destra, mi accorsi che le tende della mia camera erano leggermente aperte.
Lanciai un'occhiata fuori dalla finestra, notando che la giornata, quel giorno, non era una delle migliori.
Pioveva e nonostante fossero le nove passate, non vi era traccia di quel sole raggiante e splendente di pochi giorni fa.
Mi alzai del tutto dal letto, poggiando i piedi per terra.
Il contatto della superficie fredda del pavimento in legno contro alla mia pelle nuda, mi causò dei brividi lungo le gambe che percorsero subito tutta la mia colonna.
Camminai verso al mio bagno personale, spalancandola per poi fiondarmi dentro.
Allungai una mano per poggiarla sulla superficie di marmo fredda, come a reggermi dal mio corpo ancora pesante.
Odiavo dover ritrovarmi in quello stato nel fine settimana. Era domenica e quello era il giorno libero per tutte noi dipendenti, quindi avrei potuto passare la mia giornata nel modo in cui volevo io.
Senza lavorare.
Mi lavai per bene il viso, cercando di togliere tutta la stanchezza della lunga è stressante settimana ormai alle spalle.
Ma non fu molto d'aiuto.
Chiusi il rubinetto dal getto d'acqua fredda, allungando una mano a destra per afferrare il mio asciugamano pulito, cominciando a tamponarlo sul mio viso dalle palpebre ancora pesanti.
Una volta finito, uscii dal bagno, dirigendomi verso al grande e largo armadio in legno scuro, spalancandola alla ricerca di qualcosa di comodo da indossare.
Optai per un paio di jeans scuri a vita alta e una camicia rossa incastrata elegantemente dentro ad essi con una cintura scura.
Mi pettinai i lunghi capelli biondi, mettendoli di lato; poi afferrai un paio di orecchini a perla chiari e, specchiandomi li indossai con maggiore attenzione.
Li adoravo perché era l'ultimo regalo che mi fece Angie, prima della mia partenza.
Prima di uscire dalla mia grande camera accogliente, mi risistemai nuovamente, portando una ciocca dei capelli dietro all'orecchio, poi socchiusi la porta, uscendo per dirigermi verso alla camera dove provenivano quelle urla fastidiose.
Percorsi il tratto di corridoio con le luci spente; facendo percorrere le mani lungo il scorrimano lucido e dalla superficie liscia.
Chi è che urlava in quel modo di prima mattina?
Scesi la rampa di scala ricoperto da un bellissimo tappeto veneziano, raggiungendo così la cucina cui porta era socchiusa leggermente.
« Qual è il problema? Perché non vuoi più darmi retta?! »
« Glen, dovresti smetterla di urlare. Non svegliamo Kara, ti prego. »
Quella voce maschile la conoscevo perfettamente. Michael?
Mi accostai maggiormente alla porta, tendendo di poco l'orecchio verso ad essa, per ascoltare meglio.
Se ci fosse stata mia madre in quel momento, di sicuro mi avrebbe afferrata per un orecchio, fatto girare per tutta la casa e rimproverata, dicendo che origliare faceva male alla salute.
Ma poco mi importava in quel momento.
Perché Glenda era così furiosa? E perché quel nomignolo così ridicolo?
« Glen? Adesso siamo ritornati ai tempi in cui stavamo insieme? Perché non la smetti di fingere per una volta, e dirmi realmente quello che provi per me? » esclamò ella.
Udii la sedia scivolare ed infine dei passi lenti e leggeri.
« Ti conviene non avvicinarti, Michael. »
« Perché vuoi sapere quello che provo? Cosa cambierebbe? » domandò egli.
Quel tono di voce serio e profondo lo avevo già sentito una volta.
Era lo stesso che aveva rivolto a me il giorno in cui Javon mi aveva osservata per tutto il tempo.
Cosa stava cercando di fare? Prendersi gioco di lei?
« Non cambierebbe nulla. Ma sono soltanto stanca di doverti vedere sempre con Kara. Tutto quello che ti interessa adesso è sapere dov'è, come sta e della sua famiglia. Perché della mia non ti è interessato? »
Spalancai gli occhi a quella domanda, sentendo il mio cuore battere all'impazzata.
« I tuoi genitori non avevano accettato la nostra relazione, lo sai. Ho chiesto la loro benedizione, ma loro mi hanno rifiutato. Ho cercato di parlarli, mettere le cose in chiaro, ma non mi hanno mai voluto dare ascolto, Glenda. Io avrei fatto di tutto pur di averti. Ti avrei dato tante cose. Ma i tuoi genitori avevano chiuso gli occhi anche a te. Cosa avrei dovuto fare? » chiese, con tono di voce ferito.
La prima cosa che compresi di quel uomo è che odiava ferire il prossimo.
« Avresti dovuto accettarmi anche per quello che ero diventata. »
Abbassai lo sguardo, sentendomi subito ferita.
Era come se in quel momento mi trovassi al posto di Glenda: una donna ferita e senza speranze.
Mi ricomposi, allungando una mano per aprire del tutto la porta, ma qualcuno mi precedette, spalancandola del tutto.
Intravidi la figura di Glenda, gli occhi rossi per via delle lacrime e la voce strozzata dai singhiozzi.
Ella appena si accorse di me, si bloccò, osservandomi per vari secondi nelle iridi, per poi oltrepassarmi e correre via al piano superiore.
La guardai con un accenno accorato, mordicchiandomi il labbro inferiore, poi, ricordando che Michael era ancora dentro, varcai la soglia con passi lenti, cercandolo con lo sguardo.
Lo trovai davanti al bancone, con le mani su di esso e la testa china.
« Michael... Stai bene? » domandai con voce flebile, restandogli ferma poco distante.
Egli sospirò, scuotendo la testa.
Si raddrizzò, passandosi una mano sulla nuca e solo allora mi accorsi del suo abbigliamento.
Indossava una camicia azzurra e nera, i suoi soliti pantaloni neri e la sua cintura elegante attorno alla vita.
I suoi mocassini neri erano stati tirati a lucido e le sue famose calze bianche non mancarono a mostrarsi quando lui si voltò verso di me, facendo un passo in avanti.
« Perché non esci un po', oggi? Credo ti farà bene » mormorò.
Gli mostra gli abiti che indossavo, come a fargli capire che era quello che avrei voluto fare, quel giorno.
« Bene » si limitò a dire, camminando verso alla mia direzione, pronto ad oltrepassarmi.
Ma lo bloccai, afferrandolo per un braccio.
« Posso almeno sapere se stai bene? » gli chiesi con tono di voce pacato, avvicinandomi leggermente al suo corpo per poterlo osservare meglio negli occhi.
Le sue iridi scure erano leggermente dilatate e potei subito notare il suo sguardo cupo ed addolorato.
Si increspò le labbra, portando una mano sulla mia guancia, sfiorandola lentamente.
« È meglio se non ne sai niente. Non vorrei ferirti » sussurrò.
Alla sua risposta aggrottai lievemente le sopracciglia, cercando di capire di più da quelle semplici ma dirette parole.
Michael invece si limitò ad accennarmi un lieve sorriso, staccandosi dalla mia presa per dirigersi fuori dalla cucina, chiudendosi di poco la porta alle spalle.
Ferirmi? Di cosa stava parlando?
Tenevo un bicchiere di succo in mano, mentre bussavo alla porta che conduceva nella camera di Glenda.
Michael era uscito proprio dopo avermi piantata in asso quella mattina, indossando solamente una lunga giacca invernale.
Avevo da poco finito di fare una colazione abbondante, prima di percorrere quel tratto di scala e fermarmi dinanzi alla porta in legno chiusa.
« Lasciami stare, chiunque tu
sia » esclamò.
« Glenda, sono io, Kara. »
« Oggi è domenica, non si
lavora. »
Sorrisi leggermente alla sua risposta, avvicinandomi maggiormente alla porta.
« Senti, volevo soltanto dare una ripulita al pavimento. Michael mi ha detto di farlo » dissi.
« Michael? Ora ti fa lavorare pure di domenica? » domandò, tirando su col naso.
« Allora, posso entrare? » chiesi.
Udii un sonoro sbuffo da parte sua, poi il silenzio.
Presi un bel respiro, socchiudendo infine il pezzo di legno che emise un leggerissimo cigolio.
Entrai con passi leggeri e lenti, facendo cadere la mia attenzione sulla sua figura seduta sul grande letto a baldacchino dalle fodere scure.
Aveva le gambe incrociate con tanti fazzoletti attorno e le tapparelle ancora abbassate.
Mi guardai attorno, notando subito il disordine di alcuni trucchi rovesciati per terra ed una scatola in cartone del tutto spalancata.
Avanzai titubante verso al suo letto, domandandomi se entrare fosse stata una buona idea.
« Come vedi non c'è nulla da pulire. È tutto in ordine » disse con tono freddo, continuando a tenere la testa abbassata.
Oltrepassai la scatola e m'incamminai nella su direzione, poggiando il bicchiere di vetro colmo di succo, sul mobiletto accanto al suo letto.
« Posso sedermi? »
Ella singhiozzò, annuendo infine.
Presi posto davanti a lei, poggiando un palmo sul materasso, affondandolo.
« Come stai? » mi azzardai a domandare.
Glenda non si mosse di un millimetro, anzi. Si limitava a giocherellare con un fazzoletto ormai stropicciato e quasi a pezzi.
« Come vuoi che stia? Non hai per caso sentito quello che è successo? » replicò.
Mi passai una mano tra i capelli, mordicchiandomi il labbro inferiore.
« Mi dispiace » sussurrai.
« Ti dispiace? Sul serio Kara? » domandò, alzando questa volta la testa.
La osservai nelle sue iridi che avevo invidiato sin dal primo giorno, scorgendo la malinconia dipinto in essi.
Annuii, cominciando a giocherellare con le mie proprie dita.
« Allora perché non ci lasci stare e ritorni a casa? » esclamò.
Sussultai leggermente, restando però seduta.
« Lo avrei fatto senza problemi. Ma io sono qui per lavorare. Non lascerò tutto e non scapperò da ciò che potrebbe aiutare la mia famiglia » mormorai.
Lei rise in modo sarcastico, portandosi nervosamente una ciocca di capelli dietro all'orecchio.
« Ecco qual è il tuo problema. Tutto quello di cui ti importa è la tua famiglia e la tua vita. Non ti importa dei sentimenti altrui. Sei soltanto un egoista! »
Egoista. Egoista? Lo ero veramente? Forse un pochino sì, ma non avrei potuto compiacerla e mandare tutti i miei piani a fumo.
Loro erano importanti. I bambini lo erano. Cosa ne sarebbe di loro?
Ero arrivata lì con un obiettivo e lo avrei raggiunto, anche con mille ostacoli.
« Hai ragione. Sono una grande egoista, e credo che ognuna di noi lo sia. Non posso lasciare che i miei genitori continuino a soffrire così come non posso lasciare che i miei bambini non si gustino la loro infanzia. Tu non vuoi che Michael mi stia accanto, e anche questo è egoismo. Ma lo fai per un motivo ed io lo comprendo. Hai paura di perderlo. Tu hai le tue ragioni, io ho le mie » risposi, mantenendo un tono di voce pacato.
« E dimmi. Una delle tue tante ragioni è Michael? »
Spalancai leggermente gli occhi a quella domanda, irrigendomi sul posto.
Certo. Gli sarei rimasta accanto anche a costo di oppormi.
« Michael non c'entra » mormorai, voltando lo sguardo altrove.
Odiavo dover mentire a qualcuno, ma non potevo di certo dirle proprio in quel momento che io stavo con lui.
« Ma lui non pensa la stessa
cosa » disse ella, sistemandosi l'abito azzurro sulle gambe.
« Senti, perché non usciamo un po'? È una bella giornata e credo che una passeggiata ci faccia bene » parlai, alzandomi dal materasso.
Ella mi scrutò da capo a piedi, seguendo ogni mio movimento con attenzione.
« Da quando vuoi fare la parte dell'amica? Non eri tu quella che non mi sopportava? » chiese.
« Non l'ho mai fatto, né pensato. Non ti vedevo come una
nemica » replicai.
Lei ridacchiò sarcastica, scrollando le spalle.
« Hai ragione. Quello lo facevo
io » disse.
« Vogliamo uscire? » chiesi nuovamente.
Ella mi osservò passiva per qualche secondo, infine, dopo averci riflettuto su, scosse la testa, negando.
« Non ne ho voglia. Esci tu. »
Mi sistemai la camicia dentro ai pantaloni, annuendo.
« D'accordo. Ma se cambi idea, basta dire » dissi.
Ella annuì, abbassando nuovamente lo sguardo.
La congedai con un cenno del capo, voltandomi per camminare verso alla porta, aprendola.
Feci per uscire, ma la sua voce mi bloccò.
« Kara? »
Mi voltai, guardandola con sguardo interrogativo.
«Non dovresti essere gentile con me. Non me lo merito » disse.
Le sorrisi appena, tenendo ferma la porta con una mano, poggiandola sul manubrio.
« Non lo sto facendo per te. Lo faccio più per me stessa » sussuraii.
Ella mi rivolse uno sguardo poco sorpreso, mentre io uscii, chiudendomi la porta alle spalle.
« Sii sempre gentile, Kara. »
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