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Capitolo 7 - Imbarazzo mattutino.

Katherine.

Il giorno dopo mi svegliai riposata; sentivo, più che vedere, il sorriso sulle mie labbra. Avevo trascorso una notte tranquilla, nella stanza di Jenna. Il suo letto era a due piazze, così mi aveva proposto di sdraiarmi accanto a lei, nel posto che un tempo, prima che morisse, spettava a suo marito. Era stato strano, all'inizio. Non mi era mai capitato di dormire nel letto di una sconosciuta, a chilometri da casa mia, e occupare il posto di un defunto. Ma mi ero ambientata, alla fine, avevo sentito il respiro regolare di Jenna al mio fianco e, guardando le stelle fuori dalla finestra circolare sulla parete di fronte, avevo chiuso gli occhi.

Mi ero addormentata quasi subito.

Avevo pensato agli incontri che fatto il giorno prima, ricordando la mia disperazione nel realizzare che ero rimasta sola in mezzo al nulla, ricordando il momento in cui avevo visto Shane per la prima volta e perfino il mio trovarmi spaesata di fronte a queste strane persone. Mi ero addormentata pensando a tutto questo, e quella mattina mi sentivo diversa. Più serena di quanto avrei immaginato, più rilassata. Era merito di Jenna, supponevo, del suo smisurato altruismo che mi aveva permesso di comportarmi come se fossi a casa mia.

Gliene sarei per sempre stata grata, anche quando me ne fossi andata da qui.

Vuoi davvero andartene, Katherine?, mi sussurrò maliziosa la mia voce interiore.

«Certo» risposi ad alta voce stiracchiandomi. Per fortuna Jenna era già scesa, altrimenti mi avrebbe dato della pazza che parlava da sola. Avevo deciso che sarei rimasta solo per qualche tempo, fino a quando non avessi trovato un lavoro, poi avrei cercato il modo di tornare a New York. In fondo Roxi aveva ragione: mi serviva vivere un'avventura, e quella aveva tutta l'aria di esserlo.

Sollevai una mano sopra la bocca per nascondere uno sbadiglio e gettai le gambe nude, coperte solo da un paio di pantaloncini rosa salmone, fuori dal letto.

Il mio reggiseno era disperso chissà dove nella lavatrice di Jenna, perciò, sotto la t-shirt, non indossavo nulla. Stranamente la cosa non mi turbava per niente; mi sembrava di aver sempre vissuto in quella casa. Doveva essere per merito di quella donna se mi sentivo tanto a mio agio.

Mi avvicinai alla piccola finestra esponendo il viso assonnato alla luce vivace del sole; doveva essere giorno già da un po', perché i raggi erano caldi e il sole alto nel cielo. Adoravo quella sensazione: il calore che si estendeva rapidamente fino a penetrare in tutte le parti del viso, e più giù, attraverso i vestiti. Avevo sempre amato il sole, anche se c'era stato un tempo, dopo la morte di mio padre, in cui mi ero chiusa in me stessa e accettavo solo di vedere la pioggia.

In quel periodo avevo odiato il sole più di quanto avessi detestato il camion che aveva investito mio padre, perché la luce significava felicità e non c'era più alcuna felicità, per me. Invece la pioggia era sinonimo di tristezza, e quella mi andava bene.

Rimasi qualche istante a godermi la luce del sole, poi mi ricordai che avevo dei capelli, in testa, e che dovevano trovarsi in uno stato pietoso dopo la notte appena trascorsa.
La sera prima non mi ero data la pena di legarli, quindi ora erano sciolti e più intricati del solito.

Jenna doveva avere un pettine, da qualche parte. Spostandomi i capelli dietro le orecchie mi diressi, a piedi nudi, verso la porta e scesi rapidamente la scala a chiocciola che conduceva al piano terra.

«Kathie!» esclamò Jenna non appena mi vide sulla soglia della piccola cucina. Era già vestita, lo stesso vestito a fiori che indossava ieri, o forse ero io che vedevo tutto a fiori e farfalle, lì.

«Buongiorno, Jenna» le sorrisi appoggiando le mani sul bordo di una sedia.

«Avrei bisogno di un pettine » dissi sollevando gli occhi. «Sai, i miei capelli... »

Lei annuì con un sorriso.

«Vado a prendertelo di sopra, ne approfitto anche per svegliare Will.»

Mentre mi passava accanto e imboccava la scala, si voltò per dirmi un «il caffè è pronto, serviti pure.»

«Grazie» sussurrai ma lei stava già salendo le scale, non ero sicura mi avesse sentito.

Mi avvicinai verso il piano cottura, dove si trovava la brocca contente il liquido scuro, e me ne versai un po' in una tazza. Il caffè era quasi freddo, ma sentivo di averne bisogno; sarebbe stato  mia carica per affrontare la giornata.

Stringendo la tazza tra le mani, percorsi distrattamente la cucina e il piccolo corridoio, poi spalancai di poco il portone di casa e mi appoggiai con la spalla allo stipite. Lasciai vagare lo sguardo sulle abitazioni che si trovano di fronte; vidi una donna sulla sessantina innafiare la serie di fiori sul davanzale della finestra, e un paio di ragazzi che correvano, in tute decisamente fuori dal normale, lungo il marciapiede.

Era tutto così diverso, lì, perfino più di quanto avessi pensato appena arrivata. Tutto avveniva in modo più naturale, spontaneo, la gente non si preoccupava di apparire strana o disinvolta, non aveva paura dei pregiudizi o delle critiche. Mi sarebbe piaciuto portare questo piccolo mondo anche a New York, un giorno. Ero dell'idea che tutti avremmo vissuto meglio in un modo libero da ogni costrizione.

Mi portai alle labbra la tazza di caffè, e all'improvviso scorsi l'unica persona che avrei voluto non mi vedesse mai appena sveglia.

Shane stava percorrendo il marciapiede di fronte alla casa di Jenna, elegante come lo ricordavo, lo sguardo assorto e vagante davanti a sé. Indossava un paio di jeans stretti che gli fasciavano dannatamente bene il sedere, e una camicia grigia arrotolata ai gomiti; la mano sinistra trasportava quella che supposi fosse la su valigetta da medico.

Per un attimo mi mancò il respiro, e sperai che non si accorgesse della mia presenza, così feci per rientrare quando il suo sguardo si spostò dalla strada verso l'alto e poi alla sua sinistra.

Proprio dove mi trovavo io.

Avrei voluto sotterrarmi. Sparire dalla faccia della terra in meno di un secondo. Così mi sarei risparmiata la figura che stavo per fare.
Ero senza trucco, avevo i capelli arruffati, la tazza vacillò tra le mie dita instabili e, solo grazie alla mia prontezza di riflessi, riuscii a tenerla prima che cadesse. E, ricordai diventando paonazza, non indossavo il reggiseno.

Mi morsi un labbro dandomi della stupida, mentre sul volto di Shane compariva un'espressione divertita.

«Buongiorno» disse con un sorriso, fermandosi appena dietro la recinzione del giardino.

«Vedo che hai trovato una sistemazione!» Il suo sorriso si allargò. «Ne sono felice. »

Il suo sorriso è così maledettamente bello.

«Anch'io.» Cercai di sorridere, per quanto la situazione fosse totalmente imbarazzante e priva di ogni grazia.

«Sono contento di vederti» continuò Shane facendomi un gesto con la mano libera dalla valigetta. «Dopo, se ne hai voglia, possiamo discutere del lavoro che ti ho offerto ieri.»
Mi strizzò l'occhio e mi ritrovo, mio malgrado, ad esaminare la curva perfetta del suo sedere fasciato dai jeans scuri quando si allontanò, mentre cercavo di metabolizzare quello che aveva appena detto.

Il lavoro che mi ha offerto?

Ora ricordavo.

Forse, tuttavia, nonostante non avessi assolutamente idea di cosa l'assistente inesperta di un dottore dovesse fare, lo avrei accettato.

Certo, solo per imparare un mestiere.
Sì, mi convinsi mandando giù l'ultimo sorso di caffè.
Era sicuramente per questo che ero decisa ad accettare. Non era l'idea di passare del tempo insieme a lui a rendermi tanto elettrizzata.

No, anche perché la cara Jessica me l'avrebbe fatta pagare cara. Ma in fondo, anche se non si sarebbe detto, io amavo le sfide.

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