Capitolo 18
C A P I T O L O 18
« Madre, non lo so, mi sento molto confusa e ho paura. »
Camminavo da una parte all'altra della mia grande stanza, mordicchiandomi l'indice, mentre cercavo in tutti i modi di scacciare via il nervosismo che si era creato in me.
Avevo osservato per tutto il tempo come egli, insieme a Glenda, camminava tranquillo, sorridendole ogni qualvolta che ella cercava di avere un contatto visivo.
Allungava qualche volta la sua mano, sfiorando di proposito il tessuto della sua giacca ed a lui non dava fastidio, anzi, continuava a camminare, come se non si accorgesse di quello che ella gli stava facendo.
Ed ora, mi ritrovavo al telefono con Angie, sfogando con lei, tutto ciò che provavo dentro.
Ero stanca di dover fingere alle mie emozioni, sui miei sentimenti.
« Kara, tesoro... Vuoi che ci incontriamo? Possiamo parlarne senza problemi, come un
tempo » mormorò ella.
Sospirai frustata, passandomi una mano fra i capelli.
Non volevo disturbarla con i miei problemi da donna innamorata, ma aveva ragione lei, parlarle mi avrebbe fatto solo del bene.
Dopotutto, potevo concedermi un minuto di pausa.
Guardai l'orologio che segnavano le quattro. Il momento giusto per uscire.
Io e Leticia avevamo compiuto le faccende domestiche in tempo, rinchiudendoci nelle nostre camere.
E ora non sapevo più che fare. Stare dietro a quelle quattro mura divenuti ormai soffocanti, mi creavano una certa malinconia, mentre Jackson si divertiva fuori con la sua domestica.
« Quando possiamo
incontrarci? » domandai, sedendomi sul materasso che affondò sotto al mio peso.
« Ti andrebbe bene domani? Farà presto buio e non ho voglia di allontanarmi dai bambini. Alan è occupato con il suo secondo lavoro e non riesce a
sostituirmi » replicò, leggermente mortificata.
Alan era il nuovo collega di Angie, nonché un suo compagno. Aveva preso il mio posto due giorni dopo la mia partenza e, nonostante fossero passate due settimane, i bambini continuavano a chiedere di me.
Sorrisi dolcemente, scuotendo la testa, come se ella potesse vedermi.
« È un'ottima idea. Non si preoccupi, madre. Domani è perfetto » risposi con tono di voce pacato, stringendo il telefono che era attaccato al mio orecchio.
La udii sospirare sollevata, ritornando a parlare poco dopo, con voce bassa: « Menomale. Spero solo che il tempo voli in fretta. Non vedo l'ora di riabbracciarti. »
« Anch'io, madre. Anch'io » sussurrai malinconica.
Osservavo il soffitto da un lasso di tempo indecifrabile, disegnando con le dita, cerchi immaginari, per poi cancellarli con la mente e ricominciare da capo.
Il buio era calato e il freddo aveva già fatto il suo ingresso, obbligandomi ad indossare una veste leggermente più pesante, sopra al mio lungo e buffo abito viola.
Michael e Glenda erano rientrati poche ore fa, e per tutto il tempo, potevo udire la voce stridula di ella, parlare a Leticia della sua intima e bellissima passeggiata con Jackson.
Non avevo voglia di uscire di camera mia.
Volevo stare per conto mio, anche se noioso un po' lo era, ma incontrare nuovamente il viso di lui mi lasciava una sensazione asfissiante al basso ventre.
Non volevo essere tradita dalle mie emozioni, dallo sguardo minaccioso di Glenda e da quello comprensibile di Leticia, che forse, sotto sotto, aveva capito qualcosa, mantenendo però la mia privacy.
Voltai la testa a destra, incrociando con gli occhi, la cornice posta sopra al mio comodino, raffigurante la mia famiglia.
Mia madre, mio padre, mia sorella ed io.
La presi in mano, osservandola attentamente.
In quello scatto, mia sorella mi circondava la spalla, stringendomi contro al suo corpo come se avesse paura di lasciarmi.
I suoi lunghi capelli di seta e bruni, le ricadevano lungo le spalle elegantemente, incorniciandole il suo viso finito le cui labbra erano dipinte in un sorriso raggiante, allegro.
Mio padre, una persona davvero alta e slanciata, mi era di fianco, ridendo contento, mentre con gli occhi, osservava mia mamma che aveva ricambiato lo sguardo.
Uno scatto bellissimo e quel momento era impresso nei miei ricordi in un modo indelebile.
L'unico e bel ricordo della mia famiglia al completo.
Sospirai angosciata, mordicchiandomi il labbro inferiore per reprimere le lacrime.
Non volevo piangere perché sarei apparsa debole, affranta.
Anche se ero a distanza di chilometri dai miei genitori, dovevo continuare a sorridere, fingere come avevo fatto per tutto il tempo.
In silenzio agghiacciante regnava in quella stanza seppur decorata, mi pareva spoglia.
Il suono delle lancette che completavano il loro quotidiano e noioso giro, spezzava di poco quella quiete splenica.
Sussultaii leggermente quando udii un suono alla porta, come qualcuno che stesse bussando.
Mi alzai, camminando verso ad essa, dopo aver indossato le mie pantofole.
Quando mi soffermai dinanzi alla porta, restai in attesa per un momento, assicurandomi di non aver sentito male.
Ma poi, quel rumore si ripeté.
Poggiai una mano sul legno freddo, l'altra sulla maniglia dorata, roteandola.
Un profumo maschile invasero subito le mie narici e, quando scorsi una chioma di ricciolini ed una grande mano dalle dita affusolate, il mio cuore perse un battito.
« Kara, posso entrare? » la sua voce dolce e bassa mi fece scappare un sorriso, ed io annuii velocemente, spalancando del tutto la porta per permettergli il passaggio.
Ero felice all'idea che fosse venuto a cercarmi.
Egli entrò, chiudendosi la porta alle spalle.
Indossava una camicia sbottonata di seta gialla e sotto ad essa una canottiera bianca aderente, con lo scollo a v.
Non portava il suo cappello, anzi, aveva lasciato la sua chioma scura allo scoperto.
« Grazie » disse, accennandomi un sorriso allegro.
Solo allora il mio sguardo cadde su un album fotografico rosso ed elegante che teneva in una mano.
Lui seguì il mio sguardo, sorridendo infine con un largo sorriso, sollevandolo di scatto.
Mi guardò negli occhi, stringendo ora l'album in entrambe le mani, vicino al suo petto.
« Mi hai parlato di te, ora voglio parlarti di me » disse.
Ricambiai lo sguardo, sorpresa.
Davvero voleva condividere una parte del suo passato, della sua infanzia con me?
Sorrisi anch'io, invitandolo a sedersi sul mio letto ed egli ubbidì, come se non aspettasse altro se non quello di aprire finalmente, un discorso sulla sua maestosa e movimentata vita da cantante di fama mondiale.
« Devi sapere molte cose su di me, Kara » cominciò, poggiando l'album sulle proprie gambe.
Io lo raggiunsi, sedendomi al suo fianco.
« Del tipo? » domandai, inclinando la testa di un lato.
« Del tipo che sono un gentiluomo. Che fuori dal palcoscenico, sono una persona come te. Un comune mortale. Ho dei sentimenti e un cuore. Quello che faccio sul palco non influenza sulla mia vita privata. E ciò che faccio, lo faccio per i bambini, per le persone, gli animali » rispose, parlando con voce dolce ma profonda, portandosi una mano all'altezza del petto.
La sua voce era delicata, fine.
Potevo perfettamente notare la malinconia e la felicità traspirare dai suoi occhi profondi e scuri.
Un gentiluomo? Eccome se lo era.
Gli sorridevo estasiata, guardandolo come se stessi osservando la cosa più interessante e rara al mondo.
Egli invece, aprì la prima pagina dell'album, incitandomi ad avvicinarsi ancora di più a lui, per poter osservare meglio.
Gli ubbidii senza esitare e, con gambe leggermente tremanti, mi avvicinai al suo corpo protettivo, sfiorandogli le gambe con le mie.
Ero così troppo vicino a lui che potei perfettamente decifrare tutti i suoi lineamenti docili seppur marcati.
« La mia storia inizia a Gary, esattamente nel 1958. 29 Agosto 1958 » disse, mostrandomi una foto rappresentante lui da neonato.
La sua carnagione scura era stata messa a fuoco dal flesh dovuto allo scatto e, seppure fosse scura, si poteva benissimo osservare un po' di rossore dipingere quella cute delicata, segno che era appena stato concepito.
Sorrisi divertita ma anche intenerita, poggiando una mano sul materasso, dietro alla sua schiena, mentre l'altra andai ad adagiarla sulle mie gambe.
Poi, dopo aver osservato la mia reazione, ridacchiò divertito, sfogliando la pagina.
Subito dopo intravidi due fotografie raffigurante un gruppo di bambini con pochi anni di differenza. Davanti a loro, una donna e un uomo intento a cingerle la spalla.
« Questi siamo io e i miei fratelli. Eravamo al tempo dei Jackson Five » spiegò, mostrandomi un'altra foto che si trovava sotto a quella attuale.
Cinque bambini con in mano dei strumenti musicali, intenti a suonare ed a cantare.
« Questo sono io! » esclamò, indicando con l'indice, un bambino in mezzo alla sala, con in mano un microfono e la bocca semiaperta.
« Cantavi già da così piccolo? » domandai, spalancando leggermente gli occhi.
Lui annuì, mordicchiandosi il labbro inferiore.
« Ero un bambino prodigio » mormorò, con un velo di malinconia.
Lo guardai e lui ricambiò lo sguardo, accennandomi infine un mezzo e lieve sorriso, poi, ritornando a poggiare la sua attenzione sulle fotografie, riprese a parlare, come se niente fosse.
Eravamo insieme da circa un'ora e mezza e per tutto quel tempo, Michael mi aveva parlato della sua infanzia, di quando Joseph, suo padre, obbligava lui e i suoi fratelli a cantare mattina e sera.
Mi aveva raccontato della sua malattia, la vitiligine e mi aveva accennato del suo incidente alla testa, mentre era intento a girare la pubblicità per la pepsi.
« Ho iniziato a fare uso di antidolorifici da quel momento, quando i dolori non cessavano, anzi, si facevano più forti e frequenti » disse, guardandomi.
Io lo ascoltavo in silenzio, trovando questo suo mondo e modo di vivere, triste ma interessante.
Inoltre, da come avevo potuto vedere dalla realtà e dalle foto, Michael si occupava di donare dei soldi in beneficenza.
Aveva girato tanti ospedali, orfanotrofi, scuole e si era sempre fermato a giocare con i bambini, come una persona umile, normale.
In Africa, Russia, Italia, era andato ovunque.
Ma poi, mentre sfogliava l'album in cui vi era racchiuso i suoi momenti tristi, felici, la sua infanzia e la svolta nella carriera da solista, notai una foto, raffigurante una bella donna dai capelli bruni e corti.
Aveva gli occhi azzurri con qualche sfumatura verde e il suo sguardo era serio, troppo serio.
Ma nonostante ciò, era assai bella.
Le sue labbra leggermente carnose erano dipinte di rosso, mentre indossava al collo una collana di perle bianche, alle orecchie invece, un paio di orecchini eleganti.
« E lei? Lei chi è? » domandai, allungando una mano per indicargli la foto.
Lui si lasciò sfuggire un sorriso triste, sospirando.
Passo l'indice sulla foto, come se volesse accarezzarle il viso privo di imperfezioni.
« Lei è Lisa Marie. La donna di cui ho perso la testa. »
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